LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

I grandi poeti contemporanei

 

Roberto Sanesi

Da "Il feroce equilibrio", (Guanda, 1957)

 
Il feroce equilibrio
 
Il personaggio nero che si stempera
nero di pece e di ferite, nero,
sotto un sole che è nero ed è rotondo
solo perché due vaste mani a conca
lo fecero impastato di bitume
e d'abbominio e di brusio d'insetti,
è un pilone di roccia e fermo muove
a un cielo giallo frantumato d'elitre,
fermo e veloce sotto un sole nero.
E poiché ciò che muove compie un corso
dall'eterno all'eterno, e ciò che è mosso
da una ferita all'altra in turbini di luce
si dispone secondo che lo spinge
ciò che lo muove, sole che trasuda
grasse costellazioni di petrolio,
l'uno muoverà sempre e l'altro sarà mosso
nel feroce equilibrio dei due neri.
 
 
 
Il granchio
 
Era al piede dell'onda che il granchio grattava, tenaglia
di ruggine molle di sabbia, cunicoli occulti nel salso
sapore del sole d'agosto, nel calmo sbavare di schiume
fra stecchi alla spiaggia venata di granuli rossi, tornava,
recava fatica nel moto scattante: crollava la volta
ogni volta che l'onda svegliava, con urti, con alghe,
cicloni di sabbia. La fiera d'Orfeo s'è mutata.
Nel libero gioco dell'acqua, ripresa, futuro, si schiera,
si piega ad oriente, ed il vertice spinge, tenaglia
di ruggine viva, nel cuore del ferreo orizzonte, trafigge
d'angoscia il più lieve elemento, lo plasma, si sveglia all'azzurro.
 
 
 
Les poètes levent des mains (a Sergio Dangelo)
 
Lungo la riva con occhi di ferro, in assalti di ruggine e sale,
i poeti ora levano mani accennate soltanto in un verde di teneri fuochi,
capelli spinosi venati di linfe, tre cactus di polpa impietrita, tre rami
che spingono al cielo una gotica accusa di sintesi mai contraddette,
di analisi in punta di spillo profonde a sanguigna in ferite incruente,
nel derisorio disordine dell'acqua e della polvere. Eppure due su tre si salveranno
quando una trepida vegetazione di mostruosi agnelli proporrà la resa
e la farà firmare decretando infranta l'ipocrita alleanza del gesso e dell'ardesia,
e il ladro volerà alla sua sinistra con i versi di Dylan nella tasca,
e Fortebraccio suonerà la tromba asciugandosi il naso in un sudario.
 
 
Da "Rapporto informativo" (Feltrinelli, 1966)
 
 
Falsamente dedicata
 
Credere in un futuro era il tuo segno: un regno in cui distinguere
l'orme dei tori e degli spettri sul verde inconcluso
dell'onda sull'onda, nell'acqua abbrunata dai pesci
dei fiumi incalzati dal mare, una sindone bianca
su cui progettare ferendo. Ma anche
era come rispondere a un adagio
musicale di simboli e di sillabe, un liquido incontro
del nulla con l'essere: e allora l'uccello demiurgo
poteva tracciare i suoi segni di luce tra i fili dell'erba, ridurre
il suo tempo e il suo spazio, fischiando,
e la ragione sul tuo viso in fiamme. Era questo il tuo regno. Lo slancio.
L'idea dui una rosa o di un ciottolo. E il tuo nessun procedere dal nulla
Di una cosa che nbasce da una cosa, casualmente,
si mediava ogni volta in un anello:
rime e rocce creature erano la durata di questo regno.
 
 
 
Arco di luce
 
Traccia un arco di luce alla finestra, un volo bianco
di passeri, inverno, che non rifuggono mai
da queste mura, e un fiore bianco, una natura morta
nemica fatta a immagine di noi. Rifiuta il fuoco
snello sopra le alture, il bucaneve
di Dio, ma esisti con gli oggetti, unisci
filo a filo la favola e l'idea, aria di libertà
creata e ricreata a un solo scatto
dei tuoi rami pesati dalla neve. Ascolta
come il silenzio brulica alle imposte, e come geme
la pietà in questo freddo. Se Minerva
non discende la notte coi sinistri
occhi d'intelligenza, accuseremo il cuore
della sua gravità che ci conduce al centro della terra.
 
