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- EZECHIELE
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- Credo che Ezechiele fosse considerato come un
figlio; forse perché infine era giunto a farne
le veci, certo del tutto inconsapevolmente, da ambo le
parti. Loro erano persone estremamente riservate.
Avevano accennato a parlarne ben poche volte. Tuttavia
mi era sembrato di capire che dovevano essere stati
quei suoi occhietti vivaci, talvolta un po'
enigmatici, sognanti, ad averli ammaliati; soprattutto
lui, Giorgio, uomo sicuramente di cuore, genuino,
appassionato in tutte le sue cose. Lei, Elisa, persona
più compassata, desiderosa di attenzione,
doveva invece essere stata catturata da quella
considerazione che Ezechiele mostrava sempre per
chiunque gli fosse vicino; non cessava mai di
guardarti e di masticare, a bocca chiusa,
educatamente, con i baffetti bianchi che vibravano.
Era tutto bianco, Ezechiele, gli occhi adornati di un
rosa quasi femmineo; cose che dovevano aver inciso
profondamente negli animi dei nostri conoscenti in via
di sviluppo per diventare veri e propri amici, a
giudicare dagli scambi di inviti a cena che stavano
per divenire abituali.
- Che Ezechiele cercasse continuamente di
gratificarti della massima attenzione si vedeva anche
dalle orecchie che si muovevano ad ogni tua più
piccola mossa, orecchie lunghissime e dritte, come
hanno i conigli. Spesso ristava sulle zampette
posteriori, univa quelle anteriori, inalberava le
orecchie a "V", ti guardava intensamente mentre quel
suo nasino rosa palpitava in segno di grande
affettuosità e, all'improvviso, l'orecchio
sinistro si piegava in due. Era allora che sentivi
sorgere dall'area pericardica un inarrestabile fiotto
di simpatia.
- Di solito, mentre si era a tavola sotto il
pergolato, lo lasciavano libero di scorrazzare per il
prato. E lui lo faceva abbondantemente. Poi spariva
per andare a riposare nella sua gabbietta, sempre
aperta, posta discretamente dietro una siepetta di
ortensie. D'altra parte Ezechiele era molto educato;
non era come certi gatti che vengono lì ad
importunarti, ti si strusciano contro i calzoni... e
che dire di certi cani che oltretutto sbavano e ti
impelano tutto, si profondono in atteggiamenti ora
adulatori, ora mendìchi, ora di rimprovero, il
tutto per un misero boccone.
- Purtroppo noi dovevamo essere destinati a
codeste specie. Dopo un gatto dall'ego gigantesco, il
cane che nostra figlia ci impose, un grazioso alano,
certo non grande come un vitello, aveva il naso
più umido della norma ed era ancora più
indiscreto, sebbene grasso e continuamente rimpinzato
dalla pargoletta. Però non era come un
coniglio. Aveva un che di fiero ed irrispettoso che
mandava in bestia me ed in sollucchero Gemma, l'altra
mia metà. Talvolta ho sospettato che fra i due
fatti vi fosse un nesso, nel senso che il secondo
fosse conseguenza del primo. L'unica cosa che Ariel ed
Ezechiele avevano in comune era il colore del pelo.
Però quello di Ariel si doveva essere maculato
al concepimento, forse per colpa della madre o forse
del padre, non lo so, perché quando si
impadronì della nostra casa era già
cucciolone di nove mesi. Quel bianco macchiato era per
noi una spesa continua a favore del lavacani, che
possedeva il "know-how" e forse tecnologia giapponese
per tenerlo fermo nella vasca. Ezechiele invece si
manteneva bianco da solo, una creatura deliziosa,
degna dell'adorazione di Giorgio ed Elisa.
- Il senso di colpa mi esplose dentro quella sera
che tutti felici approfittammo del loro invito per
presentare Ariel. Ma andiamo per gradi. Cominciammo
col sentirci un po' in colpa per essere giunti troppo
presto; trovammo Elisa e Giorgio ancora impegnati
nella preparazione della cena. Quel disagio crebbe,
alimentato dal fatto che non fecero tanti complimenti
e ci accompagnarono in giardino, degnando Ariel appena
di uno sguardo privo di emozioni, per poi ritirarsi
silenziosi in cucina.
