Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Giovanni Tini Brunozzi
Ha pubblicato il libro

Giovanni Tini Brunozzi - Diciannove racconti brevi




 

 

 

 

 

 

Collana I salici (narrativa)

14x20,5 - pp. 136 - Euro 10,80

ISBN 978-88-6037-5339



In copertina:
«Profilo di donna»
disegno a matita realizzato dall'autore

I personaggi ed i luoghi che appaiono in questo libro
sono di pura fantasia. Ogni riferimento a persone e ad
avvenimenti reali è puramente casuale.


Prefazione
Incipit


Prefazione

Giovanni Tini Brunozzi: Una presenza significativa nel panorama della narrativa autoctona


Chiudendo la mia prefazione all'opera esordiente di Giovanni Tini Brunozzi (
"I piedi di Dio" - collana di narrativa "I Salici" - Dicembre 2005) azzardavo l'ipotesi che questo scrittore, ancorché dilettante autodidatta, avesse ancora molto da dire.
 
I fatti mi hanno dato ragione al punto che, a meno di due anni di distanza, ho ricevuto in gradita anteprima la bozza di "Diciannove Racconti Brevi", uno scritto che ripercorre il riuscito modulo antologico proponendo una nuova serie di episodi tratti da una vita piena di cambiamenti repentini, di sensazioni forti, di circostanze impreviste, a volte perfino fugaci, ma comunque tali da lasciare un'impronta nitida ed indelebile nei giacimenti della memoria.
 
Anche questa volta l'Autore parte dalla sua terra natale per farci incontrare un asinello, un usignolo che diffonde le note di un suo struggente canto d'amore, un carro di buoi, un'ansimante locomotiva e per farci respirare i profumi familiari che vengono dai giardini e dagli orti, dai focolari dove si arrostiscono i ceci e le fave; le fragranze di un tiglio fiorito, delle ginestre e del serpillo che si stemperano in quelle più umide del muschio e della vegetazione boschiva che da secoli ricopre le prime pendici del Monte Subasio.
 
In questo microcosmo - che ha come orizzonte le antiche mura romane della città di Spello, la Chiesa di San Ventura e il torrente Chiona - Tini Brunozzi colloca tutta una serie di personaggi accomunati da un destino amaro di povertà, di sacrifici, di rinuncie che talvolta conducono ad esiti tragici, come nel caso di Giustino (il venditore ambulante dalla faccetta di gnomo cresciuto) che risolve la sua crisi esistenziale gettandosi sotto il treno delle ore diciannove.
 
Da questo preludio, segnato da un gesto di estrema ribellione, scaturiscono ulteriori contatti con il tema della morte che non è mai percepita in maniera lugubre ed opprimente, ma viene piuttosto annotata serenamente come un fatto naturale che deve accadere, prima o poi, spesso per porre termine ad una vita grama, quando il vino non riesce più a garantire momentanee e deludenti evasioni. Muore la moglie del mugnaio Gino che le sopravvive fino a novantaquattro anni; muore di polmonite a trent'anni lo zio di Giovanni Tini Brunozzi; muore lontano dalla sua terra Luigi Ribuoni, pittore ritrattista di personaggi famosi, per farvi ritorno malinconicamente sotto una pioggia che per aver bagnato un carro funebre è destinata a durare quaranta giorni.
 
Con la storia dettagliata di questo personaggio si chiude la prima parte della raccolta sulla quale cala un sipario di sapore felliniano che nasconde i tipi umani abbozzati con pennellate intrise nel verismo delle cose semplici e con il gusto evidente di scoprirne la psicologia all'interno dei gesti e dei comportamenti, allegorie antropomorfe della miseria, della sfortuna, della sconfitta e della disperazione: Rosetta che è salita su un vagone delle FF.SS solamente una volta per il viaggio di nozze; Prospero, il "fiscolaro" che insidia con sotterfugi la ignara rammendatrice; Beniamino, diffidente analfabeta che convive con l'asina e con il maiale e che viene graziato dalla pietosa bugia del Cavalier Teofilo che gli nasconde la prova epistolare dell'adulterio consumato in suo danno. Svaniscono le sonorità di questo piccolo mondo: quella del fischio intonato del netturbino di via degli Orizzonti; quella della voce da mezzo soprano della madre che canta la triste storia di "Ciuffettino" che "per casolari vagando va..."
 
