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Carlo Emilio Gadda

A cura di Olivia Trioschi

Carlo Emilio Gadda:
tra autobiografismo
e garbuglio
 
Cinquant'anni fa, nel 1946, la nota rivista "Letteratura" cominciò la pubblicazione di un romanzo a puntate. Il genere e il titolo, "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana", sembravano perfettamente in linea con le indicazioni che arrivavano dal mondo della cultura, degli intellettuali, degli scrittori, complessivamente raccolte sotto il nome di Neorealismo. Ripresa del romanzo e abbandono della prosa d'arte o lirica che aveva caratterizzato il Ventennio, ritorno a moduli veristici e naturalistici (Verga e Zola, tanto per intenderci), predilezione per la lingua parlata, gergale o dialettale: erano alcuni degli ingredienti di quella "fame" di realtà e di impegno civile che molti intellettuali sentivano dopo il lungo digiuno fascista. Le premesse di un successo, quindi, parevano a prima vista esserci tutte. Ma il "Pasticciaccio", lungi dall'incontrare favori di critica e men che meno di pubblico, fu quasi totalmente ignorato. Come non fosse neanche uscito, tranne che per quei pochi - pochissimi - che da anni si erano interessati all'attività di uno scrittore strano, che non era proprio uno scrittore perché faceva l'ingegnere, ma che era fuori di ogni dubbio uno scrittore perché, pur di scrivere, si era da qualche anno consacrato alla bolletta più nera, licenziandosi per vivere di sola penna: e scriveva e scriveva, già parecchi lavori aveva pubblicato, quasi sempre in rivista. Ma forse per il suo caratteraccio, forse per la sua penna al vetriolo autentico, dalla quale uscivano anche giudizi poco lusinghieri sullo stesso Neorealismo, continuava a restare totalmente isolato. Messo da parte, ignorato. Tranne, appunto, che per pochissimi. Uno di questi pochissimi era Montale, che con lui aveva condiviso serate fiorentine e pagine di "Solaria" negli anni della seconda guerra mondiale. Un altro era Saba, amico degli anni romani. Se le frequentazioni vogliono dire qualcosa, viene il sospetto che l'isolamento non fosse dovuto alla scarsa qualità della produzione letteraria, o alla pochezza dell'uomo.
Carlo Emilio Gadda, classe 1893, negli anni Quaranta non era sotto le armi. In quel periodo viveva a Firenze e condivideva con tutti i fiorentini la penuria di cibo e la paura dei bombardamenti, che costringevano a fuggire via dalla città per cercare scampo in aperta campagna: "Male affagottato di un vecchio soprabito, denutrito, esausto - ricorderà in seguito - dopo pochi chilometri posavo su di un rialzo del terreno, in cui si affossava la strada o la stradiccia: respiravo nel sole, quasi implorando alcuna medicina alla fame, al gelo della persona e delle ossa. Mi pareva che Dio, dopo aver visto fucilare i miei fratelli, dopo avermi concesso di udire, atterrito, il crepitio delle scariche, gridasse dall'alto 'Dove vai, cretino?'. L'Annona del Comune, a onore del vero, mi largiva un ovo fradicio ogni due mesi...". Questo era Gadda. Un uomo che viveva e allo stesso tempo si guardava vivere dall'alto, con una prospettiva amplissima, e non sapeva risparmiare né a se stesso né agli altri l'irrisione feroce, che nasceva da uno sguardo lucido, spietato, privo di bonomia. Umorismo lombardo unito a rigorismo tedesco: una miscela esplosiva che a lungo rimase incompresa. Lo riconosceva lui stesso, parlando delle sue origini. "Sono nato a Milano da padre lombardo, Francesco Ippolito, e da madre lombarda. La madre di mia madre era lombarda, ma suo padre era austriaco. Questo credo abbia influito sulla mia formazione fisiologica. Penso all'impianto etnico, al sangue".
