Luigi Forte

 
DEL POVERO BERTOLT BRECHT OVVERO
L'ARTE DELLA SIMULAZIONE
 
 
 

"E che cos'è la vita, se non

un'invenzione? Che comincia con

l'inventare te stesso" (John Le Carré,

Il sarto di Panama)

 

 
L'opera giovanile di Bertolt Brecht (ma non solo quella) è racchiusa in una frase del drammaturgo Heiner Müller: "Der Brecht redet sehr viel über sich. Aber er ist immer, auch wenn er sagt: "Ich, der Stückeschreiber", nicht Brecht. Er ist nicht die Person Brecht, es ist immer auch eine Rolle - also immer auch die Figur"1. I diari, gli schizzi autobiografici, le lettere, le poesie, i primi drammi sono un'unica glossa al proprio sé. Pochi scrittori contemporanei hanno eretto un tale monumento alle proprie gesta giovanili. Eppure più parla di sé, più Brecht si nasconde. Perché egli non produce nient'altro che la propria immagine esterna, "disegna - per usare un'espressione di Umberto
Eco a proposito del Cardinale Mazzarino - un'idea di profondità psichica fatta tutta di superfici"2. Se scrivere significa, fra le altre cose, come disse una volta Max Frisch, "sich selber lesen", allora Brecht ha condotto una lettura di sé sopra le righe, mettendo a punto, in forme diverse, un'interminabile autobiografia per diffondere immagini stilizzate, ruoli. Insomma, per trasformarsi fin dall'inizio in personaggio. Come Stendhal (di cui egli cita i diari in un appunto del 1920), che nelle sue opere "est toujours masqué ou travesti"3, così Brecht si nasconde dietro le sue figure, siano esse Baal o i Seeräuber, i poeti Villon o Rimbaud. Poeti da cui attinge disinvoltamente e senza far parola: per esempio nei testi teatrali Im Dickicht der Städte e Die Dreigroschenoper. Così anche il plagio diventa uno dei suoi numerosi travestimenti, un modo per affrancare il soggetto dall'imperativo romantico della creatività geniale. Un modo per proiettarlo, fuori da ogni ruolo predeterminato, nel flusso stesso della molteplicità dei soggetti letterari, dove l'elemento autobiografico si mimetizza e nobilita in un'incessante metamorfosi. La realtà in cui Brecht disegna il proprio personaggio è del tutto proiettata sull'orizzonte della letteratura. E lui non ne fa mistero: "Die Einstellung eines Mannes der Welt gegenüber sollte eine möglichst literarische sein. (...) Alle großen Männer waren Literaten"4. Come non pensare a Kafka, che in una lettera a Felice Bauer afferma: "Der Roman bin ich, meine Geschichten sind ich", ribadendo altrove di essere "nichts anderes (...) als Literatur"5? Si tratta di un'idea fissa presente anche in Brecht in molteplici variazioni, come, ad esempio, in questo passo dei Tagebücher: "Wenn der Sinn für Literatur in einem Menschen sich erschöpft, ist er verloren; denn ein Gebildeter interessiert sich angesichts aller menschlichen Ereignisse immer nur für ihre literarische Aufmachung, ihren Stil, die Geschliffenheit ihrer Pointe oder die Brutalität ihres Raffinements"6. Le pagine diaristiche giovanili di Brecht illustrano perfettamente tale tendenza, in
cui la vita si enfatizza ed esalta in un gioco di metafore, di variazioni liriche, di frammenti. Brecht fa esperienza nel linguaggio. In Was ist Poesie Jakobsen ha descritto con chiarezza il fenomeno: "Jede verbale Äußerung stilisiert und