Nella seconda parte l'orizzonte si allarga, per cerchi concentrici, a raggiungere le montagne della Barbagia segnate dai secolari tratturi delle greggi che interrompono con studiata geometria la vegetazione mediterranea permeata di aromi forti di frutti e di erbe; ma si tratta di un attimo fuggente, giusto il tempo per ascoltare, all'interno di un quadro di delicate tonalità elegiache, i tremolanti belati di un'agnellina appena nata - Eco - che ricorda nel nome lo sfortunato amore della ninfa per Narciso.
 
Già nel racconto successivo, estratto dalle lettere che Giovanni Tini Brunozzi ha scritto alla giovane moglie la cui presenza segna la linea di demarcazione tra due diverse età, veniamo trasportati dal monsone in Thailandia (Nakorn Sawan) per ammirare il giardino dei serpenti "Bam-Ngù", il complesso monastico "Wat-Po", l'imponente Buddha di smeraldo. Nell'aria aleggiano le spezie dei caratteristici ristorantini galleggianti per mescolarsi al profumo intenso di gelsomino emanato da una collana di fiori mentre melodie esotiche accompagnano la gestualità ritmata di ballerine dal copricapo turrito, preludio alla prorompente sensualità di uno spogliarello integrale, naturalmente impudico senza essere volgare.
 
Nell'isola di Cipro, sulle alture di Limassol, mentre insieme all'autore contempliamo il mare dalla cui spuma è nata Afrodite, la dea dell'amore, veniamo raggiunti dal profumo dolciastro delle carrube, da quello più acuto del rosmarino e della ginestra; ma anche in questo caso si tratta di una breve parentesi perché poco dopo ci troviamo immersi nell'aridità bollente di Assuan per la posa in opera dell'elettrodotto di Komombo. I disagi di un lavoro rischioso vengono mitigati dalla generosa ospitalità del connazionale Filippo Pratalini e dall'occasionale contatto con la clientela cosmopolita del Casinò di Alessandria dove Tini Brunozzi cede alla tentazione del gioco d'azzardo ma resiste, onorevolmente, a ben altra e più forte tentazione memore dei moniti del nonno paterno "Sii galantuomo in ogni circostanza... Non avrai mai a pentirtene".
 
Prima di lasciare il continente africano il dinamico "globe trotter" trova il tempo per sostare in raccoglimento davanti ai tre cimiteri di guerra di El Alamein (Quota 33), teatro di una delle più famose battaglie del secondo conflitto mondiale, che ha lasciato una traccia profonda anche nella famiglia Tini Brunozzi per la scelta del padre del piccolo Giovanni di rimanere coraggiosamente con la parte perdente e per questo venire deportato al campo di concentramento di Coltano (Pisa). Di questa scelta esprime, a distanza di anni in Brasile, ammirata memoria uno dei persecutori responsabili della caccia all'uomo - l'antifascista Bruno Rubini - che così si rivolge a Tini Brunozzi: "...voglio dirti che rimanere con la parte perdente fino alle estreme conseguenze come ha fatto tuo padre, significa essere uomo dalla testa ai piedi ed avere coraggio da vendere". L'Autore chiude questo racconto ( il quattordicesimo della serie) con una pertinente e commossa citazione del primo verso della poesia "Après la bataille" di Victor Hugo: "Mon père ce hèros au scurire si doux".
 
Si parlerà ancora di guerra nel brano successivo dedicato alla morte dignitosa e romantica del botanico tedesco Peter Haushofer, veterano dell'Africa Corps, esule in Paraguay dove ha fatto crescere un piccolo eden di fiori e di piante, situato su un promontorio lambito dalle acque tranquille del lago Ypacaraì. E si tornerà a pensare alla morte in prossimità delle rovine di Copan, mute testimoni della misteriosa scomparsa del popolo Maya, scoperte per caso nel 1576 da Don Diego Garcia de Palacio. Tuttavia anche in questi casi l'autore non formula ipotesi né trancia giudizi; preferisce instaurare a seconda dei casi un rapporto di divertita complicità o di solidale comprensione con i personaggi che ci fa incontrare e che formano un "puzzle" colorato, variopinto e polimorfo, dove senza apparente fatica si incastrano le emozioni a formare un quadro d'insieme che non si dimentica, simile ad una filigrana evanescente, svelata al termine di una lunga dissolvenza, come capita quando si è in cerca di sogni.
 