Sangue lombardo e sangue austriaco, dunque. Ha senso parlare di sangue? Per Gadda moltissimo. Il senso di appartenenza a una stirpe, il dover essere, l'imitazione degli avi fu ciò che lo spinse a una delle più disgraziate avventure della sua vita, la partecipazione alla prima guerra mondiale da interventista convinto. Ma prima di questo altre vicende familiari erano accadute, cose con cui Gadda avrebbe fatto i conti per tutta la vita.
Classe 1893, dunque. Milano come luogo di nascita. Una famiglia della buona borghesia e di agiate condizioni la classe di provenienza. C'erano insomma le premesse per una vita tranquilla, priva di colpi di testa e alzate d'ingegno; una vita liscia e calda come una spiaggia, appena ondulata dalle piccole onde di successi professionali, di nascite e morti familiari, passata al sicuro dentro il salotto buono con le foto di famiglia. E invece no. Il destino o Dio (Gadda soleva dire, invertendo i termini di una famosa frase, che "la scienza è un'ipotesi di cui Dio può fare a meno") disposero diversamente. Il padre, Francesco Ippolito, era rimasto precocemente vedovo in prime nozze; solo molto dopo, quando la figlia nata da quel matrimonio si era a sua volta sposata, si risolse a prendere in moglie un'insegnante di francese anche lei non più giovanissima. Da quel matrimonio nacquero tre figli, Carlo Emilio, Clara ed Enrico. "Da lì - cioè dal tardivo secondo matrimonio del padre - sono nate tante disgrazie" dirà Gadda. Perché? Perché il padre, impiegato e socio di un'azienda di filatura della seta, decise di investire le sue sostanze nella costruzione di una villa a Longone al Segrino, in Brianza; contemporaneamente, la concorrenza delle sete giapponesi aveva assestato un duro colpo all'impresa familiare. Così, nel giro di pochissimi anni, quando i bambini erano ancora molto piccoli, la famiglia si trovò d'un tratto povera. Una povertà che Gadda patì non tanto e non solo per le rinunce materiali cui si trovarono costretti, ma per il fortissimo sentimento di umiliazione che provò, allora e in seguito, nei confronti di quella borghesia cui comunque i Gadda continuavano ad appartenere, pur non potendoselo più permettere. Carlo Emilio, che possiamo immaginare come un bambino piuttosto fragile ("Uno dei primi shock l'ho avuto quando, lottando con un compagno, ho capito che era molto più forte di me") e introverso si trovò precocemente e brutalmente schiacciato tra l'essere e il dover essere. Tra l'essere un bambino povero, coi geloni alle dita e i vestiti troppo leggeri per la stagione, e il dover essere un bambino borghese, che a scuola mangiava da solo, stendendo un tovagliolo sul banco e usando le posate (facendo finta di non sentire le risate dei compagni che lo additavano: guardatelo, il signorino, non si degna di pane e companatico avvolto in un telo, no, lui non si può sporcare le mani. E giù fischi. E giù manciate di fango quando lo vedevano passare in bicicletta. I ragazzi, si sa, a volte sono crudeli). Né col popolo né con la borghesia, insomma. Condizione di isolamento che, come vedremo, diventerà una costante nella vita dello scrittore, tanto da meritargli il soprannome, in età avanzata, di "grande solitario".
