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Filippo Cecere

Linea di confine

Cecere Filippo, Linea di confine, pp.64, Lit. 10.000, Montedit, collana "Le schegge d'oro" (i libri dei premi),
dicembre 1996 ISBN 88-86039-96-4

La sua poesia, prevalentemente a sfondo psicologico-religioso, rimane sempre fedele al principio che un libro ben scritto è un libro ben letto dall'autore (Edmond Jabés). Nasce quindi essenzialmente dall'introspezione, mezzo per indagare i luoghi profondi del mistero dell'uomo e di Dio.

Il suo impegno per una nuova dimensione spirituale, ecumenica e senza alcuna appartenenza confessionale, lo ha avvicinato alla «teologia» dell'italiano Antonio Maione e del tedesco Eugen Drewermann nella loro particolare esegesi legata alla psicologia del profondo di cui il nostro Autore privilegia l'aspetto poetico.

 


Prefazione

 

«Un'opera complessa». È molto probabile che sia questa la prima impressione, anche intuitiva, di un lettore molto perplesso nel trovarsi davanti ad un'opera poetica articolata in una premessa, in una introduzione, in un nucleo semantico dal titolo poco esplicito di Norbertiana, in un epilogo e solo dopo, a sorpresa, in una sezione intitolata Conversione, peraltro costituita da una sola poesia di sei versi. In modo del tutto sorprendente, poi, seguono altre due sezioni dal titolo inquietante, Diaballen ed Il Saluto, poi riconciliate nella lirica trionfale del Libro de L'Unità ritrovata.

In realtà una tale complessità di articolazione del testo già ci rimanda pienamente alla sua struttura semantica: c'è una apparente frammentarietà nelle liriche come nelle immagini in esse contenute, ma questa frammentarietà si ricompone in un tessuto strutturale a maglie strettissime. Il testo, infatti, prima ancora di essere una raccolta di liriche, è un vero e proprio poema epico che non può che culminare nella risoluzione «quasi mistica» del libro de L'Unità ritrovata. Citando qualche verso dell'autore, tratto dal centralissimo «Intorno al processo d'individuazione dell'indemoniato di Gerasa»: «Di te seppi che mi hai riconosciuto / proprio dall'immagine reale che / tutti quegli specchi sanno dare. / In tanti frammenti o da uno solo / identica è l'immagine e unitaria». La frammentarietà e l'unità, tanto nell'architettura dell'opera che nella sua più profonda indicazione semiotica rappresentano una dicotomia polarizzata interna al testo, sempre allusa, evocata, e quando uno dei due termini di questa opposizione viene esplicitato trascina con sé nel testo anche la presenza del suo opposto, del suo complementare. Così ne «Lo stilita e il lunario» ad esempio, «frammenti di primo parto / inventano / l'universo».

Non siamo in presenza della statica ed in fondo banale considerazione che il tutto è composto da infinite parti, ma di fronte alla dinamica e complessa dialettica diadica che dà l'avvio, il metodo, il senso, al poema epico a cui siamo di fronte: si tratta del continuo confronto-scontro tra uomo e Dio, soggettività e divinità, frammentarietà del reale (in cui l'individuo è costretto ad una estrema e fluida ricettività per intuire nel perpetuo trasformarsi delle cose il senso del progetto divino a lui affidato) e la ipotetica ieratica fissità del disegno divino, la magica armonia del Tutto, da cui l'uomo è cognitivamente escluso. Il senso di questo poema epico è appunto l'articolarsi mitopoietico del tentativo compiuto dall'autore, dagli Uomini, dalle società, dalla Storia per riconquistare almeno a livello simbolico la comprensione e la compartecipazione all'armonia ed alla totalità del progetto divino. L'enorme ambizione, per altro realizzata, del poema, è accomunare in questo tentativo di ascesa, di riconquista dell'Eden, l'individuo e l'Umanità, le storie e la Storia, simboleggiati rispettivamente dall'autore e dalla realtà in cui l'autore vive: la città di Napoli. La stessa eterna ripetizione di questo processo di liberazione dell'uomo farebbe pensare ad un tentativo titanico, in cui l'unico premio alla sofferenza alla fatica consiste solamente nella libertà di tentare il percorso di ricerca (e vengono inesorabilmente alla mente i miti di Sisifo e di Prometeo), ma con uno spiazzamento del tutto imprevisto rispetto ai topoi culturali ed archetipici della nostra civiltà l'autore ci comunica che la redenzione è possibile, anzi necessaria. Proprio a partire dalla sommità del calvario l'uomo sarà libero se lungo il suo percorso avrà saputo riconoscere i segni che lo condurranno alla sua nuova natura; l'uomo sarà libero quando non ambirà più ad identificarsi con la paternità divina attraverso lo scandagliamento razionale della Parola, emanata dal Padre; l'uomo sarà libero quando non avrà più paura della frammentazione del reale, caotica, non interpretabile, che produce angoscia in seguito al senso di colpa per il tentato assassinio nietzschiano del padre/Dio (l'ipostasi letteraria di questa angoscia è la visione dell'ineffabile ghigno di demoni inanellati, incatenati tra loro, che incatenano, una «Legione che presidia la luce in mille specchi, ognuno dei/quali abbaglia questo cielo» (Intorno al processo d'individuazione…); l'uomo, infine e soprattutto, sarà libero quando l'integrazione tra conscio ed inconscio sarà compiuta, quando, in accordo con l'interpretazione psicanalitico-esegetica di E. Drewermann (Il Vangelo secondo Marco) «Il ticchettio dei passi risuonerà sopra / l'onde nate dall'angoscia che al compito / opponeva». (Norbertiana IV). Ma questo potrà accadere solo quando «mutata dalla colpa l'espressione si fa dal Genesi / Rivelazione», come recitano non casualmente gli ultimi due versi dell'epilogo, quando cioè ad attuare l'integrazione tra conscio ed inconscio interviene la figura del Cristo, dell'Amore. Molto esplicita a proposito è Norbertiana VI, dove l'amore, ipostasi del Figlio «nemmeno cercò che fu trovato», mentre il Padre, ipostatizzato nell'intuire, è frutto di una intuizione che procede dal Figlio, dall'Amore («… il padre dal figlio nel / verso fu innalzato…»), ed è l'amore a mediare, a far collaborare ragione e sogno. Potremmo quasi pensare al triangolo semiotico di Peirce in cui solo l'amore può fungere da interpretante di un esistente, la ragione, il cui segno non può essere che il sogno.