transformiert in gewissem Sinn die Begebenheit, welche sie schildert. Entscheidend ist die Tendenz, das Pathos, der Adressat, die Vor-'Zensur', der Vorrat an fertigen Schemata"7. Infatti nel glossare e trasfigurare la propria vita, Brecht, come spesso autori che si muovono lungo una traccia autobiografica, potenzia l'aspetto del significante, l'apparato retorico con cui costruisce o ricostruisce i momenti di un'esperienza esistenziale. Dice Starobinski nel suo libro su Jean- Jacques Rousseau: "Peu importe le peu de ressemblence 'anecdotique' del'autoportrait, puisque l'âme du peintre s'est manifesté par la manière, par la touche, par le style"8. Proprio lo stile in Brecht conosce sfumature infinite, ma una figura d'espressione costante e univoca: quella dell'iperbole, nel bene e nel male. Ecco quanto annota l'autore diciottenne: "Ich bin böse und bin in wüsten Schenken herumgesessen, in Plärrerwägen und bei Soldaten und weiß freche Lieder..." e come insiste un paio di anni dopo con dizione ormai baaliana:"Ich verderbe Jünglinge und fresse junge Weiber..."9: è il prototipo del cattivo, come suona una poesia della Hauspostille scritta verso il 1918 sulla scia del François Villon del Testament. Attorno a questo nucleo tematico si può costruire un' ampia
enomenologia che trova un primo, organico approdo nella stesura del Baal. C'è autodenigrazione ("Ich bin schon etwas verdorben, wild und hart und herrsüchtig..." proclama nel 1916), cinico vitalismo ("Ich habe zuviel Leiber
gefüllt...", recita la poesia Vision in Weiß contigua a tanti sonetti erotici), sentimenti antiborghesi ("Der Bürger ist ebenso nötig wie das Pissoir"), epigrafi anarcoidi ("Hier steht Bertolt Brecht - suonano versi del 1921 - auf einem weißen Stein/Fleisch/fressender Esel, bußfertiges Schwein/Halber Niggergötze und halber
Affe/ Maulheld, Zutreiber, Speichellecker und Pfaffe")10.
Ma c'è anche un aspetto più arrogante e narcisistico, il gesto di sfida dello scrittore in erba: "Schreiben kann ich, ich kann Theaterstücke schreiben, bessere als Hebbel, wildere als Wedekind..."11. Ha appena diciott'anni, ma un'identità chiara e determinata che gli farà annotare nel giugno del 1921: "Ich beobachte, daß ich anfange, ein Klassiker zu werden"12. Viene da chiedersi: realtà o paranoia? Autoesaltazione narcisistica oconsapevolezza critica? Ma ha poi senso tale interrogativo per un Brecht che è
soprattutto immagine? Perché lo scrittore di Augusta è ciò che Goffmann ha definito la teatralizzazione del sé: "...eine dramatische Wirkung, die sich aus einer dargestellten Szene entfaltet"13. In altri termini, è un soggetto come prodotto semiotico: ciò che riesce ad apparire agli altri, una maschera sapientemente costruita. E qualche applauso Brecht comincia a riscuoterlo fin da giovanissimo, se una conoscente, Frau Veeh - come si legge in un appunto del 1913 - si lascia scappare: "Ich habe das Gefühl, Eugen, als ob Sie noch einmal ein ganz Großer unseres Volkes werden würden"14. Gran fiuto ebbe quella signora di Augsburg. Ma che dire dell'interessato che, a quindici anni, annota con
serioso compiacimento una frase così impegnativa? È lo stesso che in una lettera a una coetanea cita il fascino della propria personalità o si immortala in compagnia del neonato appena avuto dall'amica Paula Banholzer: "Der Vater ist ein Genie, das Kind liegt in frischer Wäsche..."15. Che l'accento sia anche autoironico, non muta la
questione: Brecht scrive o parla dall'alto di un palcoscenico, dietro quella che
Goffmann ha chiamato una "facciata personale". Dietro una maschera, che può essere il nostro stesso io, quel "sé, che desideriamo essere"16. La messinscena non ubbidisce solo a segrete pulsioni narcisistiche, ma anche alla necessità di indicare un nuovo percorso al soggetto uscito dalla catastrofe della prima guerra mondiale. L'immagine del Dichter, del poeta tra fin de siècle ed espressionismo, ricalca motivi letterari spesso discordanti e comunque ormai impraticabili: dal superuomo ibrido (di cui Baal è la parodia) al genio debole e impotente, all'individuo emarginato e folle. La teatralizzazione del giovane Brecht rivela un orizzonte diverso e stimola la vocazione di una nuova cultura. Un documento assai convincente (e quasi stereotipo) di autostilizzazione brechtiana è la notissima poesia Vom armen B.B. scritta durante un viaggio in treno nell'aprile del 1922: un Rollengedicht, ma anche un singolare