La casa di Longone al Segrino e la madre sono immortalati in uno dei più celebri romanzi di Gadda, capolavoro assoluto della letteratura europea di questo secolo (ciò che viene ormai riconosciuto dalla critica concorde): "La cognizione del dolore". In quelle pagine lo scrittore fece i conti con parecchie cose del suo ingombrante passato e, almeno in parte, con se stesso. In un passo divenuto giustamente famoso descrisse quella che ormai riconosceva come la sua malattia: "era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere d'una vita, più greve ogni giorno, immedicato". Questo male buio e terribile come un'oscurità densa e appiccicosa al pari dell'inchiostro, che rende l'uomo cieco e perso come un gattino appena nato, che azzera i sensi e la ragione, che fa boccheggiare in cerca di aria, ha ora un nome: nevrosi. Non se ne sa molto di più, ma almeno si è cominciato a parlarne: e dare un nome ai fantasmi significa cominciare a farli uscire dall'ombra (e chissà che alla luce del sole, piano piano, non si dissolvano). Giuseppe Berto, scrittore ingiustamente dimenticato, riprese da Gadda la definizione di "male oscuro" e ne fece il titolo del suo romanzo più famoso (che nel 1964, anno di uscita, fece incetta di premi e suscitò il plauso della critica) dove raccontava del suo personale calvario per dare un nome, un volto, delle parole a quell'oscurità che attanaglia e imprigiona, che fa soffrire di un dolore muto e terribile, che storce la bocca in una smorfia incontrollabile. Da quel momento l'espressione "male oscuro" fu sempre più usata per indicare le varie malattie dell'anima: anche psicologi e analisti la accettano e la utilizzano nella vulgata quotidiana del loro gergo tecnico, altrimenti freddo e anonimo come tutti i linguaggi specialistici. Se, ora, si parla di "male oscuro" con qualcuno, si è certi di essere compresi, di aver tracciato con buona approssimazione i confini dell'ambito semantico in cui ci si muove: quello della sofferenza dell'anima (che non sempre, ma quasi, diventa sofferenza del corpo).
Gadda sapeva bene di cosa stava parlando - e in effetti solo di ciò che si conosce per esperienza diretta è possibile scrivere con tanta efficacia - perché era lui stesso ammalato, sebbene silenziosamente. "Già da bambino - scriveva - mostravo una sensibilità morbosa, abnorme". D'altro canto erano altri tempi; i tempi della Belle Epoque e del Liberty, dell'ottimismo della ragione e dei progressi della scienza; e se alle donne si permetteva di dare nomi delicati e struggenti al male oscuro (qualcosa come malinconia, affanno, talvolta deliquio), sempre che questo non sconfinasse nel dolore puro e nell'incapacità di avere una vita apparentemente regolare, nel qual caso si passava direttamente alla diagnosi di isteria o pazzia, agli uomini tutto ciò era vietato. A un uomo, specialmente a un lombardo di sangue tedesco, rampollo della buona borghesia, si chiedeva di essere pragmatico, orientato, deciso e decisionista. Perciò se l'uomo - il giovane, in questo caso - inclina agli studi filosofici e fin troppo alla meditazione solitaria, lo si dirotta prontamente e senza esitazioni verso la tecnica e le scienze, mestieri più consoni alla tradizione di famiglia e alle esigenze economiche; gli si instilla il senso del dovere, dell'appartenenza, della stirpe, dell'onore, del sacrificio. E il giovane si imbeve di tutto ciò, ne fa la legge di sua vita; e non attende altro che l'occasione per mostrare la sua totale aderenza a questi valori di rettitudine, probità, giustizia; non attende che di soffrire e immolarsi per qualcosa che li rappresenti tutti insieme. E cosa, se non la Patria, può riassumere in sé tutto ciò, specie agli occhi di un lombardo di sangue tedesco?
E così Gadda divenne interventista convinto. Lo possiamo immaginare, nelle "radiose giornate" del maggio 1915 percorrere le strade di Milano in mezzo agli sbandieramenti, ai fischi, ai cori, inneggiare alla guerra. Del resto ce lo dice lui stesso: "Io ho voluto la guerra, per quel pochissimo che stava in me di volerla. Ho partecipato con sincero animo alle domostrazioni, ho urlato Viva D'Annunzio e Morte a Giolitti, e conservo ancora il cartello con su Morte a Giolitti che ci eravamo infilati nel nastro dei cappelli. Del resto, pace all'anima sua. Io ho presentito la guerra come una dolorosa necessità nazionale, se pure, lo confesso, non la ritenevo così ardua. E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che mi hanno dato oblio e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo, anche se trema la terra, si chiama felicità". Ma scrisse anche "Al complesso della guerra si uniscono e si aggrovigliano, è ovvio, i preesistenti miei propri complessi, cioè l'insieme delle mie cinquecento disgrazie, ragioni e irragioni: mi studierò [º] di non tuttavia trascurare i più bei motivi, o almeno i più significanti, della mia catastrofica sinfonia".
