LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

I grandi poeti contemporanei

 

Carlo Emilio Gadda
Tratto da: C.E.G. "Quer pasticciaccio brutto da Via Merulana", Garzanti, Milano, 1991
 
"ER PALAZZO DELL'ORO"
 
Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e crespati che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d'Italia, aveva un'aria un po' assonnata, un'andatura greve e dinoccolata, un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d'olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto "latino", benché giovane (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne...
 
...Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pesce e riccioluta come d'agnello d'Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s'intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d'uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. "Già!" riconosceva l'interessato: "il dottor Ingravallo me l'aveva pur detto." Sosteneva, fra l'altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico "le causali, la causale" gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia.
L'opinione che bisognasse "riformare in noi il senso della categoria di causa" quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente. Una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per "vecchia" abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca.
Così, proprio così, avveniva dai "suoi" delitti. "Quanno me chiammeno!... Già. Si me chiammeno a me... può stà ssicure ch'è nu guaio: quacche gliuommero... de sberretà..." diceva, contaminando napoletano, molisano, e italiano.
La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l'effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a mulinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s'avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata "ragione del mondo". Come si storce il collo a un pollo. E poi soleva dire, ma questo un po' stancamente, "ch'i femmene se retroveno addó n'i vuò truvà". Una tarda riedizione italica del vieto "cherchez la femme". E poi pareva pentirsi, come d'aver calunniato 'e femmene, e voler mutare idea.
Ma allora si sarebbe andati nel difficile. Sicché taceva pensieroso, come temendo d'aver detto troppo. Voleva significare che un certo movente affettivo, un tanto o, direste oggi, un quanto di affettività, un certo "quanto di erotia", si mescolava anche ai "casi d'interesse", ai delitti apparentemente più lontani dalle tempeste d'amore. Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari.
Erano questioni un po' da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt'un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei italiani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigaretta, regolarmente spenta.
 
Per il 20 febbraio, domenica, Sant'Eleuterio, i Balducci lo avevano invitato a pranzo: "Alle tredici e mezzo, se le è comodo:" Era, disse la signora, "il genetliaco di Remo": e infatti Remo, all'anagrafe, era stato iscritto come Remo Eleuterio, e poi battezzato per tale a San Martino ai Monti, così da rammentare il natalizio. "Due nomi poco graditi a chelli 'rrecchie," pensò don Ciccio, "sia l'uno che l'altro." per un menefreghista di quel calibro erano addirittura sprecati. L'invito, comme l'ata vota, gli era stato fatto per telefono due giorni avanti, con una chiamata "dall'esterno" al Collegio Romano, cioè a Santo Stefano del Cacco. Prima, una voce melodiosa, gli aveva parlato la signora: "Sono Liliana Balducci": era poi subentrato il caprone, il Balducci uomo, a rincalzo. Don Ciccio, dopo aver santificato la festa del barbiere, portò una bottiglia d'uoglie alla signora. Il pranzo domenicale fu lieto, nella luce d'un meraviglioso pomeriggio, rimasti al marciapiede i coriandoli e qualche gentile bautta, quacche trombetta, qualche azzurra Cenerentola o nerovellutato diavoletto. Parlarono di caccia: di battute e di cani: di fucili: poi di Petrolini: poi dei vari nomi che danno al mùgine lungo il litorale tirrenico, da Ventimiglia al Capo Lilibeo: poi dello scandalo del giorno, la contessina Pappalòdoli: ch'era scappata di casa con un violinista: polacco, naturalmente. A diciassett'anni. Una storia che non finiva più.
Al suo entrare, la Lulù, la canina pechinese, un gomitolo, aveva abbaiato: con molta stizza, anche: be', lasciati i ringhi, gli aveva fiutato a lungo le scarpe. La vitalità di questi mostriciattoli è una cosa incredibile. Verrebbe voglia di accarezzarli, poi di acciaccarli. A tavola erano quattro: lui don Ciccio, i coniugi e la nipote. La nipote, però, non era quella dell'ultima volta, cioè del giorno di San Francesco, ma molto più giovine: appena uscita dall'infanzia. Quella dell'ultima volta, cioè a San Francesco, era una nipote per modo di dire; pareva una sposa di campagna, coronata di trecce nere, forte, ampia, da tener lei tutto il letto: certi occhi! un davanti! un didietro! Da sognarseli di notte. Questa qui era una ragazzina co la treccia appennolone, che annava a scola da le moniche.
Don Ciccio, non ostante la sonnolenza, aveva memoria pronta, anzi infallibile: una memoria pragmatica, diceva. Anche la domestica era una faccia nuova, per quanto somigliasse, vagamente, alla nipote di prima. La chiamavano Tina. Durante il servizio un batuffolo di spinaci strizzati le esorbitò dal piatto ovale sul candore della tovaglia immacolata: "Assunta!" fece la signora. Assuntina la guardò. In quell'attimo sia la serva sia la padrona parvero a don Ciccio estremamente belle; la serva, più aspra, aveva un'espressione severa, sicura, due occhi fermi, luminosissimi, quasi due gemme, un naso diritto con il piano della fronte: una "vergine" romana dell'epoca di Clelia; la padrona un tratto così cordiale, un tono così alto, così nobilmente appassionato, così malinconico! una pelle incantevole. Guardando l'ospite, quegli occhi fondi, con una luce di antica gentilezza, parevano scorgere, dietro la povera persona del "dottore", tutta la povera dignità di una vita! E lei era ricca: ricchissima, dicevano: suo marito stava bene, viaggiava tredici mesi all'anno, sempre in un gran da fare con quelli là di Vicenza. Ma lei era ancora più ricca per conto suo.
Già in quer gran palazzo der ducentodiciannone nun ce stavano che signori grossi: quarche famija der generone: ma soprattutto signori novi de commercio, de quelli che un po' d'anni avanti li chiamavano ancora pescicani.
E il palazzo, poi, la gente der popolo lo chiamavano er palazzo dell'oro. Perché tutto era casamento insino ar tetto era come imbottito de quer metallo. Drento poi, c'erano du scale, A e B, co sei piani e co dodici inquilini cadauna, due per piano. Ma il trionfo più granne era su la scala A, piano terzo, dove che ce stavano de qua li Balducci ch'erano signori co li fiocchi pure loro, e in faccia a li Balducci ce steva na signora, na contessa, che teneva nu sacco 'e solde pure essa, na vedova: la signora Menecacci: che a cacciaje na mano in quarziasi posto ne veniva fori oro, perle, diamanti: tutta la robba più de valore che ce sia. E fogli da mille come farfalle: perché a tenelli a la banca nun se sa mai: quanno meno te l'aspetti po pijà foco.
Sicché, riaveva er commò cor doppio fonno.
Questo, o press'a poco, il mito. Gli orecchi del dottor Ingravallo, che sotto alla parrucca nera e crespata si confortavano d'una vitalità primaverile, lo avevano colto così, un po' nell'aria, come zirli di merli, o merule, dopo ogni frullo, da un ramo all'altro della primavera. Era sulle bocche di tutti, del resto, e in tutti i cervelli della gente, una di quelle idee che diventano, per la collettività fantasiosa, idee coatte...
 