messaggio sulla modernità, di cui Brecht immagina il tracollo con il sigaro in bocca acceso fino alla fine dei tempi e una mascella d'acciaio intenta a svuotare la casa del mondo, come postillava W. Benjamin. Qualche anno dopo, nel 1926, Brecht riassumerà con aria da Neue Sachlichkeit (a parte il 'paesaggio eroico', titolo di una poesia di G. Heym): "Als heroische Landschaft habe ich die Stadt, als Gesichtspunkt die Relativität, als Situation den Einzug der Menschheit in die großen Städte zu Beginn des dritten Jahrtausends, als Inhalt die Appetite. .."17. Espressioni che mettono a fuoco non solo la realtà di Vom armen B.B., ma l'intera scena teatrale del primo Brecht: un mondo in cui l'individuo canta il proprio tramonto, ma al tempo stesso afferma i suoi voraci appetiti. Ascesa e caduta dell'individualismo, dunque: Spengler e l'Untergang des Abendlandes è, non a caso, una delle letture brechtiane così come la sua contiguità a Jünger e al mondo dell'anticapitalismo romantico (come ha ben mostrato Hans-Thies Lehmann) illumina una vasta zona in cui si muovono i suoi primi eroi, da Baal a Garga. Lo stesso Lehmann ha suggerito, a suo tempo, una lettura più affascinante della stilizzazione brechtiana, su cui già all'inizio degli anni Sessanta, in un'ottica stilistico-formale, era intervenuto Walter Jens18.
I vari temi epocali del Rollengedicht - dal maschilismo alla precarietà, dall'apocalisse metropolitana al disincanto cinico, dal piacere alla voracità e distruttibilità - trasformano il mondo autobiografico del soggetto B.B., in una ragnatela di connotazioni letterarie. L'ossatura autobiografica della poesia è uno
strumento puramente funzionale alle metamorfosi di un'individualità che si arroga, nella finzione, il giudizio definitivo sulla propria epoca. La maschera di Brecht è ora la letteratura stessa in cui il soggetto può potenziare retoricamente il suo apparato di difesa e superare da tale postazione la crisi della propria identità ormai evanescente. Vom armen B.B. rappresenta un'iperbole di pensiero, in cui la
dismisura si sposa con la precarietà assoluta. In un'epoca di crisi strutturale a tutti i livelli, come quella weimariana, che Brecht saprà adeguatamente interpretare attraverso la figura di Galy Gay, un soggetto scopre nel gioco della letteratura, con i suoi rimandi testuali, le sue maschere e le sue finzioni (non ultimo, ancora una volta, le pauvre Villon), la potenza della propria messinscena. Forse ricerca
un'identità nell' unico spazio ormai possibile: "...confié à l'oeuvre écrite, au livre, à la littérature", ha scritto Starobinski parlando di Montaigne e introducendo un concetto estetico d'identità che "venait prendre la place laissée vi de par le déclin des autorités traditionelles"19. È un soggetto testuale (Text-
Subjekt, ha suggerito Lehmann), che di fronte all'apocalissi moderna destinata a livellare ambizione e autonomia umanistiche, scopre una sorta di gioco a rimpiattino, l'astuzia del mimetismo. Gli si adatta forse il termine di mimicry usato da Roger Caillois per designare l'individuo che "joue à croire, à se faire croire ou à faire croire aux autres qu' il est un autre que lui-même. Il oublie, il déguise, dépouille passagèrement sa personnalité pour en feindre une autre..."20. Ma c'è anche la lezione delle tre metamorfosi di Zarathustra, che smaschera il vecchio soggetto della metafisica, quello cristiano-borghese incapace di pensare il senso se non come trascendente, per passare al "nichilismo attivo e positivo"21.