Nel 1915 Gadda aveva ventidue anni ed era iscritto controvoglia a ingegneria al Politecnico di Milano. Il padre era morto da un pezzo, e la conseguenza era stata che le condizioni economiche della famiglia, già cattive, erano diventate pessime. Solo grazie a grandi sacrifici la madre riuscì a far studiare i figli (e a mantenere, al contempo, l'odiata villa di Longone). La partecipazione alla guerra gli parve l'occasione agognata per rigenerare la patria (quella patria cui già altri Gadda avevano consacrato se stessi e il proprio lavoro: "alcuni ministri zelantissimi dello stato italiano, altri dal cuore capace di rinuncia e di sacrificio per la buona attuazione dell'idea italiana") e per abbandonare gli odiati studi tecnici, riscattando se stesso con un gesto supremo che l'avrebbe liberato dalle frustrazioni e dall'angoscia da cui si sentiva minacciato e che lo conducevano all'inerzia e all'immobilità. Allora partì, pieno di aspettative, entusiasmo e desiderio di emergere; convinto di trovare altri uomini come lui, superbi e generosi, valorosi e rudi come antichi legionari, incuranti della fame, del freddo, del dolore e del pericolo. Partì da ufficiale con tutto il coraggio, l'entusiasmo e la fierezza di cui era capace, e anche di più. Quel che trovò sta scritto nel suo "Diario di guerra e di prigionia", un libro "impossibile", come ebbe a definirlo lui stesso. "Napoleoni sopra le spalle e teppa dietro le spalle", la folgorante, sconvolgente sintesi. Un esercito pasticciato, male organizzato, lento e inefficiente nelle manovre, dove più che la fermezza e il valore contavano il maneggio e la prosopopea, l'incuria e il vittimismo: "Chissà quelle mucche gravide, quegli acquosi pancioni di ministri e di senatori e di direttori e di generaloni: chissà come crederanno di avere provveduto alle sorti del paese con i loro discorsi , visite al fronte, interviste, ecc. Ma guardino, ma vedano, ma pensino com'è calzato il 5° Alpini! Ma Salandra, ma quello scemo balbuziente d'un re, ma quei duchi e quei deputati che vanno 'a veder le trincee', domandino conto a noi, a me, del come sono calzati i miei uomini: e mi vedrebbe il re, mi vedrebbe Salandra uscir dai gangheri e farmi mettere agli arresti in fortezza: ma parlerei franco e avrei la coscienza tranquilla. Ora tutti declinano le responsabilità: i fornitori ai materiali, i collaudatori ai fornitori, gli ufficiali superiori agli inferiori, attribuiscono la colpa: tutti si levano dal proprio posto quando le responsabilità stringono".
Gadda fu preso prigioniero dopo Caporetto e deportato a Celle Lager nell'Hannover, dove rimase fino alla fine della guerra. Possiamo immaginare, anche qui, le lunghe giornate trascorse a sentirsi nuovamente impotente e frustrato, a sentire il male oscuro che monta, inesorabilmente, e come una macchia d'inchiostro si allarga a coprire interi pezzi d'anima e di coscienza. "Sentii con quella forza subcosciente che è tanto forte in me nei momenti patologici che realmente la mia, la nostra vita è un brevissimo tempo; che già mezza è trascorsa senza frutto d'onore, senza una gioia; sentii con intensità spasmodica che non un sorriso di giocondità ha rallegrato i miei giorni distrutti; ho patito tutto, la povertà, la morte del padre, l'umiliazione, la malattia, la debolezza, l'impotenza del corpo e dell'anima, la paura, lo scherno, per finire a Caporetto, nella fine delle fini".