...Il dottor Ingravallo mangiò e bevve con misura, come al solito: ma di buon appetito e a buon sorso.
Non pensò, non credé opportuno di pensare di chieder nulla: né della nuova nipote né della nuova serva...
 
...Dietro quel nome "nipote", ci doveva star nascosto tutto un groviglio... di fili, un ragnatelo di sentimenti, dei più rari, ... delicati. Lei. Lui. Lei, pe rispetto a lui: Lui, pe riguardo a lei. Lei allora ha pescato 'a nipote, dopo anni: pene, lacrime, la notte, e di giorno candele a sant'Antonio pe tutte le chiese de Roma: e speranze, e cure di Salsomaggiore, sia in loco che a domicilio, e visite del professor Beltramelli e del professor Macchioro. A ogni nuova candela una speranza. A ogni nuova speranza un nuovo professore.
Ha pescato sta Gina, povera Ginetta! Ma prima della Ginetta la storia aveva tutto un altro indirizzo, tutto un sapore.
Una cosa strana, davvero, pensò Ingravallo.
La Virginia! (l'immagine fu un lampo di gloria, un repentino fulgore nella tenebra): e prima della Virginia, chell'ata 'e Monteleone: comme se chiamava? E le serve! Sta bene che frullan via come passere al primo stormire d'un capriccio: ma i Balducci, via! ne cambiavano, si può dire, una al mese. Gli venne un pensiero, con una parola irriverente: era il vino.
La signora Liliana, non potendo scodellare del proprio...
Così ogni anno: il cambio della nipote doveva di certo valere nel suo inconscio come un simbolo, in sostituzione del mancato, il figlio vero a ogni nuova primavera. Quelli che a maggio nascono, son figli ad agosto. "Mese buono!" pensò don Ciccio, "anche per i gatti: che ce cumbineno certe caciare, la notte."
D'anno in anno... una nuova nipote: quasi a simboleggiare, nel cuore, i successivi natali della prole. "Jedes Jahr ein Kind, jedes Jahr ein Kind..." gli cantava quel tedesco, ad Anzio: che pareva una foca.
E lui, lui il cacciatore (lo guardò), lui che cosa prova, che cosa si sente, dentro, quando gli arriva in casa la nipote, la nipotina di turno? Che ne aveva pensato delle varie... nipoti?
Per lei, dal Tevere in giù, là, là, dietro i diroccati castelli e dopo le bionde vigne, c'era, sui colli e sui monti e nelle brevi piane d'Italia, come un grande ventre fecondo, due salpingi grasse, zigrinate d'una dovizia di granuli, il granuloso e untuoso, il felice caviale della gente. Di quando in quando dal grande Ovario follicoli maturati si aprivano, come ciche d'una melagrana: e rossi chicci, pazzi d'un'amorosa certezza, ne discendevano ad urbe, a incontrare l'afflato maschile, l'impulso vitalizzante, quell'aura spermatica di cui favoleggiavano gli ovaristi del Settecento. E a via Merulana 219, scala A, piano terzo, ci rifioriva la nipote, nel meglio grumolo, proprio, del palazzo dell'Oro...
 