 
 
Da "L'improvviso di Milano" (Guanda, 1969)
 
N.B. Per la loro eccessiva lunghezza non sono stati trascritti due testi che ritengo i più importanti di questa raccolta: Esperimenti sul metodo e L'improvviso di Milano. Sono tuttavia abbastanza facilmente reperibili.
 
 
 
Improvviso n. 3, le scale
 
Che il pozzo non si apra: guardare: tra le foglie
scure a forma di fiamma e lanceolate, negli angoli
liberty delle scale, ad ogni pianerottolo, aperte
tra le lampade azzurre di cristallo: guardare:
e si vedrà nei vuoti la mascella, un calidarium
funebre quando il passo arranca sulle scale
con le suole di gomma.
Attendere il respiro,
che il respiro si liberi dal peso, e per un attimo
toccare i ferri a spirale, volute, organismi, una mano
poggiata al legno continuo che si perde, una foglia
nella screpolatura dei muri polverosi, e per un attimo,
ancora,
trattenere il respiro, una mano, attendere il repiro
prima della salita. Guardare: e si vedrà nei vuoti
qella mascella aperta.
Non fatemi una predica. Non ditemi
Nulla.
Lo so che arriverò fino alla porta.
Mi accoglieranno.
 
 
Epigramma
 
Tranne l'arte, che è già da tempo dannata
dalla curiosità degli inferni o dall'indifferenza,
gli angeli mi disturbano, ma
non mi colgono mai di sorpresa quando vengono
a offrirmi frutta di cera perfettamente imitata.
Quanto a me preferisco una mela bacata
ala loro solenne, presuntuosa pazienza.
 
 
Il martin pescatore
 
A colpi d'ala ho visto
ridurre una nuvola al grafico
d'una sezione di nuvola, segmenti
tratteggiati d'azzurro e la parola cielo
scritta a inchiostro di china al limite più alto:
mi sono
chiesto come potesse muoversi in ascissa
su quelle alture geometriche se il vento
aveva già deciso la sua direzione.
 
 
 
Verso l'inverno.
 
Sempre in accordo con la mala cosa
le canne del bagno risuonano
di pomeriggi fauneschi, e la paura
tutta sghimbescia come un allegro bastardo
fa il verso a un piovasco di secoli. Ora
non posso più dubitarne: quest'Europa trotta
verso l'inverno con un piede solo.
 
 
 
Da "Alterego & altre ipotesi" (Munt Press, Samedan, 1974)
(Seledizioni, Bologna, 1982)
 
Alterego
 
Alterego, sberleffo, sfarfallìo docente
con una lunga marsina grigio-luccio,
il mio vecchio
maestro filisteo di silenzi inserisce
il suo profilo congegni di specchi infallibili,
ràpido
insinua piccole mani in un argento opaco,
e ne trae
minuscole anime cave, leggèri
bastoncelli strappati al sambuco, che colano
pallidi inchiostri viola, un archivio
d'ossessionanti analogie.
L'es-senza,
l'id-entità s'organizza in autòmi ceh vanno
a disporsi in rimandi, allusioni, fiorite
citazioni e commenti a piè di pagina,
e in suoni
e segnali scompigliano (logica
congruenza) i capelli accademici, crollano
da organi invisibili.
Il vecchio
Alterego, maestro di cappella,
ghigna candidamente dentro un libro
di nevi violentate.
 
 
 
La poesia non migliora con gli anni
 
… gli scarichi, le stampelle, lo chagrin, la via crucis,
i palinsesti della ragione, le sanies,
le dramatis personae che si dilettano
con decadenti concetti da caserma, i pidocchi
degli antenati, i monologhi…
 
anche a voler considerare la pietà e la opolvere
stratificate dal vento e dagli accadimenti
fra un elegiaco e un Seneca, e la voglia
di tirarsi la vita sulle spalle, strappandola
a tante malattie della scrittura
 
… e le rughe, le feci, le trasgressioni, gli umori
infetti, gli amori purulenti, le gaffes, i giullari
con il naso infiammato e le parole a pezzi
e le malinconie dialettiche &endash; freddi
psichiatri naufragati a Capo Horn
secoli addietro
resta fermo il fatto
che tutte queste sono giustificazioni
accettabili prima
ci cadono i capelli
il mattino
delle giunture elastiche, delle visioni solari
nel becco dei merli impazziti, degli occhi chiari,
del gusto della menta nei giardini
inzuppati di pioggia e di intenzioni &endash; le acque
lustrali, si direbbe &endash; non si sa mai
quando comincia a fiorire
… e le gambe
divaricate, i colpi di fischietto, le confessioni, le sabbie
della storia, le ipotesi, le petizioni, le unghie
che non graffiano idee, la lingua che non batte
sulla coscienza…
se è vero
che della vita ti accorgi guardandoti allo specchio,
la poesia non migliora con gli anni.
 
