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Giovanni Tini Brunozzi


Giovanni Tini Brunozzi è nato a Spello (Perugia) il 9 maggio 1935 ed ivi risiede. Diplomato geometra, ha lavorato per ventiquattro anni (1960-1984) nella realizzazione di progetti per l'elettrificazione di pesi in via di sviluppo, spostandosi dal Medio all'Estremo Oriente, dall'America del Nord a quella Centrale e Meridionale. E' sposato e padre di due figlie.
Ha iniziato a scrivere racconti per un giornalino locale ed ora continua a farlo per riempire la sua insonnia e per il piacere di raccontare esperienze vissute all'estero e ricordi dell'infanzia.

Giovanni Tini Brunozzi nel mese di aprile 2008 ha pubblicato con Montedit "Diciannove racconti brevi" - Collana I salici (narrativa) - 14x20,5 - pp. 136 - Euro 10,80 - ISBN 978-88-6037-5339

Giovanni Tini Brunozzi nel mese di dicembre 2005 ha pubblicato con Montedit
"I piedi di Dio" - Collana I salici (narrativa) - 14x20,5 - pp. 108 - Euro 7,20 - ISBN 88-6037-030-2


 
I fondi del comune
 
Tante volte avevamo tentato di carpire i segreti di quei vani oscuri aggrappandoci all'inferriata dell'unica finestrina che vi guardava dentro, senza mai riuscirci. Spesso, per quegli strani effetti che un raggio di luce può generare passando attraverso la fessura di una vecchia porta, avevamo avuto strane visioni di orripilanti mostri, adagiati in un sepolcrale letargo.
Bastava allora che uno di noi, per burla, lanciasse una sassata contro il portone di quercia, perché il terrore che quei mostri si svegliassero ed invadessero la strada, ci faceva fuggire e rincorrere le nostre grida giù per i vicoli fino a perderci come un esercito in rotta.
- Chi ci abita là dentro? -
- Nessuno - ci disse un'anziana Signora che passava spesso per la nostra strada.
- Sono i fondi del Comune. Tanti anni fa c'era l'officina di un fabbro. Da quando il fabbro è morto i fondi sono rimasti chiusi. -
Ma un pomeriggio di marzo, quando gli orti si colorano di un verde tenero come d'acqua stagnante, trovammo il portone aperto e sulla soglia una civetta assicurata alla gruccia da una fine catenella di ottone. Rimanemmo a guardare da una certa distanza pieni di curiosità e precauzione. Dal fondo usciva un fumo acre e puzzolente che intasava le vie respiratorie e a tratti, lo squillare di un martello battuto sull'incudine. La civetta osservava noi con l'intensità di chi vuol capire le mosse dell'avversario roteando la testa e bilanciandosi ora a destra ora a sinistra. Quando arrivammo davanti alla porta per guardare dentro, fummo accolti da un lancio di attrezzi e di urlacci che c'inseguirono per un buon tratto di strada. Scappammo a salti come caprioli e solo quando avemmo raggiunto la distanza di sicurezza ci fermammo a guardare indietro. Il vecchio che ci aveva così aggrediti, stava raccogliendo i suoi martelli ed ogni tanto sollevava il braccio in segno di minaccia. Con quel suo atteggiamento, aveva messo bene in chiaro che da quel momento, dovevamo sloggiare da quel tratto di strada. La sua reazione ci sembrò esagerata, in fondo non avevamo fatto niente di male. Uno di noi avanzò l'idea che fosse un matto scappato dal manicomio e tutti ridemmo di cuore dimenticando quello che era successo. Il Messo Comunale che stava passando con la cartella dei documenti sotto braccio e che aveva osservato la scena, ci raccomandò di non metterci tutti insieme davanti alla porta.
- Il poveretto che sta lavorando là dentro è vecchio e quasi cieco ed è inoltre molto geloso della sua civetta. Se proprio volete guardare, fatelo, ma uno alla volta, in modo che lui non se ne accorga. - Il Messo Comunale era una nostra vecchia conoscenza. Quando passava da quelle parti, si fermava a parlare con noi ed aveva sempre dei buoni consigli da dispensare. Una volta ci aveva separati da una rissa, ordinandoci, con l'autorità che gli derivava dall'età e dalla divisa, di fare la pace, prendere un libro e guardare tutti insieme le figure. La casa più vicina era la mia, per cui toccò a me cercare il libro della concordia. Mi presentai con una vecchia edizione della Divina Commedia illustrata da Gustavo Dorè. L'impatto fu notevole ed in seguito, dovetti riprendere quel librone a richiesta di tutti, incantati dalle drammatiche scene dell'Inferno Dantesco. Il Messo se ne andò via solo quando si rese conto che la sua iniziativa aveva avuto pieno successo. Facemmo come lui ci disse. Uno alla volta, appiattiti contro il muro, spiammo il lavoro del vecchio all'interno di quell'antro. Piccolo di statura, con un paio di occhiali dalle spesse lenti, il labbro inferiore sormontato da quello superiore, calvo, ad eccezione di una coroncina di riccioli canuti appena sotto la nuca, si muoveva con difficoltà tra pentole e brocche di rame. La scala larga quanto l'apertura della porta scendeva per una decina di gradini verso un pavimento di terra battuta. La volta e le pareti in pietra erano nere dalla fuliggine. C'erano montati su piedistalli in muratura, un trapano con un enorme volano, un maglio ed una trancia ridotti ormai all'immobilità dalla ruggine e dal tempo. In mezzo all'antro, una forgia accesa liberava una fiammata di vividi colori che si frantumava in una miriade di scintille man mano che saliva verso il soffitto. Sull'ultimo gradino in basso, dove il vecchio aveva disposto tutta la serie dei suoi attrezzi, un paiolo vomitava una schiuma pestifera e su un foglio di cartone, allineate e luccicanti, una serie di posate appena rivestite da uno strato di stagno. Quando qualcuno si sporgeva tanto da farsi notare, ricominciava il lancio di martelli, tenaglie ed invettive che mettevano in agitazione noi e la civetta. All'inizio di quell'autunno però, quando l'alito dei comignoli ancora profumava d'ulivo e gli orti si tingevano di rosso per i tanti pergolati che c'erano, il portone di quercia si richiuse. Il vecchio era passato a miglior vita. Recuperammo col tempo quel tratto di strada che in un certo senso ci era stato espropriato, ma ci rimase addosso una certa malinconia per ciò che avevamo perso. Fu come se all'improvviso ci fosse mancato un compagno di giochi, un antagonista.
 
 
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Agg. 12-04-2008