...Quando i due agenti gli dissero: "Se so' sparati a via Merulana: ar ducentodiciannove: su le scale: ner palazzo de li pescicani...", un fiotto di sangue incuriosito, forse angosciato, gli inondò il ventricolo di destra. "Duecentodiciannove?" non poté a meno di chiedere: pure, in tono distratto. E ricadde subito in quella tale specie di sonnolenza lontana, ch'era, il lui, la maschera del senso d'ufficio...
..."Jàmmoce," disse Ingravallo, e poi borbottò: "Jamecenne", e prese giù, dal piolo, il cappello. Il male infitto cavicchio si disincastrò e cadde al suolo, come ogni volta, indi rotolò per un pezzetto; lui lo raccolse, rificcò la radichetta mencia dentro al buco: e con la mancia dell'avambraccio, quasi fosse una spazzola, diede una lisciatine al cappello nero, così, lungo il nastro. I due agenti gli andaron dietro, quasi per un tacito ordine del commissario-capo: erano Gaudenzio, noto alla malavita come er Biondine, e Pompeo, detto invece lo Sgrandia.
Saliti sul PV e discesi appunto al Viminale, presero il tram di San Giovanni. Sicché in una ventina di minuti raggiunsero il civico duecentodiciannove...
 
...Davanti al casermone color pidocchio, una folla: circonfusa d'una rete protettiva di biciclette. Donne, sporte, e sedani: qualche esercente d'un negozio di là, col grembiule bianco: un "uomo di fatica" e questo col grembiule rigato, e col naso in veste e in colore d'un meraviglioso peperone: portinaie, domestiche, ragazzine delle portinaie che strillavano "a Peppì!", maschietti col cerchio, un attendente saturo d'arance, prese in una sua gran rete, con in cima i ciuffetti di due finocchi, e di pacchi: due o tre funzioni grossi, che in quell'ora matura agli alti gradi avevano appena disciolto le vele: diretti, ciascuno, al suo ministero: e un dodici o quindici tra perdigiorno e vagabondi vari, diretti in nessun luogo. Un portalettere in istato di estrema gravidanza, più curioso di tutti, dava, della sua borsa colma, in culo a tutti: che borbottavano mannaggia, e poi ancora mannaggia, mannaggia, uno dopo l'altro, man mano che la borsona perveniva ad urtarli nel didietro. Un monello, con serietà tiberina, disse: "Sto palazzo, drento c'è più oro che monnezza." Tutt'attorno, la fascia delle ruote delle biciclette, come un derma sui generis, pareva rendere impenetrabile quella polpa collettiva...
 
...Una cosa piuttosto grave, per vero. La signora Menegazzi, poco dopo lo spavento, era anche svenuta. La signora Liliana si era "sentita male" a sua volta, appena uscita dal bagno.
Don Ciccio raccolse e verbalizzò sui due piedi quanto poté raccogliere, del fiotto irrompente, da quel primo testimoniale: principiò dalla portinaia, concedendo alla Menegazzi il tempo di pettinarsi e agghindarsi un poco: in suo onore, si sarebbe detto. Aveva carta e stilografica, omise i: "Gesù, Gesù mio bello! Sor commissario mio!" e altre interiezioni-invocazioni di cui la "signora" Manuela Pettacchioni non tralasciava d'inzeppare il suo referto: un drammatico racconto. Il portiere coniuge, fattorino alla "Centrolatte Fontanelli", sarebbe rincasato alle sedici.
"Gesummaria! Prima aveva sonato alla sora Liliana..."
"Chi?" "Ma l'assassino..." "Ma qua' assassine si nun ce sta 'o morto?" La sora Liliana (Ingravallo trepidò), sola in casa, non aveva aperto. "Era nel bagno... sì... stava facendo il bagno." Don Ciccio, senza volerlo, si passò una mano sugli occhi, quasi a schermirsi d'un fulgore troppo vivo. La donna di servizio, l'Assunta, era partita alcuni giorni prima per casa sua: aveva il padre malato come hanno spesso le donne di servizio, "tanto più a questi lumi di luna". La Gina era a scuola tutto il giorno: ar Sacro Core, da le moniche: dove ci faceva colazione e anche merenda, alle volte. Allora, "si vede", come nessuno rispondeva, "è chiaro... certo", il malvivente aveva sonato alla Menegazzi: sì, lì, proprio lì, sullo stesso piano, dirimpetto a quello dei Balducci: l'uscio di faccia. Oh! don Ciccio conosceva bene quel piano, e quell'altro uscio!...
 