Il giovane Brecht, che legge Nietzsche e Büchner, e si sdoppia in alter-ego, in ruoli, in proiezioni letterarie, coglie nel crepuscolo del soggetto borghese la dinamica e la forza stessa della sua trasformazione: è il soggetto plurale, lo stendhaliano "se sentir vivre à plusieurs exemplaires", coinvolto in una processualità che salda l' assenza di ogni prospettiva sul futuro ("Von diesen
Städten wird bleiben: der durch sie hindurchging, der Wind!")22 con la gioia e il piacere. Che anche ciò che pareva duraturo sia attraversato dal vento, è una garanzia che il male può aver fine; e il godimento più grande è quello di ammirarne il tracollo con un buon sigaro in bocca. Illusione estrema che non ha certo preservato B.B. da grandi delusioni. Ma la novità non stava nel credere che si
potesse salvare il mondo attraverso la letteratura, ma che lo si potesse affrontare, nel gioco di una finzione trasgressiva, con il disincanto di chi ha preso in mano il proprio destino. E Zarathustra ne predica i modi: "Recht sich nehmen zu neuen Werten (...) Wahrlich, ein Rauben ist es ihm und eines raubenden Tieres Sache"23. Non è un caso che in Brecht sia spesso ricorrente la tematica del fressen, del divorare: dall'atto unico Kleinbürgerhochzeit a Baal, a Trommeln in der Nacht e poi oltre fino
al Galilei. Avidità, insaziabilità, impazienza contrassegnano, tra l'altro, una dimensione tipica del narcisista, quale Brecht sicuramente fu: cioè l'oralità. L'universo orale, insegnano gli psicoanalisti, è aperto e sconfinato, come il mondo di Baal."Ich lebe von Feindschaft - è il suo motto -. Mich interessiert alles, was ich fressen kann"24. In Vom armen B.B. c'è un verso di biblica pregnanza che
suona:"Fröhlich machet das Haus den Esser: er leert es" (La casa colui che banchetta fa beato: ché egli la vuota). Nella sua esegesi W. Benjamin ha scritto:"Essen heißt nicht nur sich nähren, es heißt auch zubeißen und zerstören"25. Dunque ancora un soggetto che coniuga gioia e distruzione, che sperimenta la propria vitalità nel vivere fino in fondo la precarietà. "Wir müssen Zerstörer sein!" aveva esortato quel Nietzsche, che il giovane Brecht segue nella ridefinizione di un ruolo del soggetto in epoca di grandi terremoti sociali. Oltre i confini di una morale cristiano-borghese, il cui capovolgimento avviene in modo definitivo nella raccolta Hauspostille e oltre lo statuto di un soggetto che fonda la propria identità su sicurezze metafisiche. Lehmann ha sottolineato il legame molto stretto, da questo punto di vista, fra la visione di Nietzsche e la sensibilità brechtiana dei primi anni Venti. Esso richiama l'idea di un soggetto leggero ("Schwächer als Wolken! Leichter als die Winde!" leggiamo in Lied am schwarzen Samstag), la cui esperienza è legata al passaggio, alla transitorietà: "Was groß ist am Menschen, das ist, daß er eine Brücke und kein Zweck ist: was geliebt werden kann am Menschen, das ist, daß er
ein Übergang und ein Untergang ist"26. Di tale prospettiva Vom armen B.B. offre un quadro più che convincente in un gioco ironico, che è anch'esso un'ennesima maschera: il soggetto letterario che si eleva sulle macerie del mondo tra riflessi autobiografici. La sua identità è solida e forte nella misura in cui denuncia la propria impotenza: come voce di un testo, divenire e persistenza nella pura
letterarietà. Come finzione autobiografica. È ancora Nietzsche a ricordarci che lo spazio dell'artista si nutre dell'ingenuità del bimbo, in una zona franca in cui solo il gioco acquista un senso: "Ein Werden und Vergehen, ein Bauen und Zerstören ohne jede moralische Zurechnung in ewig gleicher Unschuld hat in dieser Welt allein das Spiel des Künstlers und des Kindes..."27. La prima ideologia di Brecht, potremmo dire con un paradosso, è stata forse la letteratura. Lo scrittore bavarese l'ha ridefinita come il luogo dei suoi travestimenti, circoscritta come l'arena dove inscenare fantasie d'onnipotenza, che