Eppure Caporetto non fu la fine delle fini. Nel gennaio 1919 l'ufficiale Carlo Emilio Gadda, spossato nel corpo e nella psiche, torna a casa. E lì scopre che Enrico, l'amatissimo Enrico, il fratello aviatore, era morto molti mesi prima. "Sensazione di terrore e solitudine per la fine di Enrico: provo come un senso doloroso di fine e di morte anche per me". La depressione, silenziosa e oscura, dilagò. Fu solo a fatica che lo scrittore si laureò al Politecnico. Subito dopo partì. Il dover essere lo spinse a cercare un occupazione, un lavoro, dei soldi. Per diversi anni viaggiò: prima fu in Sardegna, poi in Argentina, poi a Roma. Qui tentò per la prima volta di abbandonare l'ingegneria. Scrisse un romanzo col quale partecipò senza fortuna a un concorso Mondadori per lavoro inedito. Niente da fare. Ricominciò a fare l'ingegnere, in giro per l'Italia e l'Europa. Nel frattempo sostenne tutti gli esami di filosofia, senza peraltro laurearsi mai; si interessò della psicanalisi che allora muoveva i suoi primi passi in Italia; strinse amicizia con alcuni intellettuali: Ugo Betti e Bonaventura Tecchi, che conosceva dai tempi funesti della prigionia in Germania, e Montale; si avvicinò a Solaria, la rivista che cercava di dimostrare quanto la cultura fascista fosse retorica e provinciale interessandosi alle contemporanee esperienze europee, e sulle sue pagine pubblicò le prime opere, raccolte di saggi letterari e racconti. Erano passati quindici anni da Caporetto, dalla morte del fratello, dal primo viaggio fuori d'Italia. Il "periodo ingegneresco" era quasi al tramonto.
Nel 1936 morì la madre. Gadda vendette subito la villa di Longone al Segrino, intascò i soldi, smise una volta per tutte di fare l'ingegnere e scrisse di getto, l'anno dopo, la "Cognizione del dolore". Come si diceva, in queste pagine regolò un po' di conti. Con la madre, La Signora del romanzo, lei che tentava assurdamente di assecondare un ruolo che non doveva né poteva essere il suo: "che bisogno ha di bavare bontà sul primo vitello che le capita tra i piedi, sul primo cane randagio che viene a oltre..."; con la famigerata villa, in cui erano state vanamente sperperati i soldi della famiglia; con se stesso, Don Gonzalo Pirobutirro nella finzione romanzesca, hidalgo di antica famiglia ridotto a fare l'ingegnere (con alcuni tratti del commesso viaggiatore), con in corpo un odio sordo contro la città - piena di borghesi rifatti e arricchiti, volgari e chiassosi, ignoranti e melliflui, contro la campagna dei contadini prepotenti e villani, contro la madre, colpevole di aver affamato i figli e di aver amato quello morto più di lui, Gonzalo, il sopravvissuto malgrado se stesso. La vicenda, com'è noto, si svolge in Maradagàl, un immaginario paese dell'America Latina in cui è facilmente riconoscibile la Brianza, tra il 1925 e il 1933. Gonzalo Pirobutirro è un personaggio schivo e tormentato, sofferente di molti mali immaginari, che viaggia spesso per lavoro e quando torna alterna accessi di furore incontrollabile contro La Signora a momenti di annichilimento; rifiuta testardamente la protezione del Nistitùo de vigilancia para la noche", offerta da ambigui esponenti dell'ambiguo regime (e qui è trasparente l'allusione al fascismo) che si mostrano alquanto preoccupati per le sorti dell'anziana Signora, spesso sola di notte. Il romanzo è incompiuto, come quasi tutti i lavori di Gadda; l'ultima parte venne comunque resa nota solo nel 1970 (quando, come vedremo, si era già aperta la caccia all'inedito gaddiano sull'onda del tardivo successo) e ha uno svolgimento drammatico: dopo l'ennesima partenza del figlio per uno dei soliti viaggi di lavoro La Signora viene trovata agonizzante nel suo letto, selvaggiamente aggredita e percossa. Fine. Chi è il colpevole? Gadda non lo disse mai: avanzò, in qualche occasione, l'ipotesi del matricidio, ma non ne scartò altre (ladri sconosciuti, malviventi di passaggio e simili). Ognuno intenda quel che può o vuole.