...Ereno i primi boati, i primi sussulti, a palazzo, dopo un anno e mezzo de novizio, del Testa di Morto in stiffelius, o in tight: ereno già l'occhiatacce, er vomito de li gnocchi: l'epoca de la bombetta, de le ghette color tortora stava se po dì per conclude: co quele braccette corte corte de rospo, e queli dieci detoni che je cascavano su li fianchi come du ramazzi de banane, come a un negro co li guanti. I radiosi destini non avevano avuto campo a manifestarsi, come di poi accadde, in tutto il loro splendore. La Margherita, di ninfa Egeria scaduta a Didone abbandonata, varava ancora il Novecento, el noeufcént, lincùbo dei milanesi di allora. Vacava alle mostre, ai lanci, agli oli, agli acquerelli, agli schizzi, quanto può vacarci una gentile Margherita. Lui s'era provato in capo la feluca, cinque feluche. Gli andavano a pennello. Gli occhi spiritati dell'eredoluetico oltreché luetico in proprio, le mandibole da sterratore analfabeta del rachitoide acromegàlico riempivano di già l'Italia Illustrata: già principiavano invaghirsene, appena untate de cresima, tutte le Marie Barbise d'Italia, già principiavano invulvarselo, appena discese d'altare, tutte le Magde, le Milene, le Filomene d'Italia: in vel bianco, redimite di zagara, fotografate dal fotografo all'uscire dal nartece, sognando fasti e roteanti prodezze del manganello educatore. Le dame, a Maiano o a Cernobbio, già si strangullavano ne' su' singhiozzi venerei all'indirizzo dei potenziatore d'Italia. Giornalisti itecaquani lo andavano intervistare a palazzo Chigi, le sue rare opinioni, ghiotti, le annotavano in un'agendina presto presto, da non lasciarne addietro un sol vicolo. Le opinioni del mascelluto valicavano l'oceano, la mattina a le otto erano già un cable, desde Italia, su la prensa dei pionieri, dei venditori di vermut. "La flotta ha occupato Corfù! Quell'uomo è la provvidenza d'Italia." La mattina dopo er controcazzo: desde la misma Italia. Pive ner sacco. E le Magdalene, dài: a preparar Balilli a la patria. Le macchine de la questura "stazzionaveno": ar Collegio Romano.
Ereno le undici der diciassette marzo e il dottor Ingravallo, a via D'Azeglio, aveva già un piede sur predellino e teneva già con la man destra, a ghindarsi in tramme, il poggiavano di ottone. Quando il Porchettini trafelato gli sopravvenne: "Dottor Ingravallo! Dottor Ingravallo!"
"Che vòi? Che te sta succedendo?"
"Dottor Ingravallo, senta. Me manna er commissario capo", abbassò ancora la voce: "a via Merulana... è successo un orrore... stamattina presto. Hanno telefonato ch'erano le dieci e mezza. Lei era appena uscito. Il dottor Fumi lo cercava. Tra tanto m'ha mannato subbito a vede, co due agenti. Credevo quasi de trovallo là... Poi ha mannato a casa sua a cercallo."
"Be', che è stato?"
"Lei ce lo sa già?"
"C'aggia sapé? mo me ne jevo a spasso..."
"Hanno tajato la gola, ma scusi... so che lei è un po' parente."
"Parente 'e chi?..." fece Ingravallo accigliandosi, come a voler respingere ogni propinquità con chi si fosse.
"Volevo dire, amico..."
"Amico, che amico! amico 'e chi?" Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli.
"S'è trovato la signora... la signora Balducci..."...
 
...Ingravallo, pallido, emise un mugolo strano, un sospiro o un lamento da ferito. Come se sentisse male puro lui. Un cinghiale co una palla in corpo.
"La signora Balducci, Liliana..." balbettò, guardando negli occhi lo Sgranfia. Si tolse il cappello. Sulla fronte, in margine al nero crespato di capelli, un allinearsi di gocciole: d'un sudore improvviso. Come un diadema di terrore, di dolore. Il volto, per solito olivastro-bianco, lo aveva infarinato l'angoscia. "Andiamo, va'!" Era madido, pareva esausto.
Giunti a via Merulana, la folla. Davanti il portone il nero della folla, con la sua corona de rote de bicicletta. "Fate passare, polizia." Ognuno si scostò. Er portone era chiuso. Piantonava un agente: con due pizzardoni e due carabinieri. Le donne li interrogavano: loro diceveno a le donne: "Fate largo!" Le donne volevano sapé. tre o quattro, deggià, se sentì che parlavano du numeri: erano d'accordo p'er diciassette, ma discutevano sur tredici.
I due salirono in casa Balducci, l'ospitale casa che Ingravalli conosceva, si può dire, col cuore. Su le scale un parlottare di ombre, il sussurro delle casigliane. Un bimbo piangeva. In anticamera... nulla di particolarmente notevole (il solito odore di cera, l'ordine abituale) eccettoché due agenti, muti, attendevano disposizioni. Sopra una seggiola un giovane col capo tra le mani. Si alzò. Era il dottor Valdarena. Apparve poi la portiera, emerse, cupa e cicciona, dall'ombra del corridoio.
Nulla di notevole si sarebbe detto: entrati appena in camera da pranzo, sul parquet, tra la tavola e la credenza piccola, a terra... quella cosa orribile.
Il corpo della povera signora giaceva in una posizione infame, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all'indietro, fin quasi al petto: come se qualcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, o indagarne lo stato di nettezza. Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile, sottilissimo, che terminavano a metà coscia in una delicata orlatura. Tra l'orlatura e le calze, ch'erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema della carne, d'un pallore da clorosi: quelle due cosce un po' aperte, che i due elastici - in un tono di lilla - parevano distinguere in grado, avevano perduto il loro tepido senso, già si adeguavano al gelo: al gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore...
 
...Un profondo, un terribile taglio rosso le apriva la gola, ferocemente. Aveva preso metà il collo, dal davanti verso destra, cioè verso sinistra, per lei, destra per loro che guardavano: sfrangiato ai due margini come da un reiterarsi dei colpi, lama o punta: un orrore! da nun potesse vede. Palesava come delle filacce rosse, all'interno, tra quella spumiccia nera der sangue, già raggrumato, a momenti; un pasticcio! con delle bollicine rimaste a mezzo. Curiose forme, agli agenti: parevano buchi, al novizio, come dei maccheroncini color rosso, o rosa. "La trachea," mormorò Ingravallo chinandosi, "la carotide! la iugulare... Dio!"
Er sangue aveva impiastrato tutto er collo, er davanti de la camicetta, una manica: la mano: una spaventevole colatura d'un rosso nero, da Faiti o da Cengio (don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell'anima, povera mamma!).
S'era accagliato sul pavimento, sulla camicetta tra i sue seni: n'era tinto anche l'orlo della gonna, il lembo rovescio de quela vesta de lana buttata su, e l'altra spalla: pareva si dovesse raggrinzare da un momento all'altro: doveva de certo risultarne un coagulato tutto appiccicoso come un sanguinaccio.
Il naso e la faccia, così abbandonata, e un po' rigirata da una parte, come de chi nun ce la fa più a combatte, la faccia! rassegnata alla volontà della Morte, apparivano offesi da sgraffiature, da unghiate: come riavesse preso gusto, quer boja, a volerla sfregiare a quel modo. Assassino!...
 
