Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
 Cesare Pavese
E la ricerca della
realtà simbolica
di Olivia Trioschi
 
 
E Cesare seduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina...: sono versi di una vecchia, ormai vecchia, canzone che De Gregori intonava con la sua voce pensosa nei mitici, ormai mitici, anni Settanta; lo scroscio della pioggia faceva eco alle sue parole e sembrava di vederlo, Cesare, le spalle strette nel soprabito da adolescente, tremare e battere i denti mentre l'orologio segnava le sei del pomeriggio, e poi le sette, e poi mezzanotte. E solo allora Cesare si alzava, zuppo fin nel midollo e annichilito, e tornava a casa percorrendo le vie di una Torino grigia e fredda, lasciandosi alle spalle il sogno d'amore che per qualche tempo aveva rivestito i panni di Pucci, cantante di caffè concerto fidanzata all'uomo che l'aspettava, quella stessa sera, all'uscita opposta a quella dove Cesare stava consumando le sue speranze e la sua salute di liceale.
Fu così che Cesare Pavese, nella primavera del 1925, si ammalò di pleurite e dovette assentarsi tre mesi dalla seconda classe del liceo Massimo D'Azeglio, dove come professore d'italiano e latino aveva l'antifascista gobettiano Augusto Monti; un insegnante di cui, a leggerne ora il ritratto lasciato da un altro illustre studente, Massimo Mila, non si può far altro che rimpiangere di non averne avuti di simili, compiangendo nello stesso tempo tanti suoi colleghi dei tempi moderni: "quella scoperta dei classici che in genere si fa per conto proprio dieci, venti, trent'anni dopo la scuola, quando d'essere un arnese di scuola i classici, appunto, hanno cessato, Monti te la faceva far lì, seduta stante, con un insegnamento che ripristinava la vita in tutte quelle cose che la scuola tende a imbalsamare".
Ma Pavese non fu bocciato, nonostante la lunga assenza, quell'anno 1925, e con l'arrivo dell'estate fu di nuovo libero di andare con i compagni sul Po, a fare lunghe nuotate che scacciassero, almeno per un po', il tedio del corpo e il dolore dell'anima. Aveva diciassette anni; da poco aveva abbandonato la lettura del "D'Annunzio delle dattilografe" Guido da Verona, che forse aveva acceso e turbato le sue prime fantasie sull'altro sesso, per passare al D'Annunzio vero, e poi all'Alfieri, nel quale scopre l'orgoglio di essere piemontese e la tenacia della volontà, e poi a Tagore, di cui copia diligentemente in una lettera alcuni versi: "Non vi è forse gioia nel profondo del tuo cuore? Forse che ad ogni tuo passo la strada non echeggerà armoniosamente come un'arpa resa dolce dal dolore?". Pensava già alla poesia: "La poesia è dappertutto. Un qualunque sentimento è poesia. E questo dono divino è l'unica cosa veramente nostra, poiché la scienza è, sotto un certo aspetto, una realtà fuori di noi, è di tutti e di nessuno". Scriveva già in poesia: "Senza una donna da serrarmi al cuore / mai l'ebbi, mai l'avrò. Solo, stremato / da desideri immensi di passione / e pensieri incessanti, senza meta...".