 
 
 
Da "La differenza" (Garzanti, 1988)
 
Cosa si può vedere
 
Oh le incredibili vecchie, le strepitose
fantàsime dell'aria, stravolte..
poiché talvolta basta un vento secco, un leggero
stridere di cicale fra i baccelli, e subito
fuggono a intrufolarsi in qualche angolo
della tua mente. Pensavi che fossero idee.
Gonfiano invece solo per un attimo
luoghi del tutto impropri, si staccano
come sospinte da un peso verso terra, dove
approdi banalmente. Non è che non vi sia
qualche rapporto: ma la natura si sposta
in modo così rapido, e solo se dimentichi puoi dire
di averle viste davvero.
 
 
 
Alterego entra in scena come Perceval
 
Proprio alla cima sottile della mia inquietudine
si è aperta una ferita. Un verde e un blu scurissimi
sotto le increspature del fiume, o della fronte, quasi
a stabilire un identico dubbio, una sola
intensità di pensiero in questa mutazione che non cede
altro che dal fondo, nella durezza limpida del sasso
o dell'elmo curvato. Sempre sapendo che se gli occhi fissano
il centro della luce, è come da un interno che riverbera
il punto oscuro, il rifugio, la màcula
immacolata. Malgrado il vero problema di solito consista
nel gancio di ritorno, nel nòttolo d'arresto o nella botola
che si richiude di colpo, e solo in quel momento
ti accorgi del viaggio. Deserto levigato di certezze mentre
si rigenera attorno orribilmente quel bosco dipinto
alle mie spalle, e la corazza, la cotta, gli speroni
frusciano e battono a imitazione di una strana vita
se tutto ciò che si muove è per timore d'essere coinvolto.
E quello che mi dico è insopportabile.
 
 
XI. Frammento, dicembre
 
Attraverso la neve, dal giardino, sale
quell'aria delle fragole che allora, con fragile
incrinatura, Montale canticchiava con il capo
piegato sopra un piatto di minestra.
Ora che alla finestra il gelo si rapprende,
una minuscola bava spezza il cerchio chiuso
fra le labbra e la voce, ridiscende al vuoto
di un cielo annuvolato di dicembre:
noi restiamo quaggiù, senza più attendere.
 
 
 
 
Da "Mercurio", 1994
 
Vanno vengono, salgono, scendono,
prendono strade laterali, attraversano il parco,
infittiscono l'acqua di corpuscoli,
deglutiscono, annaspano,
e il vuoto si accartoccia, si lamenta, si tita da parte
gli piacerebbe restarsene da solo, in segreto,
indossa un kakemono, ma è molto difficile
pedinare gli occhi quando si srotola, e allora
ci sono pecore, respirazioni,
le fuliggini nuotano sulle alture volteggiando
con tutte le loro bandierine di carta,
con un sistema nervoso pieno di spilli e di spugne,
e i numeri si affannano come le tessitrici di Hon Kong
e poi hop! via! ricominciano daccapo
dietro una cordigliera di canali, spariscono.
È la vita quotidiana. E così
ho visto gemiti e consolazioni pascolare il verde,
colline che ingobbiscono nella bufera improvvisa,
teatri che si aprono e chiudono come pesci, come abbazie,
fuochi che attraversano le costole di Adamo,
specchi peripatetici che si spingono fino ai confini
del foglio e lo rosicchiano, faine del tramonto,
ma anche
flessuosità di punti e virgola, dittonghi occasionali
affamati di porpora e d'arcangeli,
luminiscenze profughe che passano come uccelli da preda,
estremità di pozzanghere e d'insetti. Non ha mai fine
la storia naturale. Per questo
non mancano rimbalzi, travestimenti, abluzioni,
la sensazione che esista una trasparenza insopportabile,
il piacere di scrivere da un paese inesistente,
lo scricchiolio della luce nei cespugli delle cripte,
le foreste vertiginose che inseguono nel sonno
il tam tam della lingua, le variazioni
inarrestabili che colano dalle fenditure dell'infanzia,
e le interrogazioni, i turbamenti, gli stupori, cose
legalmente riconosciuto &endash;
e tuttavia, sembra, del tutto inopportune
se si pensa a un disegno ragionevole, come
se fosse un vizio di lesa maestà
precipitare di nuovo all'origine.
 