...In quel punto, come evocata di tenebra, dall'usciolo socchiuso della scaluccia approdante in bottega (di cui li ragazzini fantasticavano, altri favoleggiavano e più d'uno pe via de la lettura de la mano avea pratica), si affacciò, e poi zampettò sul mattonato freddo qua e là con certi suoi chè chè chè chè tra due cumuli di maglie, una torva e a metà spennata gallina, priva di un occhio, e legato alla zampa destra uno spago, tutto nodi e giunte, che non la smetteva più di venir fuora, di venir su: tale, dall'oceano, la sàgola interinata dello scandaglilo ove il verricello di poppa la richiami a bordo e tuttavia gala d'una barba la in fronzoli, di tratto in tratto: una mucida, una verde alga d'abisso. Dopo aver esperito in qua in là più d'una levata di zampa, con l'aria, ogni volta, di saper bene ove intendeva andare, ma d'esserne impedita dai divieti contrastanti del fato, la zampettante guercia mutò poi parere del tutto.
Spiccicò l'ali dal corpo (e parve estrinsecarne le costole per una più lauta inspirazione d'aria), mentre una bizza mal rattenuta le gorgogliava già nel gargarozzo: una catarrosa comminatoria. A strozza invelenita principiò a gorgheggiare in falsetto: starnazzò spiritata in colmo alla montagna di que'cenci, donde irrorò le cose e le parvenze universe del supremo coccodè, quasi avesse fatto l'ovo lassù. Ma ne svolacchiò giù senza por tempo in mezzo, atterrando sui mattoni con nuovi acuti parossistici, un volo a vela de' più riusciti, un record: sempre tirandosi dietro lo spago. Parallelamente allo spago e alla infilata dei nodi e dei groppi, un filo di lana grigio le si era appreso a una gamba: e il filo pareva questa volta smagliarsi da reobarbara ciarpa, di sotto al ridipinto ciarpame. Una volta a terra, e dopo un ulteriore co co co co non si capì bene se di corruccio immedicabile o di raggiunta pace, d'amistà, la si piazzò a gambe ferme davanti le scarpe dell'allibito brigadiere, volgendogli il poco bersaglieresco pennacchietto della coda: levò il radicale del medesimo, scoperchiò il boccon del prete in bellezza, diaframmò al minimo, a tutta apertura invero, la rosa rosata dello sfinctere, e plof! le fece subito la cacca: in dispregio no, è probabile anzi in onore, data l'etichetta gallinacea, del bravo sottufficiale, e con la più gran disinvoltura del mondo: un cioccolatinone verde intorcolato alla Borromini come i grumi di solfo colloide delle acque àlbule: e in vetta in vetta uno scaracchietto di calce, allo stato colloidale pure isso, una crema chiara, di latte pastorizzato pallido, come già allora usava.
Di tutta quell'aerodinamica, naturalmente, e del conseguente sgancio del gianduiotto, o boero che fosse, la Zamira ne profittò pe non risponde: intanto che dei piumicini a ricciolo, nervosi e teneri come d'un papero infante, persistevano ad alto a mezzaria mollemente ondulando, da parere anelli in dissolvenza, del fumo d'una sigheretta. Nel prodigio nuovo l'imperativo del Pestalozzi vanì. Lei la si levò ratta di seggiola con tutto il podere cilestrino, la si diè a ciabattare e a sventolar la gonna dietro alla torva, zinale non aveva, e a garrirla: "Via! via! sozzona, sporcacciona! Una partaccia così, zozza che nun se' altro! al signor maresciallo!"
Tantoché la zozza in parola, tuttavia gargarizzandosi di mille cocococò, e scaracchiandoli infine tutti in una volta al soffitto in un chechechechè riassuntivo, per quanto doppiamente ancorata e dallo spago e dal filo, la si levò a volo fino sul ripiano della credenza: dove, incazzatissima, e rivestita sua dignità, la depositò, nel vassoio di peltro, un altro bel caccheronzolo, ma più piccino del primo: pif! Con che sembrò aver evacuato il disponibile. La paura (dei carabinieri) fa novanta...
 