Merita un cenno particolare la singolare capacità di soffermarsi su elementi di dettaglio senza compromettere l'efficacia della tensione narrativa che anzi ne risulta piacevolmente accentuata: è un chiaro sintomo rilevatore della persona abituata a verificare con precisione la consistenza di uomini e mezzi di un cantiere o di un deposito di materiali e quindi costituzionalmente disposta all'articolazione verbale di fatti rilevanti o, comunque, di elementi identificativi. Tipico esempio di questa attitudine è - fin dalle prime pagine - l'inventario minuzioso del contenuto delle valigie del venditore ambulante: nella prima, rocchetti di filo, bottoni, trine, forbicine, agorai, ferri per lavorare la lana, uncinetti e tante altre minuterie; nella seconda, molto più profonda, lattine di sarde sottosale, vasetti di pepe, noce moscata, chiodi di garofano, un bilancino, semi di fiori e di ortaggi e varie altre essenze.
Poco più avanti, nella descrizione dell'interno di un vecchio mulino, vengono ordinatamente evidenziati l'amperometro, la bocchetta della macina, la tramoggia, il buratto che separa con ritmica rumorosità la crusca dalla farina (e per questo motivo fu scelto come simbolo della prestigiosa Accademia della Crusca, riferito alla sua meritoria funzione nei riguardi della lingua italiana - n.d.r.), l'adiacente svecciatoio, il ventilatore per nettare il granturco ed il seme dell'erba medica.
 
Corollario di questa naturale propensione alla rappresentazione dettagliata e precisa si individua nella paziente ricerca linguistica che nella sua impostazione artigianale, e quindi scevra da qualunque ostentazione, attinge a termini poco noti come il verbo "bruire" usato per indicare la tenue sonorità della sega usata dai falegnami. Aggettivi, metafore e similitudini diversificano i racconti e ravvivano le vicende ammantandole di un alone fiabesco, a volte perfino surreale, per esorcizzare - quando occorre - presenze inquietanti come quella del diavolo e delle sue ingannevoli metamorfosi che lo fanno apparire un vitellino parlante, un toro dalle corna di fuoco, un vecchio barbuto e cencioso, una femmina affascinante e lasciva, un improbabile frate con il saio cinto alla vita dalla coda luciferina al posto del cordone.
 
Viene esaltato, per contrasto con altre situazioni più articolate e complesse, il disarmante candore della figlia di quattro anni (come non ricordare "I Piedi di Dio" del primo libro?) che davanti ad una coppia di inattesi ospiti nicaraguensi ripete ingenuamente una esortazione che ha memorizzato, estremizzando con la logica essenziale dei bambini brandelli di conversazioni dei genitori: "Papà non ubriacarti stasera!". Con questo delicato, tenerissimo bozzetto, l'Autore ci permette di entrare nell'intimità dei suoi affetti per assaporare con lui "la soave voglia di vivere, cullati nel mare malinconico delle cose passate": in questa definizione autografa risiede la chiave di lettura di tutto il pregevole lavoro di Giovanni Tini Brunozzi.


Pio De Giuli
Direttore della Rivista "Subasio"
Trimestrale di informazioni culturali.
Censore del III Comizio dell'Accademia Properziana



Diciannove racconti brevi 

Dedico questo libro a mia moglia Mariella
e alle mie figlie Chiara e Mercedes

 
Prima parte

Il treno delle ore diciannove


(Un giorno di settembre del millenovecentocinquantasei)




L'asina s'era fermata col muso contro il cancello chiuso del passaggio a livello e Rosetta, seduta sulla sbarra di legno che funge da tirante fra le due sponde laterali del carretto, e da sedile per chi tiene le briglie, dopo una dura giornata passata nei campi, stava ricercando nel profilo del paese adagiato sulla collina, le finestre della sua casa, dove una volta arrivata, avrebbe dovuto riprendere le faccende domestiche interrotte la sera prima. Un camion che proveniva dalla strada parallela alla ferrovia e che si diresse verso la campagna, sollevò una nuvola di polvere che ricadendo, la luce radente del sole, fece apparire come una pioggia di minuti cristalli.

Il casellante uscì dal suo gabbiotto con il berretto d'ordinanza ed una bandiera rossa sulla mano sinistra, si avvicinò al cancello, guardò la strada nei due sensi, quindi vi rientrò con il fare serio di un addetto all'ordine. Il treno era ancora lontano. A volte l'attesa si protraeva oltre i quindici minuti. A Rosetta venne in mente quel giorno lontano del suo viaggio di nozze che l'aveva portata a Roma, a casa di un lontano parente. Quella era stata la prima e l'ultima volta ch'era salita su una carrozza delle ferrovie dello Stato. Mentre passava i grani dei suoi ricordi fra le dita di quel tramonto estivo, vide avvicinarsi, spingendo la bicicletta carica delle due valigie di legno, Giustino l'ambulante, la fronte imperlata di sudore, la bombetta spinta all'indietro e sulla faccia, contrariamente al solito, stampato un senso di profonda tristezza.