molto hanno dato da pensare alla critica psicoanalitica. I funambolismi artistici del giovane Brecht, il suo gioco di apparenze e invenzioni, le sue mille stilizzazioni appaiono sempre più, anche se inconsapevolmente, incluse in uno spazio che è quello del dionisiaco nietzscheano ("libero esercizio di una forza metaforizzante, di una vitalità inventiva originaria")28, che esclude ormai qualsiasi unità dell'essere. Dal clan di amici di Augsburg dominato dalla sua personalità, che trasforma la provincia bavarese in un centro di vitali utopie artistiche, nasce un progetto poetico che declina attraverso la maschera i grandi temi dell'epoca. È il legame fra autobiografismo, riclicato su stereotipi e modelli culturali (dall'esotismo all'americanismo, dalla decadenza all'apocalisse, all'anticapitalismo romantico), e una nuova soggettività, che rende affascinante e unico il percorso brechtiano di quegli anni. Individuarlo nei suoi singoli segmenti sarebbe cosa assai complessa. Certo è che la trasvalutazione di tutti i valori passa per Brecht attraverso un ribaltamento della tradizione spiritualistica tedesca. Il dramma Baal non a caso è una sorta di archetipo che attraversa tutta la sua
opera. E non a caso è anche la risposta vitalistica e materialistica all' immagine di una decadenza di tipo idealistico, almeno come l'aveva formulata Hanns Johst in Der Einsame, da cui Brecht trasse spunto. Una prospettiva che colse ancora Hugo von Hofmannsthal del 1926 scorgendo nel Baal la fine del concetto di individualità idealistico-borghese29. A dire il vero, dietro la struttura parodistica del dramma andava a fondo non solo il protagonista, ma una strategia: l'impossibilità di un diretto antagonismo nei confronti della società borghese. Quella sorta di decalogo per l'uomo della giungla urbana (ma suona come un manuale per terroristi) che è la raccolta Aus dem Lesebuch für Städtebewohner, mostra in quale direzione si sposterà la strategia del soggetto brechtiano: verso il mimetismo, la clandestinità. Per ora il trasgressivo Baal, l'asociale che urla in faccia ai borghesi: "Ich will Euch zeigen, wer Herr ist"30 è destinato a soccombere di fronte ad una società altrettanto asociale. Forse ha ragione Jürgen Manthey a dire che Baal è stato il Werther di Brecht: anch'egli deve morire perché il suo autore possa sopravvivere. Ma muore anche perché Brecht ha deciso che non quella è la strada del confronto. Ciò che lo scrittore affermerà più tardi vale già fin d'ora: bisogna imparare dal nemico. Cioè dalla propria classe sociale, la borghesia, che un certo anticapitalismo romantico della sinistra ha ampiamente demonizzato in modo non troppo diverso da personaggi come Jünger e Céline sul fronte della destra. E il nemico che fa? Si nasconde, si cela, si trasforma: come il Brecht di
Augsburg, che dal gioco letterario e dalle fantasie narcisistiche trae la sostanza del suo impegno antiborghese. "... so tut uns nichts so gut als die Schelmenkappe - leggiamo in Die fröhliche Wissenschaft - (...) Wir sollen auch über der Moral stehen können: und nicht nur stehen, mit der ängstlichen Steifigkeit eines solchen, der jeden Augenblick auszugleiten und zu fallen fürchtet, sondern auch über ihr schweben und spielen! Wie könnten wir dazu der Kunst, wie des Narren entbehren?"31. Sembra un commento alla leggerezza brechtiana, che esalta il gioco contro l'armonia ("sie nimmt
dem Leben das Spielerische..." obietta in una lettera all'amico Caspar Neher)32 e pratica la trasgressione ludica come il personaggio del clown descritto da Starobinski in quel grazioso libretto che è Portrait de l'artiste en saltimbanque, il quale "surgit parmi nous comme un intrus, venu des ténèbres extérieures" e "nie tous les systèmes d' affirmation préexistants"33.