La poesia e la donna. Già da allora strette, avvinte, fuse in un unico grido che percorrerà tutta la vita di Cesare Pavese: una vita iniziata a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, nel 1908 e terminata a Torino, in una stanza dell'albergo Roma, una calda notte di fine agosto del 1950. Esattamente cinquant'anni fa. In quella stanza, dopo, trovarono, scritte di pugno da Pavese, parole riprese da Majakovskij: "Non fate troppi pettegolezzi". Pavese era diventato davvero un "fucile sparato". Nei quarantadue anni che separano la cascina di Santo Stefano - la campagna piemontese, i sentieri tra le vigne, le colline, la gente aspra silenziosa e forte - e l'albergo Roma - Torino, la città dove le vie non finiscono mai, dove si poteva godere della "faccia sempre diversa della gente sui cantoni più familiari" - Cesare Pavese ha messo in gioco tutto se stesso con il vigore e la fermezza coi quali riconosceva, pochi giorni prima di morire, di avere "dato poesia agli uomini"; ha "fatto" cultura nel senso proprio, più creativo, del termine, imprimendole una serie di spinte e accelerazioni dagli effetti di lunga portata; è stato, insomma, un protagonista della vita intellettuale, al centro di una rete di relazioni e amicizie che compongono sotto gli occhi di chi le osserva la geografia di quel che di meglio è stato scritto e detto in Italia tra le due guerre e anche dopo: oltre ai già citati Monti e Mila, incontriamo Norberto Bobbio, Mario Sturani, Leone Ginzburg, Giulio Einaudi, Giaime Pintor, Fernanda Pivano, Davide Lajolo (autore di una biografia pavesiana che si legge come un romanzo e si medita come un saggio), Vittorio Foà. Pavese, con gli occhiali allentati sul naso e il passo delle Langhe, ha camminato per vent'anni sulla strada maestra della letteratura, scambiando e divulgando esperienze narrative, proprie e altrui, di grandissimo spessore: come scriveva a Monti sulla foto ricordo dell'ultimo anno di liceo, "senza citazioni e senza frasi, ché lei ci ha insegnato a porre l'ultima cosa nella vita i letterati. Le mostreremo la nostra riconoscenza con le nostre opere".
Le sue opere: quelle di narrativa sono tante, e gli valsero la notorietà e un premio Strega; quelle di poesia solo due: Lavorare stanca, la cui prima edizione è del 1936, e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, dedicata a Costance Dowling, l'ultima donna della sua vita, uscita postuma. Trovarono l'originale nel suo ufficio alla Einaudi, già dattiloscritto e ordinato, insieme a quello de Il mestiere di vivere, il diario che Pavese incominciò a scrivere quando era al confino a Brancaleone Calabro, nel 1935. Si tratta di un diario singolare, dove l'esperienza letteraria e quella umana si compenetrano e si fondono, a riprova del fatto che esse furono ugualmente importanti per il poeta e la sua opera. Vi si trovano pagine illuminanti sulla poetica di Pavese, dichiarazioni sulle proprie capacità di innovatore di stile e letture critiche di opere altrui; accanto a queste, e sempre più spesso col passare degli anni, compaiono sfoghi brucianti sulla propria vita e sulle proprie delusioni amorose e riflessioni sul "vizio assurdo", la morte, che per Pavese fa tutt'uno con l'idea di suicidio. Nel 1926 Elio Baraldi, amico e compagno di scuola, si spara. Pavese è sconvolto, non riesce a pensare ad altro: quell'annientamento di sé che racchiude coraggio estremo, ecco, è sotto i suoi occhi proprio per mano di un amico che aveva sempre considerato più sicuro di sé e fortunato con le donne; per il poeta, che già a diciotto anni sentiva salire la febbre del vizio assurdo, e scriveva "Pavese è morto", è un fatto che non sarà più dimenticato. A diciotto anni Pavese era impietoso con se stesso: "incapace, timido, pigro, malcerto, debole, mezzo matto, mai, mai potrò fermarmi in una posizione stabile, in ciò che si chiama la riuscita della vita. Mai, mai". Più avanti lui stesso scriverà che questa era la sua sifilide, il buio labirinto da cui non è possibile uscire se non a tratti, guidato dalla poesia - "qualcosa che duri eterno" - o dalla donna.