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C.E.Gadda - "La Cognizione del dolore", Einaudi, Torino, 1975
 
II
 
L'altra figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l'ombra d'uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d'amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d'un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse "oh! Gonzalo, come stai? oh! guarda!" e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a giusa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d'astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l'altra, cosí pura, non era se non un pensiero lontano della notte.
Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell'uragano. Il cuore le martellava nella incertezza, si fece a preparare, sulla tavola, la lucernetta a petrolio. Ma non vi riuscì subito, anzi vi si impigliò: con zolfanelli umidi: tossí, ad accenderne alcuno: che subito si spegneva contro la cimasa annerata del lucignolo.
Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d'insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina di costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava... ma bisognò pensare al figlilolo...Quando la lampada poté rischiarare la stanza, alfine, le parve di dover cadere... L'ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto di molto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch'era molto alta finestra, su terrazzo; abbrividendo.
Il figlio, di sopra, stava a lavarsi: a riporre una spazzola in un tiretto. Ella ne udiva il passo, ammorzato, sopra la soffittatura.
Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d'una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nel peggiori bizze ed ubbíe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l'aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch'ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl) e il Prado, e Lukones, ed Iglesia, e i rispettivi campanili, con le campane, i sindaci, i parroci, i cocchieri, e via via tutto il Serruchón maledetto e testa di cavolo (così, o press'a poco, si esprimeva); tutte le infinite ville del Serruchón, i calibani gutturaloidi della Néa Keltiké, lerci, ch'egli avrebbe impiccato volentieri, se potesse, dal primo all'ultimo.
La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel '99, aveva incorporato in sé, subito, - avvampante splendore di giovinezza - il trionfo serpentesco della "sua" villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell'orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell'anima della facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l'idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido.
Quello le era bastato, durante quarant'anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d'ogni strazio e d'ogni miseria, d'ogni sdrucita maglia de' suoi bimbi, d'ogni scampanío, d'ogni gloria, d'ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte. La Idea Matrice della villa se l'era appropriata quale organo rubente od entelechia prima consustanziale ai visceri, e però inalienabile dalla sacra interezza della persona: quasi armadio od appiccapanni di De Chirico, carnale ed eterno dentro il sognante cuore dei lari. A quella pituita somma, recondita, noumènica, corrispondeva esternamente - gioiello o bargiglio primo fuor dai confini della psiche - la villa obbiettiva, il dato. Operando in lei, durante quarant'anni, gli ormoni infaticabili della anagènesi: ciò che donna prende, in vita lo rende: quella costanza imperterrita, quella felice ignoranza dell'abisso, del paracarro, sicché, dàlli e dàlli, d'un cetriolo, arrivano a incoronar fuori un ingegnere; la formidabile capacità di austione, di immissione dello sproposito nella realtà, che è propria d'alcune meglio di esse: le più deliberate e di più vigoroso intelletto. Tali donne, anche se non sono isteriche, impegnano magari il latte, e la caparbietà di tutta una vita, a costituire in thesaurum certo, storicamente reale, un qualsiasi prodotto d'incontro della umana stupidaggine: il primo che càpiti loro fra i piedi, a non dir fra le gambe, il più vano: simbolo effimero di una emulazione o riverenza od acuisto che conterà nulla: diploma grande, villa, sissignora, piumacchio. C'è poi da aggiungere che il più degli uomini si comportano tal'e quale come loro. Ed è una proprio delle meraviglie di natura, a volerlo considerare nei modi e nei resultati, questo processo di accumulo della volizione: è l'incedere automatico della sonnambula verso il suo trionfo-catàstrofe: da un certo momento in poi l'isteria del ripicco perviene a costituire la loro sola ragione d'essere, di tali donne, le adduce alla menzogna, al reato: e allora il vessillo dell'inutile, con la grinta buggerona della falsità, e portato avanti, avanti, sempre più ostinatamente, sempre più inutilmente, avverso la rabbia disperata della controparte. Sopravviene la tenebra liberatrice, che a tutte parti rimedia.
Impotente rabbia era in lui, nel figlio: dàtole un pretesto, subito si liberava in parole, tumultando, vane e turpi: in efferate minacce. Come urlo di demente dal fondo di un carcere...
 
...Da anni aveva intuito, di suo figlio. Anche in città: dov'ella risiedeva, fuor che l'estate. Le rade volte che apparisse, il figlio sperso, era ogni volta la stessa cupa idea.
La povera madre aveva lentamente compreso. Ora ella vedeva il buio di quell'anima. Lentamente, per aver lottato a lungo nella sua speranza cosí vivida, nella sua gioia: prima di abbandonarsi a comprendere. Un sentimento non pio, e si sarebbe detto un rancore profondo, lontanissimo, s'era andato ingigantendo nell'animo del figliolo: quel solo che ancora le appariva, talvolta, all'incontro, sorridendole e chiamandola "mamma, mamma", se pur non era sogno, sulle vie della città e della terra. Questa perturbazione dolorosa, più forte di ogni istanza moderatrice del volere, pareva riuscire alle occasioni e ai pretesti da una zona profonda, in espiabile, di celate verità: da uno strazio senza confessione.
Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d'una vita, più greve ogni giorno, immediato...
 