Ma soprattutto è colui che esprime la necessità di una distanza che è elemento strutturale della stessa opera giovanile brechtiana. Che si realizzi all'insegna dell'ironia o dell'autostilizzazione, con le maschere di una cultura della decadenza o attraverso personaggi come alter-ego, tutto ciò non ha importanza. Brecht si crea un mito nella misura in cui dissolve i presupposti della cultura borghese adottandone e riciclandone gli stessi stereotipi. Ancora e sempre è il soggetto intellettuale borghese che dà espressione alla grande sceneggiata del declino, dell'Untergang. E lo spirito con cui ciò avviene è già anticipatamente postmoderno: il declino della civiltà come un affascinante tableaux letterario, come spettacolo, come proteiforme ironizzazione. Pochi come Brecht si sono sentiti così profondamente coinvolti nel paesaggio culturale e sociale della propria epoca e da esso altrettanto minacciati. Forse non vi è estranea la dimensione dell'oblio, del vergessen, che diverrà col tempo presupposto dell'attività estetica, desiderio e
premessa del nuovo. La minaccia, lo sappiamo, si traveste come precarietà, tecnica, moderna realtà metropolitana, che Georg Simmel aveva già acutamente analizzato, in chiave sociologica, all'inizio del secolo. Nelle pagine del giovane Brecht tale minaccia ha biblica memoria: è il diluvio universale di fronte a cui si afferma il tipo forte, l'eroe della sopravvivenza. Si legge in un abbozzo inedito sulla
Sintflut: "in den jahren der flut (...) die typen werden stärker größer finsterer sie lachen..."34. È un'immagine ironicamente autobiografica che Brecht coltiva con piacere. Lui stesso e l'amico Bronnen scrivono all'inizio degli anni Venti un soggetto per il cinema con due titoli diversi: Die zweite Sintflut e Robinsonade auf Assuncion, che si sviluppa in modo analogo, con tre individui (due uomini e una
donna) sopravvissuti ad un'immane catastrofe su una piccola isola a confronto con una civiltà iperspecializzata35. Ed è ancora Brecht che si fa raffigurare dall'amico Caspar Neher nel 1925 con la maschera del Wasser-Feuer-Mensch (Iste erat - vi si legge sotto - Hydatopyranthropos/ vivens Augustis vincielicorum/ per unum saeculum 1898-1998...): cioè la maschera di un sopravvissuto della civiltà corrotta e decrepita. È uno dei ruoli canonizzati non solo da Vom armen B.B. ma da altre famose
liriche come Ballade von den Abenteurern, Über die Anstrengung, Das Lied am
schwarzen Samstag e gli stessi Mahagonnygesänge.
Tale bisogno di nascondimento trova anch'esso ampia letteratura alla voce narcisismo: basti pensare a quei meccanismi di difesa, che vanno sotto il nome di "ödipale Maskerade"36. Del resto il celarsi in una soggettività, dal punto di vista dell'inconscio, equivale - ci viene spiegato - a sostituire l'io con un altro narcisisticamente più gratificante. Ancora una volta il percorso brechtiano attraversa lo spazio del narcisismo in una sorta di intima simbiosi: dal momento della sopravvalutazione del sé alle fantasie di onnipotenza, dal tema dell'oralità - soprattutto in Baal - all'analità (con un'ampia fascia di espressioni scatologiche) fino al Super-Io cristiano sentito come nemico (e in tale semplicistica chiave
potrebbe essere letta tutta la Hauspostille). Ma non è questa la dimensione che ci interessa. Piuttosto quella suggerita dalla nietzscheana Geburt der Tragödie, di una civiltà come maschera, di un travestimento come possibilità di scampo alla decadenza. Si viene rafforzando così l'idea di un'arte, di un fenomeno estetico come inganno e illusione. Già Kant nell'Antropologia, parlando dell'uomo come giocoliere e