La cognizione del dolore è un romanzo sconvolgente, una lettura che ha il peso specifico del piombo. È un impasto sovrumano di dolore e rabbia, di compassione e feroce sarcasmo: ogni pagina stilla sofferenza e ira, ogni parola viene scagliata come freccia o lasciata cadere come sasso nello stagno; è, anche, una straordinaria rassegna di stili e linguaggi, in cui il fuoco di fila delle famose invenzioni verbali gaddiane trova compiuto dispiegamento: tecnicismi, latinismi, dialetti, vocaboli aulici, tutto si fonde in un "pastiche" surreale che lungi dall'essere virtuosismo fine a se stesso riflette il caos incomprensibile del mondo e l'assurdità della vita, ed esprime a un tempo il sentimento drammatico della perdita, dell'assenza, del vuoto, del "male oscuro" insomma, e il comico che tutto ciò suscita se visto da una prospettiva diversa, esterna. Così Gonzalo giganteggia nei suoi furori, tragico eroe greco scolpito sul fondo della notte, e insieme si dibatte in una ridicola misantropia, e le sue urla sembrano squittii di un misero topolino; così i maradagaldesi-brianzoli vengono deformati in "manichini ossibuchivori", ignari di sé e del mondo, grottesche caricatura di un'umanità paradossale, e allo stesso modo ogni oggetto o animale su cui si appunti a un certo momento l'attenzione dello scrittore diventa il perno di una fissità allucinata, da dove partono per ogni direzione le schegge impazzite di una realtà irriducibile a qualsiasi ordine e rigore.
Rigore, ordine: quanto piacevano a Gadda. A lui, uomo dell'Ottocento, cresciuto con i totem della scienza positiva. Li cercava, li cercò senza trovarli tutta la vita. E proprio negli anni in cui scriveva la "Cognizione" qualcuno ne fece parole d'ordine politiche, li sbandierò con tutta la forza della sua oratoria. Quel qualcuno, con il suo seguito di camice nere, inizialmente infastidì Gadda. Un fastidio epidermico che diventò in breve odio viscerale quando fu chiaro che, lungi dall'imporre rigore e ordine, quel qualcuno si nutriva di tutto ciò che di irrazionale e viscerale trovava in seno agli italiani; non solo, ma quel qualcuno si faceva anche portatore e difensore di quei valori - famiglia e proprietà - che Gadda aveva demistificato, svelandone la natura di falsi miti con la forza della propria sofferenza. Gadda lanciò contro Mussolini qualcuna delle sue invettive più velenose e gli dedicò anche un acre saggio, "Eros e Priapo", scritto prima della seconda guerra mondiale ma pubblicato molto dopo, in cui formulava una serrata analisi, fondata su teorie psicanalitiche, delle ragioni che avevano portato alla dittatura mussoliniana, esprimendo al contempo una ferma condanna del fascismo: "una retrogressione da quel notevole punto di sviluppo a cui l'umanità era giunta verso una fase involutiva, bugiarda, nata da imparaticci, da frasi fatte, dall'abitudine di passioni sceniche, da un ateismo sostanziale che vuole inorpellarsi di una 'spiritualità' e 'religiosità'nettamente verbali".