 
 
LA MUTAZIONE DEL VUOTO
 
L'aria istruisce il vuoto, e tuttavia il nome
della sua identità resta sospeso, e la forma
costringe quasi sempre a un compromesso.
Piega, connette, struciola, si inchioda
come la coda d'una rondine nel bosso, e di sera
diventa una lanterna, un pipistrello. Lo sguardo
alla finestra misura con la squadra falsa
qualsiasi fanatismo. È così, lo sappiamo,
l'aria sempre rigenera nel vuoto
le sue perplessità, ma non c'è mai nessuno
a dubitare della sua ragione. Per questo
siedo talvolta sotto gli alberi, e osservo
l'insigne esaltazione delle stelle fisse.
 
 
 
TUTTE LE COSE CHE CI VENIVANO INCONTRO
Finché tutte le cose che ci venivano incontro
con leggerezza di lago, con un passo che al momento
di posarsi restava a mezz'aria, o ripartiva, quasi
come colpito dal successivo prevedibile e
non accettabile peso del sentiero, mentre sul fondo
si intuiva una luce nebulosa, mobile, ma
sempre all'interno di noi che stavamo pensando
dove allacciare lo sguardo della via lattea
che stava attraversandoci; ebbene, a quel punto
tutte le cose che ci venivano incontro avemmo la certezza
che fossero noi due, ma non fu per paura
che non dicemmo nulla, perché ci bastava
osservare quel buio itinerante, fra noi e l'altra riva,
quella distanza, quella precisione, senza bisogno
di definire guizzi di lucciole, inizi, o confini,
quei bagliori minuscoli, intermittenti, che avevano
sostituito le immagini, le parole.
 
 
 
RITRATTO
 
C'è un profilo tremendo all'angolo più oscuro
della sua mente.
Si muove come l'acqua, si sfila dal pensiero
come sempre irritato dal falso equilibrio
della foschia della luna, della sedia rotta
lasciata in mezzo a un campo. E può essere
anche sepolto, a tratti, nel risentimento
di un territorio estraneo, ma non è
per espiare il senso dell'esilio se in fondo
al corridoio decide di parlare. La regola
che lo comanda è il suo ritorno, la sua
divagazione in ogni differenza. Soltanto
qui si può riconoscere, insensato
vuoto contrario al nome che lo assilla.
 
 
 
ARIA DI GENNAIO
 
Anche la neve contribuisce all'idea
che ci si debba decidere.
Ma appena entrati nell'aria di gennaio,
che è come sempre forzare una porta
o sospingere un vetro con delicatezza,
non è più imbarazzante enumerare i sintomi
di quelle forme bianche rigorosamente
irregolari, contingenti, malgrado
la straordinaria chiarezza della luce, sul fondo,
che ci vediamo costretti a interpretare.
In questo senso la neve ci identifica: segno
Del movimento, incessante, compiuto
cominciamento.
 
 
 
MALGRADO QUELLE TALPE
 
Malgrado quelle talpe che come vedi
passano a stento nelle strettoie, fra le radici
frugando nella storia come se fosse un giardino
delle delizie, la mente un campo di saggina dolce
da falciare col metodo del diavolo, tu
resti seduto a gambe larghe con il crepuscolo
che ti ingrigisce, e non riesci nemmeno a capire
con quali strani relitti si adorna
il deserto, come il buio si macina per essere
l'aria così sfumata di fuliggini: solo
a tratti la luce si infila come una specie
d'occhio impazzito nell'angolo del fiume, e ti genera
una frase interrotta, una forma dispersa e transitoria,
ma si capisce benissimo che la speranza
di un gesto consapevole, di un mutamento, di una qualunque
ipotesi che ti consenta di dire amen
senza vergogna, dev'essere affondata nel terriccio
che ti si accumula nero fra le unghie, inutile
èrpice ritrovato all'ultimo momento.
 