La prima donna della vita di Pavese, sua madre, lasciò un imprinting molto forte. Rimasta vedova con due figli, la prima di dodici e il secondo, Cesare, di sei, indossa da quel momento, come si dice, i pantaloni di casa. Poca tenerezza e molta autorevolezza sono le coordinate entro le quali gestisce la casa di Torino, la cascina di Santo Stefano Belbo - venduta nel 1916 perché troppo impegnativa da condurre - e successivamente la villetta di Reaglie, sulla collina torinese, e l'educazione dei figli. A tavola silenzio, e si mangia quello che c'è, piaccia o no. Il bimbo Cesare sopporta l'austerità della madre e la perdita del padre chiudendosi in un suo mondo fatto di poche parole e molti vagabondaggi, quando è a Santo Stefano, per i boschi. Quando è a Torino, almeno i primi anni, conta i giorni che lo separano dalle vacanze estive in quel paese dove tutto è diverso, persino il rumore del vento che porta gli echi lontani del mare laggiù, oltre Canelli, oltre la strada che porta a Genova. Nasce qui, ora, il desiderio della fuga dalla gente, l'anelito della lontananza che lo porterà, più tardi, a viaggiare sulle onde delle pagine di tanti scrittori americani che tradurrà e farà conoscere nella strapaesana Italia. È ancora a Santo Stefano che conosce Pinolo Scaglione, il più piccolo di una famiglia di falegnami: questo ragazzino autodidatta e molto sensato, diventato poi uomo buono e solido, custode delle memorie delle Langhe, sarà il suo amico di sempre. A lui Pavese si rivolgerà per l'ultima volta negli ultimi due anni di vita, per raccogliere le vicende delle Langhe, le tradizioni, le parole della gente, i loro drammi; tutto quello che confluirà poi ne La luna e i falò, il romanzo che, come ha scritto Layolo, "riapre e conclude per sempre l'eterno dialogo che Pavese ha aperto con se stesso, con la natura e con il mondo fin dagli anni della fanciullezza. Dialogo tra il mondo reale e il mondo simbolico, il primo con i suoi tragici fatti concatenati, il secondo nel ritmo incantato dei suoi simboli e delle sue immagini".
Realtà e simbolo: sono i due poli attorno ai quali ruota tutta la poetica di Pavese. Lui stesso ne era consapevole. In una delle due appendici a Lavorare stanca, quella in cui dichiarava conclusa la sua prima stagione di poesia, scriveva: "È certo che anche stavolta il problema dell'immagine terrà il campo. Ma non sarà questione di raccontare immagini, formula vuota, perché nulla può distinguere le parole che evocano un'immagine da quelle che evocano un oggetto. Sarà questione di descrivere - non importa se direttamente o immaginosamente - una realtà non naturalistica ma simbolica. In queste poesie i fatti avverranno - se avverranno - non perché così vuole la realtà, ma perché così decide l'intelligenza". Sforzo supremo di creazione razionale che attinge all'humus più profondo, alle radici stesse dell'esistere. Saranno le ultime poesie: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. Partito dalla realtà oggettivata nella poesia-racconto di Lavorare stanca, Pavese approda così a un acceso simbolismo che è, allo stesso tempo, rivelazione di un destino e di una vita intera.
Pavese incontra il suo destino nel 1929, al penultimo anno di università. Gli si presenta in vesti femminili, colei che egli ha chiamato "la donna dalla voce rauca". Si chiama Tina, è un'insegnante di matematica iscritta al partito comunista clandestino, il suo precedente fidanzato è Altiero Spinelli. Ha un carattere duro e deciso, è forte e volitiva. Pavese se ne innamora: la sua presenza e il suo ricordo segneranno tutta la sua vita perché in lei il poeta coagula tutto il mondo di simboli e speranze e separazioni che già sentiva delinearsi nella sua mente. A lei dedica poesie di struggente, epica bellezza: L'ho creata dal fondo di tutte le cose / che mi sono più care, e non riesco a comprenderla. Non la comprenderà mai, come anche gli sfuggiranno tutte le altre donne amate e perdute nel ricordo di questa: la prima, l'unica.
