- Dal Canzoniere, ed. Einaudi, Torino
1961
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- La Malinconia
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- Malinconia
- la vita mia
- struggi terribilmente;
- e non v'è al mondo, non c'è al
mondo niente
- che mi divaghi.
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- Niente, o una sola
- casa. Figliola,
- quella per me saresti.
- S'apre una porta; in tue succinte vesti
- entri, e mi smaghi.
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- Piccola tanto,
- fugace incanto
- di primavera. I biondi
- riccioli molti nel berretto ascondi,
- altri ne ostenti.
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- Ma giovinezza,
- torbida ebbrezza,
- passa, passa l'amore.
- Restan sì tristi nel dolente
cuore,
- presentimenti.
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- Malinconia,
- la vita mia
- amò lieta una cosa,
- sempre: la Morte. Or quasi è
dolorosa,
- ch'altro non spero.
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- Quando non s'ama
- più, non si chiama
- lei la liberatrice;
- e nel dolore non fa più felice
- il suo pensiero.
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- Io non sapevo
- questo; ora bevo
- l'ultimo sorso amaro
- dell'esperienza. Oh quanto è mai
più caro
- il pensier della morte,
-
- al giovanetto,
- che a un primo affetto
- cangia colore e trema.
- Non ama il vecchio la tomba: suprema
- crudeltà della sorte.
-
- ***
-
- Fanciulle
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- Maria ti guarda con gli occhi un poco
- come Venere loschi.
- Cielo par che s'infoschi
- quello sguardo, il suo accento è
quasi roco.
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- Non è bella, né in donna ha
quei gentili
- atti, cari agli umani;
- belle ha solo le mani,
- mani da baci, mani signorili.
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- Dove veste, sue vesti son richiami
- per il maschio, un'asprezza
- strana di tinte. È mezza
- bambina e mezza bestia. Eppure l'ami.
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- Sai ch'è ladra e bugiarda, una
nemica
- dei tuoi intimi pregi;
- ma quanto più la spregi
- più la vorresti alle tue voglie
amica.
-
- ***
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- A mia moglie
-
- Tu sei come una giovane
- una bianca pollastra.
- Le si arruffano al vento
- le piume, il collo china
- per bere, e in terra raspa;
- ma, nell'andare, ha il lento
- tuo passo di regina,
- ed incede sull'erba
- pettoruta e superba.
- È migliore del maschio.
- È come sono tutte
- le femmine di tutti
- i sereni animali
- che avvicinano a Dio,
- Così, se l'occhio, se il giudizio
mio
- non m'inganna, fra queste hai le tue
uguali,
- e in nessun'altra donna.
- Quando la sera assonna
- le gallinelle,
- mettono voci che ricordan quelle,
- dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
- ti quereli, e non sai
- che la tua voce ha la soave e triste
- musica dei pollai.
-
- Tu sei come una gravida
- giovenca;
- libera ancora e senza
- gravezza, anzi festosa;
- che, se la lisci, il collo
- volge, ove tinge un rosa
- tenero la tua carne.
- se l'incontri e muggire
- l'odi, tanto è quel suono
- lamentoso, che l'erba
- strappi, per farle un dono.
- È così che il mio dono
- t'offro quando sei triste.
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- Tu sei come una lunga
- cagna, che sempre tanta
- dolcezza ha negli occhi,
- e ferocia nel cuore.
- Ai tuoi piedi una santa
- sembra, che d'un fervore
- indomabile arda,
- e così ti riguarda
- come il suo Dio e Signore.
- Quando in casa o per via
- segue, a chi solo tenti
- avvicinarsi, i denti
- candidissimi scopre.
- Ed il suo amore soffre
- di gelosia.
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- Tu sei come la pavida
- coniglia. Entro l'angusta
- gabbia ritta al vederti
- s'alza,
- e verso te gli orecchi
- alti protende e fermi;
- che la crusca e i radicchi
- tu le porti, di cui
- priva in sé si rannicchia,
- cerca gli angoli bui.