- Eravamo in paziente attesa da non pochi minuti,
seduti su una panchina, che comparve ai nostri occhi
la prova che il cane imita l'uomo, a tutti i livelli.
Con quel fare giocoso ed irresponsabile tipico dei
cuccioloni di ogni specie, compresa la nostra, Ariel
teneva in bocca Ezechiele e scuoteva la testa come se
non si vedesse che quello era morto
abbastanza.
- Morto, Ezechiele, gli occhi sbarrati, gli
orecchi piegati, alla mercè degli inferi. Giuro
di aver visto il suo fantasma, o forse era la sua
anima candida, aleggiare sopra quel cerbero, le
zampette anteriori riunite e rivolte verso il cielo,
in preghiera. Giuro che invocai il divino
affinché inducesse quell'anima pia a rientrare
nel corpo appena abbandonato. Giuro che non avrei
voluto essere là per tutto l'oro del mondo.
Gemma era terrea e nostra figlia guardava come se non
credesse ai propri occhi.
- Questo sì che era un vero senso di
colpa! Mica quello di prima!
- Ora, è più forte il senso di
colpa o l'istinto di sopravvivenza sociale? Il fatto
è che scoprii una parte inedita di me stesso. A
ripensarci mi vengono in mente le metamorfosi di
Ovidio, quelle di Nicandro e quelle di Apuleio;
quisquilie! Forse il Kafka col suo uomo che si
trasforma in scarafaggio c'è andato più
vicino. In effetti io ero precipitato ancora
più in fondo nella scala dell'evoluzione: ero
diventato un verme, forse un anellide, o un
nematelminto, non saprei. Con calma e determinazione
feci sì che l'infame botolo mollasse il
bottino. Una volta avuta la bianca creatura
completamente nelle mie mani, sentii scivolare
nell'animo un essere serpentesco mai prima visto
né sentito. Quell'essenza diabolica ne prese
subito possesso. La cosa che ancora oggi mi fa tremare
e temere per l'umanità fu che non ne fui
affatto sconvolto, anzi, lo accolsi con sollievo ed
ammirazione. In preda a raptus scultoreo, agii con
mani empie sul cadavere, ne plasmai astutamente la
posa fino a realizzare uno di quegli atteggiamenti che
da vivo rendevano felici i suoi padroni. Strisciando
come un platelminto, raggiunsi la gabbietta del
defunto e ce lo ficcai dentro. Lo stiracchiai ancora
un po' per farlo sembrare più naturale. Gli
tirai su le orecchie che rimasero belle dritte.
Biecamente soddisfatto del risultato gli feci anche un
salutino: "Ciao , ciao!". Il senso di colpa mi
schiumò acido cloridrico nello stomaco quando
l'orecchio sinistro, da solo, si piegò a
metà. Chiusi gli occhi e mi voltai. Cercai di
nascondermi perfino a me stesso e tornai alla
panchina. Messo rapidamente a guinzaglio Ariel,
iniziai a conversare con Gemma come se niente
fosse.
- Quella sera non incoraggiammo, come nostro
solito, il Giorgio e l'Elisa ad aprirsi un po' ed
almeno tentare di vincere la loro imperterrita
riservatezza. La cenetta trascorse fra brandelli di
conversazione su argomenti di eccezionale
banalità, come la fame nel mondo, il genocidio
dei Kurdi, e sul fatto incontrovertibile che la specie
Homo Politicus ha come tratti distintivi una passione
viscerale e l'abilità necessarie e sufficienti
ad infinocchiare la gente comune, e via dicendo. A me
personalmente i manicaretti di Elisa andavano come in
pellegrinaggio di penitenza alla Mecca: nella
fattispecie tre passi in giù e due in su. Il
vomito, riuscii a neutralizzarlo a suon di bicchieri
di rosso di Montalcino, di cui Giorgio aveva
generosamente imbandito la tavola.
- Al dessert il senso di colpa era divenuto
protuberante e nella smania di crescere assumeva forme
subdole, come quella vogliolina gorgogliante di
confessare tutto. Tenni duro. Anche i miei furono
eroici.