Nel 1930 Cesare Pavese si laurea in lettere con una tesi su Walt Whitman. Svanita la possibilità di andare alla Columbia University, il giovane non smette di occuparsi di America; nei primi anni Trenta pubblica saggi e articoli su scrittori e poeti come Sinclair Lewis, Anderson e Lee Masters. Non è cosa che renda ricchi, anzi, il problema di come mantenersi, anche se vive a casa della sorella Maria, che nel frattempo si è sposata, comincia a porsi con una certa urgenza. Ed ecco allora Cesare Pavese, poco più che ventenne, alle prese con classi di liceali. C'è una foto che lo ritrae, circondato da fanciulle, in occasione di una visita del Principe Umberto: lo si intravede alle spalle del principe, gli occhiali sul naso e l'aria di chi si mette in punta di piedi per non sparire. Ma questi, in realtà, sono anni di intenso lavoro e probabilmente, almeno in parte, di serenità: "studierò e lavorerò per fare della mia vita la cosa migliore e più bella di cui sarò capace" scriveva. E in effetti studia, dà lezioni private, a un certo punto, su insistenza della sorella, si iscrive anche al partito fascista per avere la possibilità di insegnare nelle scuole pubbliche (ed è una cosa che, anni dopo, ancora rimproverava a Maria: "a seguire i vostri consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza"); traduce moltissimo dall'inglese, e questa sua attività ha un'importanza, non solo sulla sua formazione umana e artistica ma per tutta la cultura italiana, ancora oggi fondamentale. Grazie a lui - e a Vittorini e Cecchi, il cui ruolo fu analogo - lavori di Melville, Dos Passos, Joyce, e più avanti di G. Stein, di Faulkner e di Steinbeck - cominciarono a circolare in un'Italia dove imperava il clima oppressivo e conformistico imposto dal regime fascista, da un lato, e dall'altro - Aventino della letteratura - la prosa d'arte raffinatissima e totalmente avulsa dalla realtà. Pavese trova negli americani qualcosa che lo spinge a continuare per una strada che nel 1930, quando cioè scrive I mari del Sud e Ciau Masino, ha già imboccato con una certa sicurezza: quella della "scoperta" del dialetto e della provincia come serbatoio di realtà a cui attingere per dare corpo e spessore a una pagina scritta che non sia puro esercizio letterario ma presa diretta della vita, o ancor più la vita stessa. Ed è già tanto consapevole della portata innovativa del suo sperimentalismo, e della sua autonomia, da scrivere "non è letteratura dialettale la mia - tanto lottai d'istinto e di ragione contro il dialettismo -; non vuole essere bozzettistica - e pagai d'esperienza; cerca di nutrirsi di tutto il migliore succo nazionale e tradizionale; tenta di tenere gli occhi aperti su tutto il mondo ed è stata particolarmente sensibile ai tentativi e ai risultati nordamericani, dove mi parve di scoprire un analogo travaglio di formazione".
In quei primi anni Trenta, Giulio Einaudi fonda la sua casa editrice, cosa della quale gli siamo ancora tutti debitori; vi lavorano, insieme al fondatore, Ginzburg, Sergio Solmi e naturalmente Pavese. Nel frattempo Pavese si prepara al concorso ordinario a cattedre per italiano e latino; ma proprio allora, il 13 maggio 1935, la polizia irrompe in casa sua e trova lettere che Altiero Spinelli, ancora in carcere, aveva scritto a Tina; per farle un piacere Cesare aveva accettato di riceverle a proprio nome passandole poi alla donna senza aprirle. Tanto basta alla polizia fascista per incarcerarlo a Regina Coeli e poi mandarlo al confino a Brancaleone Calabro con una condanna a tre anni (ne sconta poi meno di uno). Da quel paese, lontano anni luce da Torino, dalla sorella, dagli amici e dalla donna dalla voce rauca, Pavese scrive lettere dove racconta la sua piccola vita quotidiana, chiede libri, e alterna momenti d'insofferenza per un destino incrociato per sbaglio - lui, in realtà, non aveva mai fatto realmente attività politica, né desiderato farne - a momenti in cui la sua altissima concezione della dignità personale, quella che è stata definita il suo "dover essere", gli impedisce di metter mano alla domanda di grazia che da più parti gli viene sollecitata. E non è solo questo a impedirglielo. Scrive a una signora, amica di famiglia, che gli raccomandava di chiederla, quella benedetta grazia: "La domanda che lei mi consiglia la farei senz'altro, perché non me ne importa un fico, ma se un uomo fa di queste cose la donna si vergogna di lui".