... Pace non conosceva, Gonzalo, né conoscerebbe: la madre, accudendo in quelle stoviglie, le parve di dover disperare: il viso di lui, sconvolto, denunciava, a certi momenti, ch'egli non poteva aver ragione del suo deliro.
Non bevevo mai liquori. Non fumava. Non era neppur pensabile che dopo lo stento faticoso de' suoi giorni, cosí avaramente retribuiti dalla Compañia de Destribución, ci fosse denaro per gli alcaloidi costosi di cui avevano riferito, fino a quel tempo, i giornali, un po' tutti, sia del Maradagàl vincitore che del debellato Parapagàl; di cui spiluzzicava anche, non appena le venisse fatto, certa letteratura d'avanguardia tra ribelle e satanica insediatasi nelle edicole delle stazioni. D'altronde egli lavorava, per quanto malvolentieri, proprio come sognano le madri che abbia a lavorare il lor figlio, cioè impartendo ordini ai dipendenti: alle ore d'agio, dopo aver distribuito milioni di chilowattora a tutti i cotonifici del Nevado Bajio, alle fabbriche invitte, allora, trovato un minuto a se stesso, apriva i libri, stanco, senza aver poi modo di arrivare a leggerli interi.
A certe ore pareva malato nel volere. "Un po' di buona volontà...", gli diceva la mamma, sorridendogli, studiandosi dargli animo, e indurre un po' di sereno su quel volto.
"La volontà...", rispondeva, "che è indispensabile agli assassini...". Ciò la impauriva, cercava di mutar discorso.
Forse era stanco. Era molto probabile che la guerra lo avesse mutato, e, più, l'annuncio che il fratello non ne tornerebbe. Eppure non lamentava la guerra: non ne parlava mai con alcuno: non era stato ferito...
 
...Il figlio pareva aver dimenticato al di là d'ogni immagine lo strazio di quegli anni, la incenerita giovinezza. Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce d'ogni guerra: e d'ogni spaventosa morte.
 
Quando discese, con un libro, la zuppa sembrò attenderlo in tavola, al suo posto, nel cerchio della lucernetta a petrolio: dal di cui tenue dominio il fumo della scodella vaporava a disperdersi nella oscurità, fra i costoloni del soffitto, buia plancia. Le in travature spagnolesche si drappeggiavano di ragnatele, come di vele in riserva, appese, andando per il Mare delle Tenebre.
Quel lucignolo cosí stanco e dimesso, immobilità chiusa nel suo cilindro di cristallo, sotto al paralume di vetro - (ch'era un cono di una bianchezza opaca d'attorno le meccanica della ghiera trinata) - gli apparve essere tutto quello che la madre concedeva: nella casa abitata dal tarlo, nel fondo della campagna solitaria. Era, in ogni modo, tutto quello che il padre e la madre avevano ritenuto bastevole, dopoché utile, alla vita, al progresso, alla felicità dei figli.
Eppure avevano ben conosciuto anche loro, cane il diavolo! quali mai tessere, o biglietti d'invito, qual sorta di pentàcoli o di talismani uniti valevano verso le porte, in dissertare ai mortali, e fino ai pitecantropi-granoturco, i battenti istoriati d'oro e d'avorio massiccio, le girevoli portiere degli Odéons. Maree d'uomini e di femmine! Con distinguibile galleggiamento di parrucchieri di lusso, tenitrici di case pubbliche, fabbricati di accessori per motociclette, e coccarde...
 
