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                  POESIA
                  EPICO - CIVILEdi
                  Serena MAGLIETTA POLLARI Serena
                  Maglietta Pollari, di famiglia modenese di antica
                  tradizione, dopo aver compiuto i suoi studi nella
                  città di residenza, si è trasferita a
                  Milano, dove a svolto la funzione di preside di
                  Istituti medi superiori e dove attualmente vive.
                  Soltanto da alcuni anni, diminuiti gli impegni
                  personali e famigliari, si dedica ala poesia: ha
                  pubblicato tre raccolte di versi e due
                  poemetti.Nelle
                  sue opere, se si esclude, in qualche misura, la sua
                  prima raccolta, l'autrice aderisce alla poetica che
                  si potrebbe definire epico-civile, delineata tra
                  gli altri, in modo particolarmente chiaro e
                  significativo, da Mario Luzi in uno dei suoi ultimi
                  interventi, apparso sul numero 185 del mensile
                  "POESIA", con il titolo: "la poesia parla del tempo
                  in cui si vive". Dello scritto si riferiscono
                  alcuni passi: "Vado affermando, forse da sempre
                  nella mia lunga esistenza, ma più
                  segnatamente negli ultimi anni, che la poesia
                  è vita e se oggi la vita ci chiama a prove
                  difficili e drammatiche, la poesia non può
                  eluderle. Anzi, non deve... Ecco, oggi si chiede il
                  poeta...di uscire allo scoperto e testimoniare, con
                  la parola di cui è capace, la forza di
                  impegno e di denuncia". E così prosegue, a
                  proposito della "categoria della guerra": "Ci sono
                  fasi nella storia umana in cui lo scontro si fa
                  più duro e feroce. La fase che stiamo
                  vivendo è una di queste. È lo scontro
                  tra l'Occidente (di cui l'America è la
                  più e oramai l'unica grande potenza al
                  mondo) e... miliardi di esseri umani che sono stati
                  sacrificati al nostro benessere...La
                  nostra prosperità (infatti) è
                  ricavata dall'immiserimento di gran parte delle
                  popolazioni del pianeta". E ancora, a proposito del
                  rapporto tra poesia e realtà: "Si ha
                  l'impressione che il rapporto tra le cose
                  oggettive, la realtà spirituale e la parola
                  non ci sia più. Anche la parola è in
                  crisi e questa separazione tra "Cosa" e "Parola"
                  è gravissima.Passando
                  in rapida rassegna alcuni testi di Serena Maglietta
                  Pollari, si procederà in base alla
                  successione cronologica dei libri pubblicati,
                  citando giudizi di critici e di esperti cui fanno
                  seguito alcuni brani fra i più "tipici" e
                  significativi di ognuno.  Nella
                  prima raccolta di poesie: "Quando tutto il passato
                  era ancora futuro" (Primo premio al Concorso
                  Internazionale "Omaggio a Pirandello") prevalgono
                  le composizioni in forma di poesie-racconti, non
                  prive di echi crepuscolari dove, secondo la
                  presentazione di Alessandro Mancuso, "il
                  descrittivismo è puntualmente
                  contestualizzato e raccolto intorno ai nodi focali
                  della composizione...scorci di vita del passato e
                  particolari raffinati e minuziosamente descritti,
                  popolano le ballate, le canzoni e le odi... Gli
                  accenti riescono universali ed assoluti, pur senza
                  tradire i referenti individuali e personalistici di
                  partenza". Ne consegue che "il doloroso e sublime
                  procedimento poetico è quello di tipo
                  archeologico-personale".Aggiunge
                  ancora il critico: "Colpisce, tra l'altro, il
                  reticolo metrico... al cui interno agiscono velati
                  fonosimbolismi che arricchiscono la ricerca quasi
                  pittorica della luminosità descrittiva della
                  memoria".La
                  poesia: "Non è più la mia casa"
                  è rigorosamente auto-biografica. "L'atrio di
                  Villa Politi" con la descrizione, quasi nostalgica,
                  dell'interno di una villa liberty, evoca, nei versi
                  conclusivi, l'intima partecipazione dell'autrice
                  alle esperienze esistenziali della madre, collocate
                  in un ambiente in stile floreale, immaginato da lei
                  stessa, adolescente, come scenario della sua vita
                  futura. 
 