Nel 1940 Gadda si trasferì a Firenze "manzonianamente, e anche un po' come un inglese (senza quattrini) del '700, per imparare la lingua e frequentare le biblioteche fiorentine". Qui, oltre a patire la fame e a fuggire dai bombardamenti, scrisse molto. Scrisse, tra l'altro, il suo romanzo più noto, che potremmo anche identificare come quello che lascia emergere più compiutamente la seconda costante dell'intera sua produzione, costantemente oscillante tra autobiografismo e garbuglio: "Quer pasticciaccio brutto de via Merulana". Il "Pasticciaccio" è un romanzo giallo piuttosto singolare: c'è un investigatore, ma si tratta di un uomo mite, non particolarmente acuto e brillante; ci sono due delitti, un furto e un omicidio, ma solo il primo viene parzialmente risolto; c'è anche il racconto delle indagini, ma i nessi cronologici e i riferimenti topografici sono così confusi e poco chiari, così come estremamente ingarbugliati risultano i legami tra la folla dei personaggi - ricchi borghesi, nobildonne, servette, donne di malaffare, giovanotti disoccupati e senza fissa dimora - che popola le pagine del romanzo. In estrema sintesi, comunque, si può dire che la vicenda è ambientata a Roma nel 1927 (ispirata, per stessa ammissione di Gadda, a un reale fatto di cronaca raccontato alla scrittore da un testimone diretto); Francesco "Ciccio" Ingravallo, funzionario della Questura, indaga su un furto avvenuto in Via Merulana 219, in quello che la voce popolare ha ribattezzato "er palazzo dell'oro" per la pingue ricchezza degli inquilini. Proprio lì abita Liliana Balducci, che Ingravallo conosce bene, non più giovane ma attraente signora dalla malinconia un po' spenta che affascina e al contempo incuriosisce il poliziotto. E proprio Liliana, pochi giorni dopo il furto, viene trovata assassinata nel suo appartamento. Le indagini sono freneticamente condotte in più direzioni, e infine i sospetti sembrano convergere su Assunta, una delle tanti "nipoti" che si erano avvicendate in casa Balducci, surrogati di quella figlia che Liliana non aveva mai avuto. Ma Assunta, messa alle corde da Don Ciccio, si difende e lo convince a sospendere l'arresto. Fine del romanzo. Chi è l'assassino? Non si sa. Cosa disse Gadda? Che il libro era "letterariamente concluso. Il poliziotto capisce chi è l'assassino e questo basta. Il giallo non deve essere trascinato come certi gialli artificiali che vengono portati avanti fino alla nausea e finiscono per stancare la mente del lettore". È chiaro, a questo punto, il motivo dell'insuccesso iniziale del libro. Ma come, nessuna denuncia sociale, nessun impegno civile, nessuna indagine sociologica, neanche si sa chi è l'assassino? E i lettori (i pochissimi) lo buttarono via.
Alla fine della guerra Gadda si trovò squattrinato come mai. I titoli di stato in cui aveva investito i suoi risparmi (e i proventi della vendita della villa) potevano servire giusto per sostituire momentaneamente i vetri - infranti - delle finestre. Ma grazie ad alcuni amici Gadda venne assunto come "praticante" (aveva cinquantasette anni) presso la redazione letteraria del Giornale Radio Rai. Si trasferì a Roma e nella sua nuova veste si occupò dell'organizzazione di serate a tema, di interviste e conversazioni; la sua foto e la sua firma apparvero sul Radiocorriere, dove presentava nuovi programmi. Notevole fu la codificazione delle norme generali con cui regolare ogni programma radiofonico, condensate in un opuscolo dove tra l'altro si legge: "All'atto di redigere il testo di un parlato radiofonico si dovrà evitare in ogni modo che nel radioascoltatore si manifesti il cosiddetto 'complesso di inferiorità culturale', cioè quello stato di ansia, di irritazione e di dispetto che coglie chiunque si senta condannare come ignorante dalla consapevolezza, dalla finezza, dalla sapienza altrui. Astenersi dal presupporre nel radioabbonato conoscenze che 'egli' il 'qualunque', non può avere e non ha. Inibirsi la civetteria di dare per comunemente noto quello che noto comunemente non è. A nessun uomo, per quanto colto, si può chiedere di essere un'enciclopedia". Norme ingiustamente, colpevolmente dimenticate al giorno d'oggi. Ma non apriamo il doloroso capitolo del contemporaneo squallore radio-televisivo (eccettuate poche e sempre più rare trasmissioni, solitamente messe in onda in orari in cui hanno ragionevolmente diritto di cittadinanza solo
Dracula e i lupi mannari).