La donna dalla voce rauca, durante il confino, gli scrive qualche cartolina. Lui risponde: "Ti ringrazio di tutti i pensieri che hai avuto per me. Io per te ne ho uno solo e non cessa mai". E intanto esce Lavorare stanca per le edizioni Solaria. Pavese riceve il pacco alla metà di gennaio del 1936 e scrive a Carocci, allora direttore della rivista: "Lacrime, tripudio, auspici, bicchierata: tutto da solo". Reazioni della critica: zero; del pubblico, manco a parlarne. La raccolta verrà ripubblicata nel 1943 da Einaudi, in una redazione aumentata e modificata che ospita poesie posteriori al '36 e che rivela quanto l'idea di poesia, nel frattempo, fosse cambiata. Era successo che il discorso ampio, largo, oggettivo della poesia-racconto (quella dei Mari del Sud, degli Antenati), le cui suggestioni epiche facevano nascere un verso che andava ben oltre il tradizionale endecasillabo, aveva trovato la sua collocazione naturale nella prosa - ricordiamo che tra il '36 e il '43 Pavese scrive buona parte dei suoi romanzi e dei suoi racconti - mentre la poesia, già al tempo del confino, aveva cominciato a recuperare un'accezione lirica che rivelava quanto l'espressione in versi fosse, per Pavese, legata alle sue più dolenti ragioni personali: la concezione della donna e dell'amore come mete irraggiungibili. La tragedia amorosa si era appena compiuta: ottenuta all'improvviso la grazia, nel marzo del 1936 Pavese prende il treno, arriva a Torino dove trova alla stazione l'amico Sturani. Gli chiede subito della donna dalla voce rauca, di cui non aveva notizie da più di un mese. "Non ci pensare più - è la risposta - si è sposata ieri". Un tonfo. La valigia cade a terra, Pavese con essa. Per lui, in quel momento, è come se si fosse rivelata la cifra di un destino di solitudine, di impossibilità. Mai una donna, mai una famiglia, mai un focolare. Desideri semplici, caldi, buoni, che gli saranno sempre negati. Dopo quel tradimento le donne, tutte, saranno rappresentate da Pavese come un frutto di carne da godere per un momento dopo averlo strappato dall'albero, o come l'indifferenza e l'infedeltà personificate: "È bella come una capra - scrive ne Il carcere, parlando di Elena - qualcosa tra la statua e la capra. Veniva dalla montagna ed era proprio una capra, pronta a tutti i caproni".
Era già iniziata la scoperta del mito. I miti che Pavese metterà nei suoi libri, con la disperata e ferma convinzione che solo lì risiede la chiave per leggere il mondo, per viverlo: "il mito - scriveva - è un fatto avvenuto una volta per tutte che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo in grazia appunto della sua fissità, non più realistica. Esso avviene sempre alle origini, come nell'infanzia; è fuori dal tempo". Tutto è nell'infanzia, anche l'esperienza della separazione e, di conseguenza, della solitudine, a cui si oppone il desiderio eterno del ritorno, del ricongiungimento al tempo e al luogo della preistoria di noi stessi. Ed ecco che i suoi libri si affollano di personaggi che tornano, che si spostano dalla campagna alla città, che vivono le medesime esperienze di solitudine e sradicamento condensate nella figura di Anguilla, il trovatello delle Langhe partito per l'America e tornato, dopo tanti anni, per non più ritrovare ciò che aveva lasciato, salvo l'amico Nuto, che però è cambiato anche lui. Ora racconta con ritrosia quel che è accaduto: c'è stata la guerra, la resistenza, i morti; c'è ancora la miseria più nera.