               
               
               
                    
                  
                  
                     Non
                     è più la mia casa 
                  Non
                  è più la mia casa,quelle
                  mura grigiastre macchiate
                  d'abbandonole
                  siepi scheletricheil
                  muschio nel selciatoun
                  reticolo d'erbegiallognolo
                  appassitea
                  intristire la cortespogliata
                  del nitoredella
                  candida ghiaia. Non
                  è più la mia casa:il
                  piccolo giardinoora
                  è un prato selvaggioche
                  ricopre e nasconde le
                  delicate aiuole,sfondo
                  a sbiadite fotoed
                  a lontani amori;e
                  il lillà solitarioha
                  la dolce mestizia di
                  un'antica vetratain
                  stile liberti. Non
                  è più la mia casaquelle
                  pareti spoglied'immagini
                  remotelungamente
                  immutateserbano
                  tenui improntedisegnate
                  dal tempoche,
                  nel lento cammino,ha
                  lasciato sui muri orme
                  di nostalgia. Non
                  è più la mia casa:umide
                  stanze vuotecome
                  loculi oscuricelano
                  gli anni spentid'ospiti
                  sconosciutie
                  le troppe memoriee
                  i momenti perdutidegli
                  ultimi esiliati. Non
                  è più la mia casa: tra
                  quelle vecchie pietrenuove
                  vite entrerannocancellando
                  ogni giornoanche
                  le ultime tracced'esistenza
                  disperse. 
                  
                  
 
                  
                  
                     L'atrio
                     di Villa Politi  Scende
                  dal lucernariodel
                  soffitto adornatoda
                  cornici massicceun
                  chiarore soffuso che
                  riflette le tintedei
                  vetri smerigliatiin
                  delicate gammedal
                  verde muschio all'ocra. Emergono
                  dall'ombral'imponente
                  caminoincorniciato
                  in marmoe
                  l'impronta di fumosulla
                  parete lignea,la
                  passatoia rossasull'ampia
                  scalinatache
                  porta, nel soppalco,alla
                  stanza da giococoi
                  tavolini verdie
                  i paralumi in setadalle
                  frange a perline. Nel
                  grand'atrio desertonell'ora
                  sonnolentadel
                  primo pomeriggio,fra
                  tappeti e vetratee
                  tavoli ottocentodalle
                  linee ricurve e
                  divani incassatinegli
                  angoli in penombrae
                  lampade sorrette da
                  figure di donne entro
                  pepli fluttuanti,s'insinuano
                  pian pianole
                  immagini confusedi
                  un tempo rivissutotra
                  racconti e memorie,di
                  un tempo ritrovatoche
                  faceva da sfondonella
                  mia adolescenza a
                  fantasie segreteed
                  evoca ricordipenosamente
                  vividi
                  quegli anni lontani. E
                  in quella stanza vuotami
                  sembra d'avvertireil
                  profumo sottiledi
                  una cipria franceseche
                  talvolta avvolgeva -
                  malinconia struggente -i
                  passi di mia madre.    
               
               
                  
                  Il poemetto: "Le chele dello scorpione",
                  "straziante melopea nel ricordo di un padre,
                  lontano nel tempo", come lo definisce Albano Biondi
                  e, secondo la presentazione di Stefano Valentini,
                  "poche intense e splendide pagine che hanno il
                  respiro di una biografia completa, di un ritratto
                  sufficiente a dare compiuta memoria", si propone di
                  rappresentare la personalità del
                  protagonista, inserita nel suo tempo e nel contesto
                  atavico e familiare, ripercorrendo con particolare
                  intensità quei passaggi esistenziali che,
                  "pur nel differire delle personalità e delle
                  sensibilità individuali, del periodo in cui
                  si collocano, dei miti che le influenzano, recano
                  l'impronta del "tipico", fragile ponte di
                  collegamento tra diverse isole del vissuto di
                  ognuno" (dalla premessa dell'autrice).Nel
                  passo riportato viene rievocata la fine del
                  protagonista ambientata nella città
                  (Bologna) dove aveva dovuto trasferirsi, che
                  sentiva sostanzialmente estranea, e si fa
                  riferimento alle fascinose immagini notturne,
                  contemplate, in un lontano passato, insieme ai
                  "discepoli assorti" (le sue figlie e i nipoti); in
                  quello successivo, il padre ritorna nel ricordo
                  nostalgicamente doloroso della figlia.  
                  