Per assurgere alla propria libertà l'uomo deve dunque recidere il legame con il fango da cui è generato (Intorno al processo d'individuazione…), superare lo sgomento derivante dalla inattingibilità del progetto divino rivelato, approcciare senza sensi di colpa la parcellarizzazione della realtà e scegliere la propria erranza, scoprendo che il cammino non è la via ma è già la meta. In perfetto accordo con l'esegesi drewermanniana l'amore libera l'uomo dall'archetipo di Giobbe, dal primigenio senso di colpa visibilmente condensato in una schiacciante e barocca «teologia della croce». Si capisce bene, allora perché il Consumatum est possa risuonare come grido di felicità (Norbertiana X) e perché l'autore possa scherzare con immagini dell'Apocalisse detraendone il loro potenziale escatologico e caricandolo di forte ironia, come in «rividi allora un buffo frate con la tromba: / perché non parli? ripeteva e soffiava / spernacchiando» (Introduzione I).

Il percorso epico è accompagnato da una densa riflessione sul tempo, o meglio sui tanti tipi di tempo possibili in cui il processo d'individuazione e di rinascita possa avere atto.

Ovviamente si tratta sempre di tempi non oggettivi, non misurabili cronometricamente. C'è un tempo assoluto, che è il momento della nascita, dell'inizio del percorso evocato dal roteando che chiude Vocazione, la prima lirica della Premessa contrapposto ad un tempo circolare cioè il tempo della via dell'introspezione descritto come molto vicino alla meditazione Zen (vd. Premessa III: «ripercorri il pensiero e costruiscine i nodi per poi scioglierli uno ad uno, / le risposi. Per tendere la corda dell'arco / abbisogni delle frecce benché / il centro sia già colpito»). C'è un tempo umano ed un tempo divino: il tempo di Dio è un non tempo, il suo luogo è un non luogo. Dio è evocato da luoghi biblici in cui il tempo è fermo, da deserti, dal cielo terso della Galilea, mentre il tempo umano è il tempo storico, simboleggiato in quest'opera dalle cattedrali. Così in Norbertiana VIII, dove la seconda cattedrale è appunto la trascrizione simbolica di un tempo storico periodizzato, il secondo millennio; o in Norbertiana IX, dove la cattedrale, metonimicamente rappresentata da una bifora viene collocata con fine ironia in un'epoca non sua per divenire il guscio protettivo in cui l'Io del poeta si rifugia ritrovando la serenità di poter riaprire il dialogo con una natura esterna, anzi, di farsi riscoprire da essa; oppure in Norbertiana X dove la funzione della cattedrale è poeticamente espressa in questo modo: «come in un sogno interpretato fu dare asilo nella limbica regione».