- Chi potrebbe quel cibo
- ritoglierle? chi il pelo
- che si strappa di dosso,
- per aggiungerlo al nido
- dove poi partorire?
- Chi mai farti soffrire?
-
- Tu sei come la rondine
- che torna in primavera.
- Ma in autunno riparte;
- e tu non hai quest'arte.
-
- Tu questo hai della rondine:
- le movenze leggere:
- questo che a me, che mi sentiva ed era
- vecchio, annunciavi un'altra primavera.
-
- Tu sei come la provvida
- formica. Di lei, quando
- escono alla campagna,
- parla al bimbo la nonna
- che l'accompagna.
-
- E così nella pecchia
- ti ritrovo, ed in tutte
- le femmine di tutti
- i sereni animali
- che avvicinano a Dio;
- e in nessun'altra donna.
-
- ***
-
- La capra
-
- Ho parlato a una capra.
- Era sola sul prato, era legata.
- Sazia d'erba, bagnata
- dalla pioggia, belava.
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- Quell'uguale belato era fraterno
- al mio dolore. Ed io risposi, prima
- per celia, poi perché il dolore
è eterno,
- ha una voce e non varia.
- Questa voce sentiva
- gemere in una capra solitaria.
-
- In una capra dal viso semita
- sentiva querelarsi ogni altro male,
- ogni altra vita.
-
- ***
-
- Squadra paesana
-
- Anch'io tra i molti vi saluto, rosso-
- alabardati,
- sputati
- dalla terra natia, da tutto un popolo
- amati.
- Trepido seguo il vostro gioco.
- Ignari
- esprimete con quello antiche cose
- meravigliose
- sopra il verde tappeto, all'aria, ai
chiari
- soli d'inverno.
-
- Le angoscie
- che imbiancano i capelli
all'improvviso,
- sono da voi così lontane! La
gloria
- vi dà un sorriso
- fugace: il meglio onde disponga.
Abbracci
- corrono tra di voi, gesti giulivi.
-
- Giovani siete, per la madre vivi;
- vi porta il vento a sua difesa. V'ama
- anche per questo il poeta, dagli altri
- diversamente - ugualmente commosso.
-
- ***
-
- Il Borgo
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- Fu nelle vie di questo
- Borgo che nuova cosa
- m'avvenne.
-
- Fu come un vano
- sospiro
- il desiderio improvviso d'uscire
- di me stesso, di vivere la vita
- di tutti,
- d'essere come tutti
- gli uomini di tutti
- i giorni.
-
- Non ebbi io mai sì grande
- gioia, né averla dalla vita
spero.
- Vent'anni avevo quella volta, ed ero
- malato. Per le nuove
- strade del Borgo il desiderio vano
- come un sospiro
- mi fece suo.
-
- Dove nel dolce tempo
- d'infanzia
- poche vedevo sperse
- arrampicate casette sul nudo
- della collina,
- sorgeva un Borgo fervente d'umano
- lavoro. In lui la prima
- volta soffersi il desiderio dolce
- e vano
- d'immettere la mia dentro la calda
- vita di tutti,
- d'essere come tutti
- gli uomini di tutti
- i giorni.
-
- La fede avere
- di tutti, dire
- parole, fare
- cose che poi ciascuno intende, e sono,
- come il vino ed il pane,
- come i bimbi e le donne,
- valori
- di tutti. Ma un cantuccio,
- ahimé, lasciavo al desiderio,
azzurro
- spiraglio,
- per contemplarmi da quello, godere
- l'alta gioia ottenuta
- di non esser più io,
- d'essere questo soltanto: fra gli
uomini
- un uomo.
-
- Nato d'oscure
- vicende,
- poco fu il desiderio, appena un breve
- sospiro. Lo ritrovo
- - eco perduta
- di giovinezza - per le vie del Borgo
- mutate
- più che mutato non sia io. Sui
muri
- dell'alte case,
- sugli uomini e i lavori, su ogni cosa,
- è sceso il velo che avvolge le
cose
- finite.