                  
                     ...
                     la fine del Padre  
                  In una notte chiara,lui
                  si affaccia al balconeper
                  rimirare i raggibagnati
                  dalla lunasui
                  tetti declinantisulle
                  vie solitariesulle
                  finestre spente;e
                  in quel momento, forse,sente
                  quella cittàun
                  poco più vicina,statica
                  come lui,in
                  assorto abbandono,oggetto
                  di un'estremaemozione
                  vitaleche
                  esprime un sussurro:"Come
                  è bella la notte".Ed
                  in quella visionec'era
                  forse il ricordodella
                  corte schiaritada
                  quella stessa lunadove,
                  tanti anni prima,tra
                  discepoli assorti,lui
                  era stato il solovero
                  protagonista. Nella
                  notte seguentedi
                  quieto pleniluniola
                  sua vita è finita 
                  
                  
 
                  
                  
                      ...
                     il Padre nel ricordo della
                     figlia  
                  Padre per te vorrei ancora
                  un'occasione,non
                  in quel paradisoetereo,
                  evanescente,congiunto
                  a questo nostro desolato
                  pianeta delle
                  tetre stazioni della
                  Via Dolorosa:non
                  quello era il tuo mondo.Tu
                  hai curvato le spallesotto
                  la croce, gravedi
                  tante angosce, per sortesenza
                  scelta, col corpoconfuso
                  con la terrae
                  la mente libratain
                  fantasie vitali:immagini
                  realipiù
                  del reale,e
                  passato riflessodentro
                  la tua memoria,e
                  intense compresenze,e
                  amorose pulsioni,e
                  cieli dai coloridi
                  smalto, e solitarie marine,
                  ed appartatigiardini,
                  ed inquietanti salotti,
                  profumatidi
                  fiori quasi esausti;e
                  la nostra Venezia,non
                  cristallo cangiantesu
                  azzurrità solarima
                  arcana intimitàdi
                  corti abbandonateed
                  assopite callie
                  risciacquio d'ondatesu
                  immagini fuggentiverso
                  l'ignoto.Fascino
                  di tramonti,di
                  presente che sfumanel
                  passato,ma
                  vita è solo vita.......................E,
                  nell'umana sofferenza,io
                  vedo sempre, sempreil
                  tuo volto.    
               
               
                   
                  Il poemetto biografico "Quella Modena di Delfini",
                  pubblicato quasi contemporaneamente a "I vincenti",
                  ma lungamente elaborato in un periodo precedente,
                  manifesta, secondo Alberto Bertoni "un'opzione
                  pienamente realizzata a favore della
                  modalità epica (dunque, alla fine, anche
                  civile) della poesia. Non a caso, il punto di vista
                  del libro è, in prevalenza, corale: la
                  parola di un io, colmo di riserbo e pudore, vi si
                  intreccia, infatti, all'eco di dialoghi, di
                  invettive, di sfide e di testimonianze" e "dimostra
                  che l'autrice è consapevole che nell'epos
                  deve essere identificato il vero motore letterario
                  del romanzo", " scelta che  ha poi compiuto, in
                  fine carriera, un altro grande poeta emiliano, il
                  parmigiano: Attilio Betolucci".Enrico
                  Zanichelli definisce il poemetto come "poesia della
                  poesia, sulla poesia, nella poesia, con la poesia"
                  che "pone il soggetto del testo, l'autrice, sul
                  piano dell'oggetto, lo scrittore modenese, in un
                  intreccio di corrispondenze, espresse e non, di
                  riflessioni  speculari, di inversioni automatiche,
                  di rifrazioni inavvertibili, di salti temporali, di
                  scambi prospettici..., simili a quelli che legano
                  Delfino ai suoi doppi della pagina
                  scritta".Nei
                  brani seguenti si evidenzia il rapporto di memorie,
                  di emozioni, di sentimenti e risentimenti di
                  Delfini nei confronti della sua
                  città. 
                  
