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Dall'opera
 
LAURA FONTANI THOMAS, Mondo Sub, Montedit, luglio 1997, pp.64 , Lit.8.500 - ISBN 88-86957-15-7
Presentiamo il primo racconto
 
 
LA SCHIACCIATA CON L'UVA
 
L'indifferenza.
Dal sapore di una stanza senza finestre, la gente che cammina di corsa per la strada chiudendosi rabbrividita nel cappotto. L'indifferenza di un pasto senza senso, a quattr'occhi. Quando il silenzio si nasconde nelle parole, ma non negli sguardi.
 
Vagando tra le contrade umide di autunno della mia città antica mi sono trovata di fronte a un vecchio forno dal quale emanava l'odore aspro-dolce, inconfondibile, memoria di tutta l'infanzia, della schiacciata con l'uva. Di colpo la sensazione di quell'incontro si è impadronita della mia indifferente apatia.
 
La sfornano, è fumante. Forse anche troppo. L'odore dello zucchero si mischia a quello dell'uva cotta e degli angoli bruciacchiati della teglia. Il suono della campanella della scuola. I bambini, i fiocchi grandi, scomposti, colorati. L'attesa della schiacciata con l'uva all'intervallo delle dieci.
 
Io la mangiavo sempre da bambina, dalla Sora Beppa dietro l'angolo. Lo zio mi tirava per la mano dietro la mia grande sciarpa rossa. Faceva freddo fuori, si mangiava d'inverno. Una fuga da casa, la domenica mattina, quando si preparava il pranzo e non si poteva metter piede in cucina.
 
Lo vedevo grande lo zio. Sotto il suo borsalino, nel cappotto marrone, con il sorriso rassicurante. Quegli occhi dicevano tutto di fronte al pezzo di schiacciata con l'uva mangiata di nascosto alla zia. L'omone ridiventava piccolo; la rubava, la marmellata che gli avevano nascosto, e mi guardava con aria di complicità: la felicità della trasgressione forse l'unica sensazione di essere di nuovo bambini.
Camminavamo senza pausa sotto i platani stanchi del grande viale. Ogni volta, quando arrivavamo al forno, era sempre colmo di gente che si faceva largo, tra un cesto di ceci secchi e qualche salame appeso, per raggiungere il bancone dietro al quale si affacciava la Sora Beppa che li serviva senza tregua.
 
Mio zio, nonostante quella confusione da fiera, riusciva sempre ad attirare l'attenzione della donna: «Tre pezzi, come al solito... se ce li può incartare...».
La donnina gioviale, energica, si puliva di tanto in tanto le mani sul suo grembiulone. La vendeva con profitto la sua schiacciata, senza fiatare. E ogni volta ci domandava: «Tre... eccoli qua siete sicuri che la volete incartata?».
 
Ci sbirciava, con le gote un po' livide. Lo sapeva benissimo che l'avremmo mangiata subito, appena usciti dal negozio. Ma questo non si poteva dire.
Figuriamoci se la zia avesse saputo di queste nostre fughe domenicali rovina-appetito. Tutti erano a casa, a cucinare, nella cucina dove non si poteva metter piede.
 
«No, no, me la incarti per favore» insisteva lo zio stringendomi la mano, mantenendo sempre quella sua tipica flemma inglese e senza far trapelare nessuna espressione compromettente. Io, distrattamente, mi guardavo le dita livide dal freddo, ed ero solo contenta di pensare al Natale che si avvicinava, ai regali che avrei ricevuto e alla nostra schiacciata con l'uva.
Uscendo dal negozio salutavamo la Sora Beppa che era già indaffarata a seguire chissà quale altro cliente. Il pacchetto caldo se lo prendeva lo zio sotto braccio e godeva di quel calore mentre ci incamminavamo verso casa. Si gustava mentalmente il sapore del dolce. Passeggiando non riuscivo mai a togliere lo sguardo dalla strada, osservando le mie scarpe, la destra, la sinistra. E l'asfalto. E quel pacchetto di sigarette buttato via senza considerazione.
Come ogni volta, trovavamo ad attenderci la nostra panchina di fronte all'ufficio postale. Era quasi sempre vuota nei giorni di festa e, nonostante mi sembrasse una distanza infinita, era a non più di un centinaio di metri da casa. Mi aiutava lo zio a salirci, e ci si accomodava anche lui stendendoci sopra quel suo fazzoletto cifrato che tante volte serviva a proteggere il suo cappotto così impeccabile.
 
Era quello il momento cruciale del nostro segreto. Si sentiva già lo scartoccio della carta e l'odore più intenso dello zucchero che sprigionava dal pacchetto. Con un'occhiata di intesa ci lasciavamo già trascinare dalla nostra golosa fantasia: in fondo era proprio lì, di fronte ai nostri occhi, tutto il sogno di una domenica mattina.
 

 

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La prefazione di Olivia Trioschi
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Inserito 7dicembre 1997( "2r, au)