-
- La chiesa è ancora
- gialla, se il prato
- che la circonda è meno verde. Il
mare,
- che scorgo al basso, ha un solo
bastimento,
- enorme,
- che, fermo, piega da un parte. Forme,
- colori,
- vita onde nacque il mio sospiro dolce
- e vile, un mondo
- finito. Forme,
- colori,
- altri ho creati, rimanendo io stesso,
- solo con il mio duro
- patire. E morte
- m'aspetta.
-
- Ritorneranno,
- o a questo
- Borgo, o sia a un altro come questo, i
giorni
- del fiore. Un altro
- rivivrà la mia vita,
- che in un travaglio estremo
- di giovinezza, avrà per egli
chiesto,
- sperato,
- d'immettere la sua dentro la vita
- di tutti,
- d'essere come tutti
- gli appariranno gli uomini di un giorno
- d'allora.
-
- (Dal Canzoniere, Milano, Garzanti,
1951)
-
- ***
-
- Tre momenti
-
- Di corsa usciti a mezzo il campo, date
- prima il saluto alle tribune. Poi,
- quello che nasce poi,
- che all'altra parte rivolgete, a quella
- che più nera si accalca, non è
cosa
- da dirsi, non è cosa ch'abbia un
nome.
-
- Il portiere su e giù cammina
come
- sentinella. Il pericolo
- lontano è ancora.
- Ma se in un nembo s'avvicina, oh allora
- una giovane fiera si accovaccia
- e all'erta spia.
-
- Festa è nell'aria, festa in ogni
via.
- Se per poco, che importa?
- Nessun'offesa varcava la porta,
- s'incrociavano grida ch'eran razzi.
- La vostra gloria, undici ragazzi,
- come un fiume d'amore orna Trieste.
-
- (Dal Canzoniere, cit.)
-
- ***
-
- L'ora nostra
-
- Sai un'ora del giorno che più
bella
- sia della sera? tanto
- più bella e meno amata? È
quella
- che di poco i suoi sacri ozi precede;
- l'ora che intensa è l'opera, e si
vede
- la gente mareggiare nelle strade;
- sulle mole quadrate delle case
- una luna sfumata, una che appena
- discerni nell'aria serena.
-
- È l'ora che lasciavi la campagna
- per goderti la tua cara città,
- dal golfo luminoso alla montagna
- varia d'aspetti in sua bella
unità;
- l'ora che la mia vita in piena va
- come un fiume al suo mare;
- e il mio pensiero, il lesto camminare
- della folla, gli artieri in cima
all'alta
- scala, il fanciullo che correndo salta
- sul carro fragoroso, tutto appare
- fermo nell'atto, tutto questo andare
- ha una parvenza d'immobilità.
-
- È l'ora grande, l'ora che
accompagna
- meglio la nostra vendemmiante
età.
-
- (Dal Canzoniere, cit.)
-
- ***
-
- Teatro degli Artigianelli
-
- Falce martello e la stella d'Italia
- ornano nuovi la sala. Ma quanto
- dolore per quel segno su quel muro!
-
- Esce, sorretto dalle grucce, il
Prologo.
- Saluta al pugno; dice sue parole
- perché le donne ridano e i
fanciulli
- che affollano la povera platea.
- Dice, timido ancora, dell'idea
- che gli animi affratella; chiude: "E
adesso
- faccio come i tedeschi: mi ritiro".
- Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in
giro
- rosseggia parco ai bicchieri l'amico
- dell'uomo, cui rimargina ferite,
- gli chiude solchi dolorosi; alcuno
- venuto qui da spaventosi esigli,
- si scalda a lui come chi ha freddo al
sole.
-
- Questo è il Teatro degli
Artigianelli,
- quale lo vide il poeta nel mille
- novecentoquarantaquattro, un giorno
- di Settembre, che a tratti
- rombava ancora il canone, e Firenze
- taceva, assorta nelle sue rovine.
-
- (Dal Canzoniere, cit.)
-
-
- Il torrente
-
- Tu così avventuroso nel mio
mito,
- così povero sei fra le tue
sponde.