Il tempo di Dio, così come i luoghi di Dio, si manifestano ne l'opera soltanto come tempi e luoghi di confine: Dio si manifesta solo nel trapasso tra notte e giorno, ad esempio, o nel confine tra chiaro e scuro: si consideri quanto è poeticamente espresso in Vocazione (Premessa, I), la poesia che apre l'opera in assoluto. La voce di Daniele, l'assegnazione del compito della ricerca che avviene tra veglia e sonno dell'autore (primo confine), è introdotta da un secondo momento di confine tra il tempo dell'anziano (contraddistinto dal semema lentezza) opposto al fragore del tuono (caratterizzato dalla sua repentina brevità). Nello stesso modo la scena ostenta un terzo tipo di confine nettissimo tra l'imbrunire, posto come sfondo, e la luminosa stella del mattino, appuntata su di esso. Si consideri, per inciso, quale tasso di ambiguità designativa sia apportato dal sintagma «stella del Mattino», visto che la stessa stella può essere chiamata anche «stella della Sera», «Lucifero» e «Vespero»: il solo richiamo alla stella del Mattino, è già un confine di per se stesso. L'ultima poesia della Norbertiana (XI) poi, pendant ideale sia per motivi semiotici che strutturali della lirica Vocazione, presenta una situazione di segno uguale e contrario: laddove all'inizio eravamo posti di fronte ad un confine tra scuro e chiaro e l'imbrunire si impossessava progressivamente della scena, nella XI siamo davanti ad un angelo nero immerso in una nebbia «ferma e chiara», che diventa via via sempre più bianco fino a palesarsi come la sposa designata per l'autore. La notte è rischiarata non più dalla flebile luce della stella del Mattino, ma da un quarto di luna; significativamente entrambi gli astri sono collocati dall'autore sulla linea dell'orizzonte. Nel Saluto, infine, poiché il processo è stato portato a compimento, avremo finalmente l'attenuazione del contrasto e la presenza di una luna piena, che segue ad un tramonto in cui evapora «quel senso che il tempo consumò». L'opera nata nel tramonto di «Vocazione» si chiude con un altro tramonto che assurge ai toni di conquista personale.

Nel Saluto, citando lo stesso autore, «il tempo è perso | il dove andato…» perché l'uomo giunge alla fine del suo viaggio, non più importante né come percorso, né come meta. Non cerca più il senso, non soffre, conquista una natura angelica, non è più né oggetto né soggetto del piano divino, ma entra nel Tutto e si identifica in esso. Siamo completamento all'interno di una mistica fondata sullo Zen: «ribalta ora il pensiero la natura del viaggio / che più non si conquista al senso; affonda, / e fonda l'uomo nuovo la duplice occasione, / l'interiore corso la tensione priva d'intenzione».

In coerenza con la linea evolutiva del poema epico, il poeta viene sviluppando davanti agli occhi del lettore una definizione in continua trasformazione, poetica e metapoetica, del concetto di poesia: in apertura dell'opera, nella Premessa, il poeta si scopre chiuso in una stanza a seguire con lo sguardo le pila di mattoni, simili a infinite e regolari vie di città dall'impianto ippodameo, simili ad un labirinto dove ci si perde perché tutto è uguale. Dentro e fuori dalla stanza, dentro e fuori dalla memoria la poesia è il perdersi nell'interiorità dove il flusso di coscienza è lineare ed ininterrotto, o meglio la poesia, la poiesis, è il punto più profondo e nascosto del labirinto dell'inconscio, è il Minotauro che vi si cela. A pochi versi di distanza, in apertura della Introduzione la poesia viene così evocata: «Mentre tracciavo una lunga linea nera / all'interno della quale riposare / vacillai…». Qui la poesia non è solo il cuore del labirinto, ma anche il filo di Arianna che vi ci conduce. Il nero filo della scrittura, fatto d'inchiostro.

Coerentemente con le aspettative del lettore nella stessa poesia non può che comparire un evidente richiamo a Derrida, alla sua definizione poetica di poesia come istrice appallottolato sul bordo di un'autostrada, a rischio di essere investito; con una immagine molto simile l'autore ricorda che una delle definizioni possibili di poesia consiste nel suo rischio (Introduzione I: «ricordi il bordo d'autostrada da cui / fosti salvato?… In fondo il Kitsch è rischio / controllato»). Anche nel finale del poema si avverte l'eco della poesia della fugacità, altro atteso richiamo a Derrida (Diaballen iii: «Seppure il verso è composizione dell'avverso / e farsi poeta tenace è render l'impossibile fugace»). Ma quando il poeta dichiarerà morta la parola, o meglio la lingua intera, intesa come sistema convenzionale di segni, alla Saussure, o come norma regolata da leggi, alla Hjelmslev, allora le linee narrative si distendono, e la linea spezzata e drammatica del labirinto si spiana (Epilogo II: «Ora la poesia è fatta / di una scia / tenue e continua / Che si ripete monotona nel pensiero / che non costruisce parole e / neanche immagini, che scompare / lasciandosi a minuscoli granelli / di sabbia»).

Marina Castagneto

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