...Camerieri neri, nei "restaurants", avevano il frac, per quanto pieno di padelle: e il piastrone d'amido, con cravatta posticcia. Solo il piastrone s'intende: cioè senza che quella imponentissima fra tutte le finità pettorali arrivasse mai a radicarsi in una totalitaria armonia, nella fisiologia necessitante d'una camicia. La quale mancava onninamente.
Pervase da un sottile brivido, le signore: non appena si sentissero onorare dell'appellativo di signora da simili ossequenti fracs. "Un misto panna-cioccolato per la signora, sissignora!". Era, dalla nuca ai calcagni, come una staffilata di dolcezza, "la pura gioia ascosa" dell'inno. E anche negli uomini, del resto, il prurito segreto della compiacenza: su, su, dall'inguine verso le meningi e i bulbi: l'illusione, quasi, d'un attimo di potestà marchionale. Dimenticati tutti gli scioperi, di colpo; le urla di morte, le barricate, le comuni, le minacce d'impiccagione ai lampioni, la porpora al Père Lachaise; e il caglio nero e aggrumato sul goyesco abbandono dei distesi, dei rifiniti; e le cagnare e i blocchi e le guerre e le stragi, d'ogni qualità e d'ogni terra; per un attimo! per quell'attimo di delizia. Oh! spasimo dolce! Procuratoci dal reverente frac: "Un taglio limone-seltz per il signore, sissignore! Taglio limone-seltz al signore!". Il grido meraviglioso, fastosissimo, pieno d'ossequio e d'una toccante premura, più inebriante che melode elisia di Bellini, rimbalzava di garzone, di piastrone in piastrone, locupletando di nuovi sortilegi destrogiri gli ormoni marchionici del committente; finché, pervenuto alla dispensa, era "un taglio limone-seltz per quel belinone d'un 128!".
Sí, sí: erano consideratissimi, i fracs. Signori seri, nei "restaurants" delle stazioni, e da prender sul serio, ordinavano loro con perfetta serietà "un ossobuco con risotto". Ed essi, con cenni premurosi, annuivano. E ciò nel pieno possesso delle rispettive facoltà mentali. Tutti erano presi sul serio: e si avevano in grande considerazione gli uni gli altri. Gli attavolati si sentivano sodali nella eletta situazione delle poppe, nella usucapione d'un molleggio adeguato all'importanza del loro deretano, nella dignità del comando. Gli uni si compiacevano della presenza degli altri, desiderata platea. E a nessuno veniva fatto di pensare, sogguardando il vicino, "quando è fesso!". Dietro l'Hymalaia dei formaggi, dei finocchi, il guardasala notifica le partenze: "!Para Corrientes y Riconquista! !Sale a las diez el rápido de Paraná! !Tersero andén!".
Per lo più, il coltello delle frutta non tagliava. Non riuscivano a sbucciar la mela. O la mela gli schizzava via dal piatto come sasso di fionda, a rotolare fra scarpe lontanissime. Allora, con voce e dignità risentita, era quando dicevano: "Cameriere! ma questo coltello non taglia!". Tra i cigli, improvvisa, una nuvola imperatoria. E il cameriere accorreva trafelato, con altri ossibuchi: ed esternando tutta la sua costernazione, la sua piena partecipazione, umiliava sommessa istanza appiè il corruccio delle Loro Signorie: (in un tono più che sedativo): "provi questo, signor Cavaliere!": ed era già trasvolato. Il quale "questo" tagliava ancora meno di quel di prima. Oh, rabbia! mentre tutti, invece, seguitavano a masticare, a bofonchiare addosso agli ossi scarnificati, a intingolarsi la lingua, i baffi. Con un sorriso appena, oh, un'ombra una prurigine d'ironia, la coppia estrema ed elegantissima, lui, lei, lontan lontano, avevan l'aria di seguitar a percepire quella mela, finalmente immobile nel mezzo la corsía: lustra, e verde, come l'avesse pitturata il De Chirico. Nella quale, bestemmiando sottovoce, alla bolognese, ci intoppavano ogni volta le successive ondate dei fracs-ossibuchi, per altro con lesti caldi in discesa, e quasi in rimando, l'uno all'altro: alla Meazza, alla Boffi.
Erano degli strameledísa buccinati via come sputi di vipera, non tanto sottovoce però da non arrivare a capir cosa fossero: da dietro pile di piatti in tragitto, o di bacinelle di maionese, o cataste d'asparagi di cui sbrodolava giù burro sciolto sul lucido; perseguiti poi tutti, tutt'a un tratto, da improvvise trombe marine di risotti, verso la proda salvatrice.
Tutti, tutti: e più che mai quei signori attavolati. Tutti erano consideratissimi! A nessuno, mai, era venuto in mente di sospettare che potessero anche essere dei bischeri, putacaso, dei bambini di tre anni.
Nemmeno essi stessi, che pure conoscevano a fondo tutto quanto li riguardava, le proprie unghie incarnite, e le verruche, i nèi, i calli, un per uno, le varici, i foruncoli, i baffi solitari. Neppure essi, no, no, avrebbero fatto di se medesimi un simile giudizio.
E quella era la vita.
Fumavano. Subito dopo la mela. Apprestandosi a scaricare il fascino che la lunga pezza oramai, cioè fin dall'epoca dell'ossobuco, si era andato a mano a mano accumulando nella di loro persona - (come l'elettrico nelle macchine a strofinío) - ecco, ecco, tutti eran certi che un loro impreveduto decreto avrebbe lasciato scoccare sicuramente la importantissima scintilla, folgore e sparo di Signoria su adeguato spinterogeno ambientale, di forchette in travaso.
Cascate di posate tintinnanti! Di cucchiaini!
Ed erano appunto in procinto di addivenire a quell'atto imprevisto, e però curiosissimo, ch'era cosí instantemente evocato dalla tensione delle circostanze.
Estraevano, con distratta noncuranza, di tasca, il portasigarette d'argento: poi, dal portasigarette, una sigaretta, piuttosto piena e massiccia, col bocchino di carta d'oro; quella te la picchiettavano leggermente sul portasigarette, rinchiuso nel frattempo dall'altra mano, con un tatràc; la mettevano ai labbri; e allora, come infastiditi, mentre che una sottil ruga orizzontale si delineava sulla lor frotte, onnubilata di cure altissime, riponevano il trascurabile portasigarette. Passati alla cerimonia dei fiammiferi, ne rinvenivano finalmente, dopo aver cercato in due o tre tasche, una bustina a matrice: ma, apertala, si constatava che n'erano già stati tutti spiccati, per il che, con dispitto, la bustina veniva immantinenti estromessa dai confini dell'Io. E derelitta, ecco, giaceva nel piatto, con bucce. Altra, infine, soccorreva, stanata ultimamente dal 123° taschino. Dissigillavano il francobollo-sigillo, ubiqua immagine del Fisco Uno e Trino, fino a denudare in quella pettinetta miracolosa la Urmutter di tutti gli spiritelli con capocchia. Ne spiccavano una unità, strofinavano, accendevano; spianando a serenità nuova fronte, già cosí sopraccaricata di pensiero: (ma pensiero fessissimo, riguardante, per lo più, articoli di bigiutteria in celluloide). Riponevano la non più necessaria cartina in una qualche altra tasca: quale? oh! se ne scordano all'atto stesso; per aver motivo di rinnovare (in occasione d'una contigua sigaretta) la importantissima e fruttuosa ricerca.
Dopo di che, oggetto di stupefatta ammirazione da parte degli "altri tavoli", aspiravano la prima boccata di quel fumo d'eccezione, di Xanthia, o di Turmac; in una voluttà da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco stitico.
E cosí rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta fra medio e indice, emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei bronchi e dei polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l'ossobuco. La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale, da parer canto e trionfo, e presagio lontano di tamburo, la marcia trionfale dell'Aida o il toreador della Carmen.
Cosí rimanevano. A guardare. Chi? Che cosa? Le donne? Ma neanche. Forse a rimirare se stessi nello specchio delle pupille altrui. In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori...
 

Carlo Emilio Gadda

 
 
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Ins. 23 marzo 2001