                  
                     
                     ...Delfini e la sua città  Ma
                  c'è anche il signore che,
                  adagiatonel
                  quieto osservatorio di un caffè,indaga
                  il rito usuale dei passeggidi
                  borghesi solerti od annoiaticon
                  sentore di incontri familiari,o
                  contempla, con qualche compiacenza,il
                  ritorno di antiche tradizioni,làscito
                  del dominio degli Estensio
                  finge che ogni schermo si dissolva,oltre
                  gli archi del portico, a scoprirela
                  città-prato, la città
                  pianura,l'estenuata
                  verdura della valle,terra
                  madre dei tempi dei ricordi:vita
                  trascorsa e vita d'ascendenti.E
                  la città, proiezione dell'io,si
                  esalta di colori e di profumi,in
                  immagini tinte di gaiezzao
                  soffuse di occulte intimità nel
                  velario disteso della nebbia.Dalla
                  tastiera di intense emozioni,come
                  temi sinfonici tornanti,riemergono
                  vedute cittadine,nostalgiche
                  stazioni esistenziali,radici
                  del suo io sradicato:i
                  negozi odorosi di coloniescintillanti
                  di luci e di cristalli,il
                  bar aperto sempre a carnevaleche
                  profuma le strade di caffè,il
                  primo sole che riaccende gli orisui
                  fregi e sui portali delle chiese,i
                  porticati fra squarci di cielo,falci
                  azzurrine frammezzo alle arcate,il
                  rientro dei ricchi villeggiantisulle
                  ultime carrozze cittadine,i
                  giardini del duca ad ospitarele
                  uniformi di gala dei cadetti,le
                  disperse stazioni provinciali,fumiganti
                  di bruma e di vapori,le
                  folate di vento all'orizzontedeserto
                  e sterminato della Bassae,
                  all'incrocio sperduto, la locandae
                  una luce, alonata di foschia,dalla
                  finestra che scontorna i trattidel
                  padrone in attesa d'avventori. 
                  
                  
 
                  
                  
                      ...
                     il testimone della città  Sotto
                  estenuate lune nebuloseintravvedute
                  entro strisce di cieloo
                  nei lenti crepuscoli azzurraticalati
                  su invisibili orizzonti,sempre
                  avvertì l'incanto del richiamodella
                  città, dai ciottoli lucenticome
                  ancora spruzzati dal fluttuaredi
                  un tortuoso groviglio di canali,dei
                  bassi porticati tenebrosiecheggianti
                  il fruscio lieve di passie
                  di ignote parvenze fuggitive,delle
                  facciate appena rischiaratedalle
                  finestre listate di luce,ambiguo
                  metaforico messaggiodi
                  cadenzate esistenze deluse,del
                  centro antico, reso familiaredalle
                  note figure sconosciute,ritornanti
                  nei riti dei passeggi,come
                  mobili effigi di un presepio,guidate
                  da invisibili ingranaggi.    
               
               
                  
                  Argomenti epico-civili sono il cardine della
                  raccolta: "I Vincenti", ispirata alla guerra in
                  Afghanistan, omaggio alla vittoria ideale,morale e
                  , perfino, pragmatica dei pacifisti.Profondamente
                  interessata alla politica, intesa soprattutto come
                  preannuncio della storia futura e inflessibile
                  anti-razzista, l'autrice esprime, secondo la
                  prefazione di Salvatore Guastella "attraverso
                  componimenti dai forti toni e contenuti pregnanti,
                  l'oppressione e la sofferenza di interi popoli" e
                  "si fa interprete di messaggi tesi a scuoterci, a
                  scrollarci di dosso quel torpore, ovattato di noia,
                  che si alimenta di programmi televisivi,
                  dispensatori di oppio: 'panem et circenses', un
                  gioco propinato ad arte, appunto, per evitare di
                  far pensare". Si tratta di argomenti complessi "che
                  ci fanno pensare alle tematiche affrontate da
                  Pasolini, anche come cineasta". "Basti ricordare
                  alcuni suoi film "scomodi", ad esempio "Appunti per
                  una Orestiade africana" non accettati o ignorati
                  volutamente dai benpensanti".Sui
                  brani seguenti:"Gli
                  esclusi", ispirato all'incontro ad Assisi dei
                  massimi esponenti delle diverse religioni, in
                  difesa della pace, intende valorizzare l'apporto di
                  lotta e di solidarietà dei non credenti,
                  basato esclusivamente su principi e sentimenti
                  umanitari."Un
                  sogno o forse no?" è una metafora del
                  complesso di colpa, più o meno conscio, di
                  chi è, in qualche misura, consapevole che il
                  proprio benessere è pagato dal sacrificio di
                  innumerevoli esseri umani, affetti dall'inedia, dal
                  sottosviluppo, dalle epidemie, in modo particolare,
                  dell'AIDS, definita la peste di questi secoli; da
                  ciò il richiamo alla peste di Milano, di
                  manzoniana memoria. 
                  