Alla metà degli anni Cinquanta ci fu la svolta. Il Neoralismo segnava il passo, gli intellettuali non erano più tanto convinti di poter rappresentare la realtà così com'è, contribuendo al suo rinnovamento politico-sociale. Alcuni cominciarono a insistere sullo sperimentalismo e sulla libertà linguistica, riscoprendo l'autonomia dell'arte e cercando nuovi strumenti per orientarsi nel labirinto della società industriale avanzata. Allora qualcuno si ricordò di Gadda e il "Pasticciaccio" venne ripubblicato. Era il 1957, e fu un successo, clamoroso quanto inaspettato, anche di pubblico. Sembrò a molti di ritrovare, nelle meditazioni di Ciccio Ingravallo, parole di saggezza e stupore, le migliori che si potessero pronunciare a proposito di un mondo labirintico e incomprensibile: "[Ingravallo] sosteneva, tra l'altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonico nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo". In Ingravallo Gadda aveva trovato un nuovo alter-ego, non più tomentato ma rassegnato all'evidenza che la vita è un garbuglio, una matassa troppo intricata perché sia possibile districarne il capo per più di un poco. La struttura del "giallo", tradizionalmente tesa a ordinare geometricamente i fattori della realtà, costruendo una precisa gerarchia di cause, viene qui fatta cozzare contro la sua antitesi, l'esplosione del romanzo in quanto tale. Dalle schegge di questa conflagrazione scaturisce una visione polifonica della realtà, un caleidoscopio che pone tutto e tutti sullo stesso piano, contemporaneamente ma con angolazioni diverse, sicchè un poliziotto, una prostituta e la cacca di una gallina possono occupare con il medesimo diritto pagine e pagine di romanzo; un romanzo che si pone come una struttura potenzialmente aperta all'infinito, dove ogni particolare può essere inserito in un proliferare continuo di escrescenze e accadimenti, in una mescolanza sorprendente di linguaggi e stili.
Grazie ai nuovi e abbondanti guadagni lo scrittore potè lasciare l'impiego alla Rai, ma la notorietà lo infastidiva e imbarazzava, così come mal sopportava la curiosità dei lettori e dei mass-media. Mentre si apriva la caccia all'inedito e gli editori si contendevano i diritti - specie dopo che nel 1963 la Cognizione vinse l'importante Premio Internazionale di Letteratura - Gadda si chiudeva sempre più in se stesso, irritato dalla notorietà e dalla gente, afflitto da molti mali reali o immaginari, preoccupato che qualcuno potesse avercela con lui. Negli ultimi anni appariva, secondo la testimonianza dell'amico scrittore Giulio Cattaneo, "molto invecchiato, dimagrito, di rado si faceva la barba. Il grande solitario se ne stava quasi sempre chiuso nel suo appartamento disadorno rimuginando le vecchie storie amare e i piccoli incidenti che riempivano il vuoto accidioso dei suoi giorni: i genitori, le guerre, i parenti, gli editori, le tasse, le lettere, le telefonate...". Solo, come era sempre vissuto, morì il 21 maggio 1973, per le conseguenze di una bronchite contratta pochi giorni prima. Le chiavi di lettura della sua opera le aveva fornite, da tempo, lui stesso.
"Nella mia vita di 'umiliato e offeso' la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la mia verità, il mio modo di vedere, cioè: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. Sicchè il mio narrare palesa, molte volte, il tono risentito di chi dice rattenendo l'ira, lo sdegno". E ancora "Cose, oggetti, eventi non mi valgono per sé, chiusi nell'involucro di una loro pelle individua, sfericamente contornati nei loro apparenti confini: mi valgono in una aspettazione, in un'attesa di ciò che seguirà, o in richiamo di quanto li ha preceduti e determinati".
Autobiografismo e garbuglio, appunto: i due poli, inestricabili, di una vita dolente e di una creazione letteraria straordinaria.
 
Olivia Trioschi
 
Per leggere brani tratti da
Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana e La cognizione del dolore

 

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Ins. 23 marzo 2001