- Velate ombre alla
riva
- Terra capitano! A prua
guardate! È la nuova terra! Salparono e
...
-
- Si narra d'un vetusto popolo
- cresciuto dalla prim uman etate,
- in un loco avvolto d'acque salate.
- Per l'orbe terrestre da polo a polo
-
- niun mai lo vide o l'indicò d'un
dito!
- In capanni, fra immaculate alture,
- protetti dalle silvestri creature
- viveano, seguendo un antico rito.
-
- Presso il focolare, d'arcane gesta
- d'occhi alti, usavano mirar
l'ignoto
- e là, volti da un sempiterno
voto,
- cantavan, portando natura in festa.
-
- Gran rispetto diceano le parole,
- d'abbracci risuonava la melodia
- e in guisa d'onda, un'unica armonia
- dalla terra salia mirando il sole.
-
- Per mesi giocondi, ai pie' d'un gran
rivo
- onoravan l'acqua e l'opima terra
- il cielo e il foco; ... il tutto che sol
serra
- d'altri tempi il lor filosofar
vivo.
-
- Un simbiotico abbraccio risuonava
- fra quelli e la natura. In una
notte
- di plenilunio dalle più alte
vette
- un aborigeno, mentre seguiva
-
- fero sull'onde l'argenteo riflesso
- vide nerastre macchie fra i flutti
- addurre ira e stridii agli augelli
tutti.
- Dallo stupore gravò seco
stesso
-
- la novella e l'ammutì al cor
logora.
- Tali ombre agl'occhi fattesi
maestose,
- e riuscendo con qualsivoglia pose
- niuno a ristar l'avanzar
dell'aurora;
-
- divenute poi ai primi albori
sculti,
- miri, lignei galleggianti atrezzi,
- frangean l'onde or fra i corali
grezzi.
- Cento gl'occhi e i salubri paghi
volti,
-
- ch'attinsero su tremuli vaselli
- la riva. Altri culti parean
nutrire,
- d'altri ingegni usavan grave
fedire,
- sicché le natie figure da
quelli
-
- spaurite e turbate al core,
silenti,
- orbate dalla feerica novella,
- già pur prive d'ogni fiducia in
quella,
- si ristaron, ove taccion i venti.
-
- Salparono aurei, lucenti obietti
- portati da turpi, pallidi visi.
- Un drappo s'erse dai colori lisi,
- s'erse, vegliato da alti canti
schietti,
-
- e in sì buon loco, che parea
vigere
- al vespro e quasi il tutto
dominare.
- Note del sempiterno mareggiare
- confusero e nascosero
all'äere,
-
- il favellar del silvestro popolo
- guardingo e ancor tremante fra le
dune.
- Là! un parvolo, fra aculei arbusti,
immune
- d'ogni periglio, sedea triste e
solo.
-
- Già parea un saggio d'aprico
senno,
- e come per un insito genoma,
- leggeva gl'affanni al cor d'ogni
chioma,
- sicché chinò l'imberbe viso e
d'un cenno
-
- sì lesto qual d'un pardo, mirò
d'un dito
- il mare e lacrimando disse cheto:
- Oh tu, gran signore cangia in
secreto
- l'ordine dei flutti e sì d'un
ardito,
-
- silente gesto, libraci da queste
genti,
- libra l'acque da l'ostico intruso.
- Oh terra, cielo e foco, che illuso!
- Alzo preghiere e canti ai mille
venti
-
- e onni specie che bagna
vostr'essenza
- v'è devota, e niuno è istruito
al possesso
- e a portar corona seco stesso.
- Io reclamo l'impunita sentenza!,
-
- Già li odo i pugnaci nostri
padri
- canticchiar la morte mirando il
mare.
- Dunque! vi prego ditemi che fare;
- li veggo avanzar quegl'inferi
ladri.
-
- Tacquero!
-