                  
 
                  
                  
                      Gli
                     esclusi  È
                  un graffito solenne e linearela
                  Basilica eretta sull'alturae
                  il brillìo della pioggia che
                  l'esaltaha
                  l'incanto di tutti gli elementilaudati
                  e benedetti da Francesco. Costumi
                  arcaici ed arcaici ritualigettano
                  sulle lastre del sagratoschegge
                  di storia, luoghi sconosciutiin
                  fantasie sognanti ricreati,incerti
                  passi dentro la speranza,dubbiose
                  comunanze a confortare le
                  solitudini di Dio; e sembrarinnovarsi
                  l'umana condizione,esultanza
                  dell'essere e pietàdel
                  soffrire, soffuse negli affreschiestatici
                  di Giotto; un pietàche
                  intreccia e unisce le segrete viedei
                  pellegrini spersi nel pianeta. Ma
                  al di là di transenne e
                  colonnati,non
                  hanno un tempio o un cantico o un
                  altaregli
                  esclusi dalle stelle vorticantinell'inesausto
                  anelito all'Empireo,gli
                  esclusi dai giardini ruscellantidono
                  d'Allah alla del deserto,quegli
                  esclusi che affondano il futuronell'orrore
                  dell'ultima abiezione,che
                  non hanno un'icona a rispecchiareuna
                  sembianza somigliante all'io,che
                  riflettono in acque di paludeequivoche
                  parvenze disamate,che
                  avvertono la colpa, nell'ambiguopiacere
                  del possesso, di strappare ciò
                  che ad altri è negato; unici
                  esclusidal
                  povero conforto del perdonoper
                  la vergogna d'essere se stessi. Per
                  altri Michelangelo ha pensatoI
                  furori e il trionfo del Giudizio,ad
                  altri gli orgogliosi minaretie
                  i tramonti su cupole dorate, ad
                  altri ogni sublime costruzioneche
                  doni un'illusione alla speranza. Ma
                  la volta del cielo è per gli
                  esclusi 
                  
                  
                      Un
                     sogno, o forse no?  Dall'alto,
                  la vedevo, la navatatenebrosa,
                  né ampia né solenne,eppure
                  mi pareva di trovarmisospesa
                  dentro il Duomo di Milano.Su
                  una guglia, pensavo, ma una guglianon
                  era, che sui tetti delle chiesestanno
                  le guglie: ero piuttosto dentroqualcosa
                  di pendente dal soffitto,una
                  preziosa gabbia di cristallocolma
                  di fregi eppure trasparente,che
                  tanto somigliava a una lanterna,fioca
                  di luce e triste come quelleriflesse
                  nei canali di Venezia....sola
                  e sospesa e forse condannatacome
                  Jago, nel film di Orson Welles...e
                  innocente, pensavo, ma un barlumeresiduo
                  di coscienza mi dicevache
                  coinvolta ero stata in un complottodi
                  cui nulla sapevo, né lo scopo finale,né
                  i mandanti, né i gregariche
                  erano tanti, questo lo sapevo,che
                  un mare di lanterne non li avrebberacchiusi
                  tutti e non erano forsené
                  consci né essenziali: ma i mandanti,
                  dov'erano
                  i mandanti? e perché maiio
                  solo stavo dentro a una lanterna?E
                  l'ansia di capire e la pauradi
                  un'iniqua sciagura sconosciutami
                  soffocava come fossi strettadentro
                  un cilicio che sempre di piùi
                  muscoli e le carni attanagliava;ed
                  ansimante e attonita guardavoquello
                  spazio davanti alla facciata,quel
                  passaggio di fuga a me preclusoche
                  foscamente lento s'abbuiava.Il
                  cielo s'era fatto cupo, comeil
                  più cupo dipinto espressionista,e
                  spenti erano i portici e le insegnee
                  le finestre e la piazza deserta;e
                  la navata oscura, più del Duomo
                  non era il grand'atrio di una banca,signoreggiante
                  sopra un grattacielo
                  un lussuoso poliedro di vetrate
                  che all'improvviso tutte le ricopre
                  una nerastra plastica avvolgente
                  che fa un buio assoluto attorno a me,
                  ridotta ormai una cosa in un involto
                  che non sa dove andrà né chi la
                  porta;
                  ma d'un tratto l'incarto, da violente
                  mani ghermito, è stacciato e
                  squarciato,
                  con un tetro fragore lacerante,
                  e con lo squarcio, il silenzio si
                  squarcia
                  nel crescendo assordante del tinnire
                  di striduli sonagli che l'arrivo
                  annuncia di uno stuolo di monatti
                  che i volto ripugnanti dietro i vetri
                  appoggiano e ciascuno è accanto e
                  sopra
                  l'altro come una cupola mostruosa
                  che si disgrega quando ogni monatto
                  ad un carro gemente s'avvicina,
                  che di carri gementi è tutta urlante
                  