 
 
PER INFINITE PIANURE
 
Travestito da sogno, disseminato
per infinite pianure,
perseguitato da troppi indizi per essere
capace di orientarmi, a volte immagino
di prevedere luoghi precedenti, spingendo
sempre più avanti il segnale
che definisce il campo, il fossato, il filare,
come seguendo nell'ombra che si sposta
la sferza della trebbia, il fuoco fatuo
del grano che precipita in pulviscolo. E penso
in questi casi al ritorno, essendo la pianura
un turbine di vuoto attraversato
da una sola figura, che non mi assomiglia.
 
 
 
LO VEDI, É LA LINGUA
 
E così ora ti senti
piovigginoso, malato, pieno di avverbi autunnali,
di sostantivi distratti, di oggetti ritrovati
e subito perduti, sgretolati, di annotazioni che scorrono
per troppe pagine al piede della vita, e non sai
come funziona il gioco del rimando. La sola
ipotesi possibile ti sembra
l'invidia dello sguardo, la sua pena. Ma quando
ti soffermi alla soglia delle voci, al momento
che l'acqua si confonde
col pettirosso, con l'albero, con la collina,
è allora che le muffe
ti fioriscono attorno agli orecchi, e con delicatezza
tremenda assopiscono i suoni. Ti credi in ascolto
dell'imminenza, ma non era questo
che ti aspettavi, non questa dispersione del dolore
per ytutto il corpo. O meglio: non ancora.
Ti sarebbe piaciuto osservare con le dita,
e invece ti passano accanto i ritratti,
il ritaglio di un occhio, il profilo solenne o ridicolo
di qualche testa dai pensieri assorti.
Lo vedi, è la lingua
così cortese, ossequiante, precisa, ma in fondo
sempre più imbarazzante a pretendere tutta l'attenzione
di cui non sei capace,
e ti ritrovi impigliato in un frammento,
disperso dappertutto, un movimento estremo
quasi raccolto insieme dal no comment
che riprende ogni volta il suo racconto.
 
 
 
LECTIO FACILIOR
 
Qualcuno sale per vizio, altri discendono
per eccessiva virtù. Ma non è questo il punto.
Se riduci la legge a uno spaventapasseri
non hai altra misura che gli stracci,
e il suono dei barattoli nel buio.
 
 
 
a "ESERCIZI SPIRITUALI", 2
 
In che modo accettare il sussulto, l'insulto
di un dio che si rifiuta di essere già morto?
Lo abbiamo incontrato e lavato, nell'orto
delle desolazioni, senza visioni, malgrado
la crepa del terzo gradino, inseguendo il destino
delle meditazioni, l'intensità della grazia
con la sua miccia di sibili in mezzo al desérto.
Ora rimasticando, sputando con pazienza
quello che abbiamo detto e abbiamo fatto,
si ripropone il punto di partenza,
ombra non traducibile, sorriso stupefatto.
 
 
 
CANZONE DEL VESCOVO DI POITIERS
 
Cosa pensa il ferramenta
delle tenaglie, dei chiodi.
La mano che strappa la nuvola
non sega né pioggia né vento,
ma il suono si allontana, si rintana
triste feroce e idiota in una cupola.
Il suono che si finge uno strumento
per frugare gli articoli di fede.
Il freddo che si infila la parrucca
per ingannare il tempo dei miracoli.
Allora cosa immagina il teologo
del buio che si sposta così in fretta.
Fra gli avanzi di qualche auto-da-fé
Vede il pensiero che annusa il pensiero,
e nemmeno una trota, un cardinale o un ònfalo,
soltanto un nulla in giro con le forbici.
Allora cosa pensa il ferramenta
delle tenaglie, dei chiodi.
Il quinto giorno, a mezzanotte in punto,
Góngora stupefatto ascolta Ignazio.
 
 
 
RETRO DI COPERTINA
 
Alla larga dai salici piangenti,
dai cigolìi delle porte, dai lumi
dell'immanenza e dai gradini rotti, perché
non si riesce a capire chi è che si trascina
parlando così basso fra un'idea e l'altra
senza ferirsi mai, senza il minimo indizio
del tradimento. Davvero, è terribile
questo va e vieni delle stesse zampe,
il giro della frase, l'inpeccabile
anacoluto, l'ossimoro
la trappola elegante in un cunicolo
scavato dalla talpa ballerina.
 
 
 
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Inserito 19 febbraio 1999