illusionista per natura, aveva asserito che la persona "heißt Maske" e che la vita senza illusione (Blendwerk) non avrebbe fascino37. Nel gioioso disincanto di Brecht c'è un uso della maschera non decadente, cioè una realtà in cui essere diversi, mimetizzarsi senza sosta è "conseguenza e segno di una recuperata vitalità originale"38. Quella che Nietzsche ha definito "buona volontà di maschera": l'oltrepassamento ironico, ci ha spiegato Vattimo, della stessa contrapposizione sussiegosa tra vero e falso, la preparazione di un mondo nuovo che solo l'arte potrà far maturare. Consapevole o meno che sia, il legame fra Brecht e Nietzsche (ma si potrebbe genericamente dire fra Nietzsche e gran parte della letteratura di lingua tedesca del primo Novecento) contrassegna la strategia letteraria del giovane
scrittore di Augsburg. Se è vero che "l'autonomia del simbolico, della maschera come produzione di simboli non funzionalizzabili a sorreggere una determinata configurazione della finzione canonizzata della realtà"39 è ciò che Nietzsche si aspetta da una nuova dimensione estetica, allora dobbiamo convenire che l'avventura del primo Brecht rientra con il suo oltrepassamento eroico-ironico del mondo borghese in tale contesto. Anzi, ne è una delle sue più ludiche espressioni. I suoi soggetti multipli, i plagi, il ribaltamento dell'immagine dello scrittore edificante nella Hauspostille, la dissacrazione della poesia della natura, le sue immagini di morte e putrefazione, le sue stesse metafore (kreisen e versinken, per esempio) sono una strumentazione neanche troppo mascherata di topoi della cultura borghese, che il ragazzo di Augsburg manipola con la disinvoltura, l'ironia e l'arroganza di un post- moderno. Come il bambino che per salvare la propria integrità si costruisce un tesoro, uno Schatz. E che cosa rappresenta? Ci dicono gli psicoanalisti: "ein System vielfältiger Projektionen, das dem Schatz entspricht. Dabei verstärkt sich sein
Narzißmus durch zahlreiche Spiegelungen, die er mit einer ganzen Gruppe von Adoleszenten, denen das System ebenfalls nützt, teilt"40. Non sono queste le maschere brechtiane, non è tutto ciò la raffigurazione di quel gruppo di giovani che s'aggirava lungo le rive del Lech, componendo lieder sfacciati, sfidando il mondo e ritenendosi pronto a ribaltarlo? Basta leggere le testimonianze di Münsterer o i diari di Caspar Neher, le lettere e le dichiarazioni di Paula Banholzer o di Marianne Zoff per trovare ampia testimonianza in merito. Ma questo, si dirà, appartiene alla memorialistica, che trasfigura e idealizza. Verissimo. E allora si prenda in mano ciò che Brecht scrive e annota in quegli anni: è in quelle pagine che il soggetto
narcisista ha orchestrato il più divertente requiem della cultura moderna. "Vierzig Jahre, und mein Werk ist der Abgesang des Jahrtausends. Ich habe die Liebe zu den Untergehenden und die Lust an ihrem Untergang", dice nel 192041. Non c'è stato bisogno di aspettare tanto.Il commiato è il segno distintivo di tutta la sua prima fase. È un gesto paradossale, ancora una volta legato al bisogno di possedere tutto
per poter tutto distruggere. "Ich möchte aber, daß alles aufgegessen wird, umgesetzt, aufgebraucht", suona un frammento di diario del 192542. Veramente Baal è rimasto sulla scena anche quando le luci del grande spettacolo giovanile, che è la messinscena dell'adolescenza come gioco letterario, si spensero. Ma è vano cercare in quel personaggio la persona di Brecht. Lui sta appollaiato da qualche parte, con il
sigaro in bocca, a frantumare gli ultimi resti di una cultura borghese tanto ricca e solida da poter mettere in mostra la propria dissoluzione come fosse un trionfo. Grazie a un grande narcisista, che non perse mai il gusto di "devenir à soi-même son propre théatre"43, occhieggiando da molte maschere, inafferrabile come il Charlie Chaplin del Circo nel padiglione degli specchi.