                  la piazza e accumulati in terra stanno
                  mucchi di corpi bruni, accatastati
                  i morituri con i morti, e tante
                  membra infantili e volti scheletriti
                  e, come su uno schermo gigantesco,
                  sguardi atterriti vagano nel cielo,
                  come agghiaccianti fari nella notte;
                  ma non vedono me, che ben nascosta
                  in alto sto, dentro la mia lanterna;
                  eppure il desiderio di svelare
                  una colpa segreta mi fa urlare
                  che per le morti loro e per le vite
                  miserabili tanto che esistenzenon
                  sono stata mai, io provo comeun
                  penoso rimorso, negli anfrattidella
                  coscienza, e chiamo accanto a mei
                  mandanti impostori a discolparsi,ma
                  la voce nella gola si strozzae
                  solo emette flebili lamenti,e
                  allora busso con rabbia sui vetri,ma
                  i vetri più non trovo,solo il
                  vuoto,e
                  il vuoto è un pauroso
                  precipizio,e
                  su quel vuoto discende e si espande,col
                  mio silenzio,il silenzio di tutto.E
                  finalmente ho il dubbio e la speranzache
                  solo un cupo sogno stia sognando. Al
                  risveglio, riconosco le traccedi
                  un rapido piovasco che ha lasciatopiù
                  trasparente il cielo e più
                  vicinauna
                  falce di luna e più specchiantela
                  strada che riverbera le lucidi
                  una macchina in corsa solitaria,troppo
                  veloce perché la conduceun
                  giovane in ritorno dall'amore;e
                  m'accoglie il balcone, che non èuna
                  lanterna,coi suoi vasi fioriti,stillanti
                  fresche gocce sulle mie ansie.
                  Ma come un tessuto imbevuto a
                  fatica si stacca dalle membra,così
                  addosso rimane avviluppatoil
                  ricordo del sogno; e quel ricordo,che
                  la pietà confonde col disagio,persistente
                  si installa nella mente,anche
                  se mi ripeto che quel sognonon
                  è che un cespo d'erba distaccatoda
                  un'ondata improvvisa che galleggiasopra
                  i pensieri come su uno stagno,non
                  è più che una fuga di
                  visioni,un
                  mistero intravisto in controluce,un
                  silenzioso dialogo angosciante,una
                  colpa rimossa e negli anfrattidel
                  cervello nascosta, un quasi niente,che
                  certamente è assurdo comparare,a
                  una qualsiasi cosa, perché un
                  sognonon
                  è, mi dico, niente più di un
                  sognoun
                  sogno, un sogno, un sogno:
                  
                  
                        
                                                              - o
                        forse no ? - 
     
               
               