La guerra e la resistenza Pavese le visse a Torino, lavorando ormai in pianta stabile per Einaudi. Le visse da assente, chiuso in un suo "fare" privatissimo, in un'attività letteraria che è l'unico elemento rivelatore di un'opposizione al regime che non si tradusse mai nella partecipazione politica attiva e diretta alla guerra partigiana; proprio durante gli anni della guerra Norberto Bobbio gli presenta Fernanda Pivano, giovanissima, che ricorda al poeta di essere stata sua allieva. Una donna, ancora, mascolina, forte e volitiva. Fanno lunghe passeggiate in bicicletta, lunghe chiacchierate, finché Pavese le chiede di sposarlo per due volte; e per due volte riceve un rifiuto. Le date sono riportate nella funebre epigrafe che apre Feria d'agosto: "In memoria - una croce - 26 luglio 1940-10 luglio 1945". Per lei scrive tre poesie che inserirà nella redazione definitiva di Lavorare stanca: Mattino, Estate, Notturno. Sono le poesie in cui si consuma definitivamente l'esperienza della poesia-racconto, della quale resta solo l'ampio verso, e si rivela la dolorosa consapevolezza di una solitudine senza sbocchi: la donna è evanescente e impalpabile, una nube dolcissima, bianca / impigliata una notte tra rami antichi; è la conclusione, di una dolcezza straziante, di Notturno. Il linguaggio, puro e tenero, punta tutto sulla potenza evocativa della parola: la poesia è, ora, lirica.
Dopo la Liberazione, e siamo agli ultimi cinque anni di vita di Pavese, l'uomo inizia un'intensa attività editoriale artistica. Il fascismo gli ha portato via un amico carissimo, Leone Ginzburg, ammazzato in carcere. Secondo la lucida analisi di Calvino, che proprio in questi anni gli fu amico, Pavese tenta di recuperare ciò che non aveva fatto durante la Resistenza: "La morale dei suoi classici, la morale del fare Pavese riuscì a renderla operante anche nella propria vita, nel proprio lavoro, nella partecipazione al lavoro degli altri. Pavese resta l'uomo della esatta operosità nello studio, nel lavoro creativo, nel lavoro dell'azienda editoriale, l'uomo per cui ogni gesto, ogni ora aveva una sua funzione e un suo frutto, l'uomo la cui laconicità e insocievolezza erano difesa del suo fare e del suo essere, il cui nervosismo era quello di chi è tutto preso da una febbre attiva, i cui ozi e spassi parsimoniosi ma assaporati con sapienza erano quelli di chi sa lavorare duro". E Pavese stesso scriveva "È appunto nostro intendimento - di Einaudi e di noi collaboratori diretti - collaborare alla costruzione del nuovo assetto economico-sociale e verso quel benessere collettivo frutto del lavoro collettivo". Pavese vive e respira l'atmosfera di grandi speranze e grandi progetti del dopoguerra: decide di iscriversi al PCI e va a Roma a organizzare la filiale della Einaudi. Lì conosce Bianca Garufi, passione bruciante, per cui scrive le poesie de La terra e la morte senza mai dimenticare che, per lui, "ciò che è stato sarà". Annota nel diario, il primo gennaio del 1946: "Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritto poesie belle. Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest'anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?".
L'ultimo qualcuno per cui Pavese desiderò contare qualcosa arrivò dal mare nel 1950, ancora sotto vesti femminili: era Costance Dowling, aspirante attrice americana. Ultima stagione d'amore. Pavese aveva vissuto anni artisticamente intensissimi: quattro romanzi scritti in due anni e un premio letterario ne avevano fatto un personaggio pubblico. La donna, forse, subisce il fascino della fama di intellettuale impegnato che circonda Pavese. La loro storia dura qualche mese, Pavese la suggella con parole che consegna, un mese prima di morire, a Lajolo: "È scappata di notte dal mio letto nell'albergo di Roma. Ed è andata nel letto di un altro, dell'attore che tu conosci. Come quell'altra, peggio di quell'altra. Ti ricordi quella di Torino? È lei che ha detto l'ultima parola tra me e le donne". Pavese e la donna: per Costance scrive Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, a lei dedica La luna e i falò, quando la donna è già tornata là, oltre il mare da cui è venuta, lo stesso mare la cui voce lontana arrivava a Santo Stefano risalendo la strada di Genova e Canelli. Il rumore del mare, ora, esplode nelle orecchie di Pavese come un tuono, un rombo sordo che impedisce di sentire altri suoni, altre parole. Prende la penna l'ultima volta, annota sul diario "non scriverò più". E si arrende a se stesso, perdendosi negli occhi della sua morte.
 
Olivia Trioschi
 
 
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ins 7 settembre 2000