Giustino faticò un po' a piazzare la bicicletta sul treppiede, poi si tolse il cappello, si asciugò la fronte con un fazzoletto, si riposizionò quella specie di bombetta con tutte e due le mani e, superato il passo pedonale a fianco del grande cancello, guardò i binari per scoprire da quale parte arrivasse il treno. Non riuscì a veder nulla. Riattraversò il passaggio e sedette sulla pietra miliare posta sul ciglio della strada.

 
* * *

 

Giustino passava tutti i giorni della settimana percorrendo in largo e lungo la campagna cercando di vendere la sua mercanzia. Tozzo, di piccola statura, aveva una faccetta da gnomo cresciuto ed una voce possente da gigante buono. Indossava sempre una giacca grigia che avendo perso per l'uso la consistenza originale, pendeva da tutte le parti. I pantaloni, dove era scomparsa ogni traccia della piega, li teneva stretti alle caviglie da una molla per impedire che pedalando finissero fra i denti della corona e la catena. Quando veniva ai Cipressi, località dove i nonni avevano la casa, noi ragazzini correvamo per sentirlo improvvisare rime che adattava a tutti quelli che aveva intorno e cantare stornelli del suo grande repertorio. Arrivava a metà cortile, piazzava la bicicletta sul grosso cavalletto ed apriva le valigie di legno che all'interno erano divise in settori ben ordinati. Nella valigia posta sul portabagagli del manubrio c'erano rocchetti di filo, bottoni, trine, forbicine, agorai, ferri per lavorare la lana, uncinetti e tante altre minuterie, mentre in quella dietro il sellino, molto più profonda, ci teneva lattine di sarde sottosale, vasetti di pepe, di noce moscata, di chiodi di garofano, un bilancino, semi di fiori, di ortaggi e varie altre essenze. Appena sistemata la sua bancarella mobile, si tirava indietro il cappello a bombetta, metteva la mano destra sull'orecchio destro per aumentare il padiglione auricolare e dopo un colpo di tosse provocata per rischiarare la voce, cominciava a stornellare per richiamare le donne dei vicini casolari.
- Fiore di rosa, correte donne a far la buona spesa,
Che qui c'è tutto per la vostra casa.
- Fior d'ogni fiore, la merce di Giustino è la migliore,
Venite donne, venitela a comprare.
Dopo qualche minuto, si formava un capannello di donne e bambini che frugavano per scegliere le cose di cui necessitavano. Finita la vendita, risistemava la merce che le acquirenti avevano scombussolato, si rinfrescava la gola con un bel bicchiere di vino bianco che la casa più vicina gli offriva e dopo aver ringraziato tutti, se ne andava canterellando a bocca chiusa verso la prossima fermata. Giustino viveva in via Arco della Fortezza nel centro storico del paese. La sua era una casa strana. Un portone enorme su un muro di cinta dava adito ad un lungo e stretto cortile a metà del quale partiva una rampa di scale che serviva a superare un dislivello di almeno sei metri. In cima alla scala la loggetta e la porta di accesso ad un unico stanzone che era cucina e camera da letto. La loggetta era il posto dove Viola, la moglie, passava le sue giornate seduta su un seggiolone, con lo sguardo fisso al portone del cortile che era sempre aperto. Questo le permetteva di poter catturare l'attenzione dei passanti che chiamava facendoli salire l'irta rampa di scale, per parlare dei suoi malanni o per chiedere qualche favore. La continua inattività aveva ridotto la sua capacità di movimento e quando si spostava da una parte all'altra della stanza, lo faceva a fatica lamentandosi in continuazione per i molteplici dolori che l'affliggevano. Quando noi ragazzini passavamo avanti a quella casa, mettevamo la testa dentro il portone per curiosare ed a quel punto Viola ci chiamava e ci chiedeva di andar a comprare caramelle, cedrato, o magari una medicina in farmacia. Quando si alzava in piedi per prendere i soldi da una piega della sua veste, sembrava una matriosca. Un faccione rotondo, roseo e senza rughe, due occhietti come bottoncini di madreperla, i capelli color cenere raccolti a fondo di fiasco sulla nuca e fissati con un pettine di tartaruga di quelli che vendeva il marito. Vestiva sempre polacche a fiori colorati ed una veste a righe verticali lunga fino agli stinchi. Viola era sempre malata, o per lo meno credeva di esserlo ed invece di parlare piagnucolava cercando l'altrui compassione. Certo, non dev'essere stato facile per Giustino, dopo giornate passate camminando, aprendo e richiudendo le valigie, parlare, cantare, bere un bicchiere ad ogni stazione della sua Via Crucis ed al tramonto spingere la bicicletta carica fino alla cresta del paese, arrivare a casa e sentire i piagnistei della moglie. Il più delle volte, se voleva mangiare qualcosa doveva cucinarselo, perché Viola o per il mal d'ossa, o per l'emicrania, o per i crampi allo stomaco non era mai in grado di preparare la cena. In estate, una volta tornato a casa, c'era ancora un bel pezzo di giorno da sfruttare. Allora scendeva giù all'osteria per incontrare i suoi amici. Erano sempre lì, Pollo con quel testone riccioluto ed arruffato, la barba incolta e lo sguardo perso in qualche remoto angolo nel mondo dei suoi ricordi annebbiati dal vino. Chicco, con la pelle paonazza del colore del sangiovese, gli occhi strabici e le gambe divaricate per mantenersi meglio in equilibrio. Quando alzava il bicchiere per augurare la salute, con uno sguardo abbracciava tutti, compreso l'oste che era fuori del campo visivo. Poi c'era Peppe il "pensionato", una larva di uomo con lo sguardo concentrato sempre sul bicchiere. Dopo aver bevuto qualche litro di vino, pasteggiato con cipolla bianca e sale, uscivano dalla bettola e appoggiati al parapetto in muratura dello slargo vicino, iniziavano il loro repertorio di canzoni a doppio senso. Giustino faceva l'assolo e tutti gli altri il coro.