                   
                  La raccolta "Le piramidi del Circo" affronta, come
                  sottolinea la prefazione di Oliviero Diliberto,
                  "l'orrore della guerra, del colonialismo, della
                  violenza. L'orrore del cuore umano...e consegna un
                  brandello - di quell'orrore - sotto forma di
                  lirica". A tale proposito, Diliberto ricorda che
                  "precedenti illustri avevano trascritto in forma
                  poetica la prima guerra mondiale (l'elegia
                  struggente e terribile della trincea di Ungaretti),
                  poi i massacri dei nazisti in Italia (il Quasimodo
                  di "Alle fronde dei salici"). Con la poesia di
                  Serena "giungiamo agli orrori dei giorni nostri,
                  sino all'Iraq" ... "Ecco, dunque, il lacerante
                  grido di dolore di queste liriche, il loro
                  esplicito messaggio ... la letteratura può -
                  e secondo alcuni, deve, dovrebbe - svolgere un
                  ruolo prezioso di denuncia". Tutti i testi che
                  compongono la raccolta si ispirano a tale principio
                  e ricordano: "il lungo monologo finale della "vita
                  di Galileo" (di Bertold Brecht) sul tema della
                  responsabilità dell'intellettuale. A tale
                  responsabilità, grande e terribile, Serena
                  non ha voluto sottrarsi".Secondo
                  Angelo Gaccione, in particolare "lo splendido testo
                  di apertura: "Parole al rogo" per efficacia
                  stilistica e forza espressionistica assurge quasi a
                  manifesto letterario".Nelle
                  poesie seguenti: "Parole al rogo" è la
                  denuncia della barbarie della guerra preventiva che
                  richiama altri orrori di epoche
                  precedenti."Cocktail
                  Iraq" evidenzia gli interessi economici che
                  determinano la guerra in Iraq, come, in generale,
                  tutte le guerre.
                  
                  
  
                  
                  
                     
                     Parole al rogo  "La
                  guerra umanitaria non è guerra:è
                  l'esplosione di una civiltàche,
                  avvampando, purifica de genti":che
                  disgregate sian queste parole,e
                  scomposte e sconnesse e frantumatee
                  squarciate e smembrate e stritolate,che
                  una sillaba sola non rimanga,né
                  una vocale, né una consonante,sì
                  che non si congiunga il senso infamedell'impostura
                  e del plagio letale,dell'insensata
                  litania di morte;che
                  sian scagliate nel fetido brago,e
                  imbrattate e insozzate e calpestate,estirpate
                  dal cuore e dalle menti,dalla
                  ragione schernite, oltraggiatedalle
                  coscienze, dai sensi schifate,come
                  l'infamia dell'incesto, comele
                  catene gementi degli schiavi;che
                  sian bruciate e incendiate e scagliate nel vento
                  fin che ceneri di morteritornino
                  sui nostri capi chinie
                  i capelli, ingrigiti da improvvisavergognosa
                  vecchiezza, testimonidiventino
                  di un mondo imbarbaritoche
                  si contorce sulla propria fine. 
                  
                  
                     Cocktail
                     Iraq  È
                  un cocktail nuovo, viene dall'Iraqe
                  si dava per certo il suo successo.Simili
                  sono gli ingredienti a quelli,a
                  suo tempo, elencati da Nerudain
                  un passato lontano e vicino,perché
                  stessa è la Ditta produttrice.Semplice
                  la ricetta: per un terzo,si
                  prenda sangue di donne e bambini,falciati
                  dalle bombe intelligenti;divenuti
                  da poco, per variantedel
                  produttore, sangue di ribelli.L'ultimo
                  terzo è quello più
                  complesso:c'è
                  sangue americano, mescolatoa
                  quello proveniente da altri luoghi,copiosi
                  come i grani di un Rosario.Nella
                  mistura si immerga un cubettodi
                  ghiaccio che sussurri, gorgogliando,"Difendiamo
                  la nostra civiltà".Si
                  può, a piacere, aggiungere uno
                  spruzzodi
                  invettive e di ingiurie di una donnainvasata;si
                  scuota forte il tuttoe
                  l'intruglio è completo ed
                  approntato. La
                  ricetta sembrava ben studiata,ma
                  quei profitti, che parevan certi,ogni
                  giorno si fanno più insicuri,così
                  da far pensare che le spesenon
                  siano state ben preventivate.Qualcuno
                  obbietterà: "Ma come?Il sanguenon
                  è merce prezzata sul mercato".È
                  vero, ma bisogna pur pagarei
                  propri donatori, ed addestrarlie
                  armarli e, senza sosta, motivarli,perché
                  vadan, persuasi e baldanzosi,come
                  vitelli a farsi macellare.
                  
                  
                     
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