- Non hai, ch'io veda, margine fiorito.
- Dove ristagni scopri cose immonde.
-
- Pur, se ti guardo, il cor d'ansia mi
stringi,
- o torrentello.
- Tutto il tuo corso è quello
- del mio pensiero, che tu risospingi
- alle origini, a tutto il fronte e il
bello
- che in te ammiravo; e se ripenso i
grossi
- fiumi, l'incontro con l'avverso mare,
- quest'acqua onde tu appena i piedi
arrossi
- nudi a una lavandaia,
- la più pericolosa e la più
gaia,
- con isole e cascate, ancor m'appare;
- e il poggio da cui scendi è una
montagna.
-
- Sulla tua sponda lastricata l'erba
- cresceva, e cresce nel ricordo sempre;
- sempre è d'intorno a te sabato
sera;
- sempre ad un bimbo la sua madre austera
- rammenta che quest'acqua è
fuggitiva,
- che non ritrova più la sua
sorgente,
- né la sua riva; sempre l'ancor
bella
- donna si attrista, e cerca la sua mano
- il fanciulletto, che ascoltò uno
strano
- confronto tra la vita nostra e quella
- della corrente.
-
- ***
-
- Trieste
-
- (da Trieste e una donna,
1910-12)
-
- Ho attraversata tutta la città.
- Poi ho salita un'erta,
- popolosa in principio, in là
deserta,
- chiusa da un muricciolo:
- un cantuccio in cui solo
- siedo; e mi pare che dove esso termina
- termini la città.
-
- Trieste ha una scontrosa
- grazia. Se piace,
- è come un ragazzaccio aspro e
vorace,
- con gli occhi azzurri e mani troppo
grandi
- per regalare un fiore;
- come un amore
- con gelosia.
- Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via
- scopro, se mena all'ingombrata
spiaggia,
- o alla collina cui, sulla sassosa
- cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa.
-
- Intorno
- circola ad ogni cosa
- un'aria strana, un'aria tormentosa,
- l'aria natia.
- La mia città che in ogni parte
è viva,
- ha il cantuccio a me fatto, alla mia
vita
- pensosa e schiva.
-
- ***
-
- Città vecchia
-
- (da Trieste e una donna,
1910-12)
-
- Spesso, per ritornare alla mia casa
- prendo un'oscura via di città
vecchia.
- Giallo in qualche pozzanghera si
specchia
- qualche fanale, e affollata è la
strada.
-
- Qui tra la gente che viene che va
- dall'osteria alla casa o al lupanare,
- dove son merci ed uomini il detrito
- di un gran porto di mare,
- io ritrovo, passando, l'infinito
- nell'umiltà.
-
- Qui prostituta e marinaio, il vecchio
- che bestemmia, la femmina che bega,
- il dragone che siede alla bottega
- del friggitore,
- la tumultuante giovane impazzita
- d'amore,
- sono tutte creature della vita
- e del dolore;
- s'agita in esse, come in me, il
Signore.
-
- Qui degli umili sento in compagnia
- il mio pensiero farsi
- più puro dove più turpe
è la via.
-
- ***
-
- Dopo la tristezza
-
- (da Trieste e una donna,
1910-12)
-
- Questo pane ha il sapore d'un ricordo,
- mangiato in questa povera osteria,
- dov'è più abbandonato e
ingombro il porto.
-
- E della birra mi godo l'amaro,
- seduto del ritorno a mezza via,
- in faccia ai monti annuvolati e al
faro.
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- L'anima mia che una sua pena ha vinta,
- con occhi nuovi nell'antica sera
- guarda una pilota con la moglie
incinta;
-
- e un bastimento, di che il vecchio
legno
- luccica al sole, e con la ciminiera
- lunga quanto i due alberi, è un
disegno
-
- fanciullesco, che ho fatto or son
vent'anni.
- E chi mi avrebbe detto la mia vita
- così bella, con tanti dolci
affanni,
-
- e tanta beatitudine romita!
-
- Umberto Saba
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