(assolo) Uccellin mio bell'uccellin,
perché non entri nella gabbiola...
(coro) E trulla rulla rulla ri-lallero
E trulla rulla rulla ri-là là.


Le canzoni andavano avanti fino a tarda ora e con l'aumento della platea, aumentavano le richieste:
- Giustino... Canta quella dello spazzacamino, quella delle tasse, quella della serva e il canarino...! -
Qualcuno comperava un fiasco di vino e con l'uso di un solo bicchiere, dissetava i cantori pretendendo poi nuove prestazioni canore, finché dalle case vicine arrivavano le voci delle madri e delle mogli che chiamavano figli e mariti per la cena. Era l'ora di smettere. Finito lo spettacolo i cantori si salutavano con grandi abbracci ondeggiando come ombre riflesse su superfici liquide e barcollando prendevano la via di casa con la concentrazione di chi muove i primi passi.

 

* * *


Il casellante uscì dal suo riparo e guardò verso Perugia. Si udì da lontano il fischio della locomotiva che giunse alle orecchie di Giustino come un richiamo. Un carro di buoi s'era fermato dietro a quello di Rosetta e l'uomo che li guidava scese a terra e prese quello più irrequieto per la cavezza. Giustino si alzò in piedi, si avvicinò a Rosetta e le chiese con un filo di voce:
- Conosci mia moglie Viola? -
- Certo che la conosco! -
- Bene, dille che parto con il treno delle diciannove. Salutala tanto da parte mia. -
Rosetta pensò che Giustino quel giorno avesse alzato il gomito più del dovuto e attribuì quell'apparente stato confusionale al vino. Già si udiva l'ansimare della locomotiva a poca distanza. Giustino si avvicinò al cancello, vi sostò un attimo, e attraversato di corsa il passo pedonale, andò incontro al treno. L'urlo della locomotiva si confuse con lo sferragliare assordante delle ruote frenate sui binari. La gente che vide Giustino nel suo folle gesto, rimase come allibita. Il convoglio si fermò un centinaio di metri più avanti e dai finestrini si affacciarono i viaggiatori per capire cosa fosse successo. Intanto, la locomotiva ferita e insanguinata da quell'impatto, andava liberando la sua angoscia in bianche fumate che deponeva come irreali sudari su quelle membra straziate, mentre verso occidente, la montagna inghiottiva l'ultimo bagliore di quel tramonto estivo.

 

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Ins. 12-04-2008