- Come Dio volle la cena finì. Gemma
accusò improvvisamente un violento quanto
provvidenziale mal di testa, assolutamente inventato;
anche lei, che verme! Trovammo i nostri ospiti assai
premurosi. Ci accompagnarono subito all'uscita. Il
commiato fu breve e finalmente quella loro porta si
chiuse alle nostre spalle. Chissà perché
il suono del battente risuonò per tutta la
lunghezza del mio corpo come il ricadere del coperchio
su di un sarcofago. Addio Ezechiele! Sono sicuro che
se c'è, sei in paradiso, mentre io...
- Passarono le due settimane canoniche, dopo le
quali avremmo dovuto invitare Giorgio ed Elisa. Di
solito nel corso di quelle settimane le due signore
si scambiano 3 o 4 discrete telefonatine come se
avessero il pizzicorino e fosse il caso di grattarsi.
Ma Gemma non ricevette alcuna chiamata e quando
provò a telefonare non trovò nessuno a
rispondere.
- Cominciammo a scambiarci occhiate in silenzio.
Ciascuno di noi sapeva che cosa voleva dire. Alla
decima occhiata mia moglie mostrò le palme
delle mani come per dire: "È andata. L'amicizia
è rotta per sempre."
- Dopo un'altra settimana io sbottai: "Avranno
certamente capito, ma io non ci posso far niente!" -
poi aggiunsi urlando - "Va bene!"
- "Vedi, quello che mi fa pensare..." -
intervenne pacata Gemma - "... è che non
rispondono a telefono. Questo va oltre la questione di
Ezechiele. Sono partiti per un viaggio... cose che
non ci riguardano... e poi il cane l'hanno sempre
visto legato... e che? A questo Ezechiele non gli
può essere preso un infarto?" - e poi aggiunse
urlando - "Eh! Non gli prendono gli infarti ai
conigli!?"
- Passò un mese. Io non mi sentivo
più verme che due o tre secondi alla
volta.
- Di lì a qualche giorno il telefono
squillò. Ero convinto che quello era uno
squillo particolare. Non ci credete? Non è
importante. Io so che sentii che quella era Elisa che
chiamava. Accesi il viva voce e Gemma
rispose.
- "Pronto? Chi è?"
- "Gemma, sono Elisa."
- Sentii i brividi tempestarmi
l'epidermide.
- "Oh! Cara Elisa! Finalmente! Vi abbiamo cercato
tanto!"
- "Purtroppo siamo stati via." - silenzio ed i
brividi che non se ne volevano andare.
- "Purtroppo? Che vi è successo?" - Dio,
come suonava falsa la sua voce!
- "Eh! Abbiamo avuto una disgrazia!"
- "Non mi dire che Ezechiele..." - che
sciagurata! Ma non conosceva il detto: "Jole, il dente
batte dove la lingua duole... o viceversa; ero in
preda ai brividi.
- "Sì, purtroppo. Ezechiele ci ha
lasciati, più di un mese fa..."
- "Un mese?... Ma... quando siamo venuti a cena
da voi!" - era certo il senso di colpa che le faceva
profferire quelle stupide parole!
- "Eh! Sì, cara Gemma, proprio allora." -
silenzio - "Non ti dico la disperazione di
Giorgio!"
- "Capisco, ma... ora io... insomma ragazzi...
certo noi non possiamo capire... noi abbiamo
quell'Ariel là... no... capisco che non
può essere la stessa cosa..."
- "Ci era così affezionato,
sai..."
- "Eh certo noi non possiamo capire..."
- "Ci parlava... era come..."
- "Un figlio? Certo, certo, ma per il vostro
bene, io dico che bisogna farsi forza."
- "Ma io mi sto facendo forza..."
- "E Giorgio?"
- "È ancora in ospedale."
- Mio Dio i brividi!
- "In ospedale?"
- "Ezechiele era morto. E lui lo ha seppellito
amorevolmente in giardino. Noi ci scusiamo, ma quella
sera eravamo ancora terribilmente sconvolti e non
volevamo darlo a vedere. Il brutto è stato
quando al mattino dopo Giorgio è andato a
prendere la gabbia per portarla via ed ha visto
Ezechiele che doveva essere uscito dalla tomba e lo
aspettava, sai come faceva lui con quell'orecchio a
metà giù? È stato allora che gli
è venuto l'infarto."
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