-
- Papaver
somniferum
-
- Trovaron fra elvetici, alpestri
colli
- le teste e i semi tuoi in lacustri
avelli.
- Le vestigia dell'opra tua sepulte
- parlan ancor come pagine sculte.
- Dalle carni tue attinser la nepente
- oli e succhi pel dolor della gente.
- E di tal sorso a Sparta si favella.
- Nel vin intinta per sopir la
novella.
- È d'Ulisse che si suol portar
l'oblìo,
- gocce, e s'alza novo il pugnace
disio;
- s'alza per agir privo di periglio,
- domato lui dall'infuso vermiglio.
- Gl'attributi tuoi chetano il
parvolo,
- e alzano lo spirto dei saggi in
volo.
- Dopo un gran viaggio cavalcando eoi
flutti
- sbarcasti e in guisa di morbo i tuoi
frutti
- si diffusero ogni dove fra mura
- e castelli d'umil e ricca fattura.
- I raggi alle carni tue adducon
forza,
- e sì nasce un succo sotto la
scorza,
- nascon gocce condensate d'un latteo
- colore, onde s'attinge l'umor
leteo.
- L'arte tua maga di gloria s'avvalse
- lasciando infin, per feeriche vie
false
- malati spirti vagar ignudi nella
selva,
- orbati al core dall'oppiacea belva.
- Restasti al buio chiuser l'aprica
regge;
- nacque in parlamento una nova
legge.
-
- Or sol cresci sui dirupi nascoso.
- Si dice: «Sei tossico e
voluttuoso!»
-

-
- Il totem
-
- V'era una mislea d'anime silenti
- ai pie' della lignea grande figura.
- Sculpita, si narra, dalla natura,
- vestuta per grazia o celia dai
venti,
-
- s'ergeva in auge alla sacra altura.
- Sculta in uman parvenza parea
addurre
- speme e gaiezza ai tristi, e forza
apporre
- negli arti d'infermi pargoli in
cura.
-
- Addo a lei auliva un squisito
sentore;
- la devozione, un atomo in amore.
-

-
- Il sogno
- Incontrai in un sogno la voce mia poetica
e Le parlai...
-
- Coricatomi dopo un lungo e opimo
- banchetto, caddi in un sopor
profondo
- ritrovandomi in un arcano sogno.
- Là, navigavo ansioso fra i
dedali
- dell'alma mia quando scorsi
un'aprica
- figura ai pie' d'una scoscesa ripa,
- e avvicinatomi a quel greppo dissi:
- «Chi sei». Ella, mirandomi lo
sguardo,
- mosse il labbro e d'un vocìo lieve
disse:
- «Son l'umil apollineo estro e dì
e notte
- divulgo la brama mia teco
stesso».
- Dallo stupor m'assisi genuflesso
- fissando il suo sguardo e aggiunsi:
«sol scruto
- ogni dove e apparecchio al tuo pio
desco
- pietanze che sol letiziano il core,
- e in oblìo lascio il corpo mio
negletto.
- Miserere di me; frale coltivo
- il mio ancor giovine pugnace corpo,
- lasciandolo in solio pascer l'acri
erbe
- della vita. Penso lesto e m'arranco
- per mille vie in balìa della brama
tua,
- e più m'addentro fra i tuoi arcani
flutti,
- più sento il morso d'un esser che
serra
- e mi consuma il core. Ascolta, rosa
- dell'ortiva mia terra, dimmi;
perché
- stolto mi gitto in quelle fauci se
già
- in senno mi spauro?». Egli, gaio in
viso,
- mirò pria assorto l'aere e poi infin
fisse:
- «Io, laureo tuo disio, t'assecondo
drudo
- e silente per la tua via e m'è
d'uopo
- sempre e sempre coprire i tuoi
pensieri
- infin che tu possa coglier
l'essenza.
- Seguo le tue teodie, t'ascolto e
t'offro
- l'atarassia. Con un argenteo filo,
- di vitrea trasparenza, ti dirigo
- pio traverso i perigli, e mi
diletto
- a mirar il tuo volger alla
meta».
- Zittitosi; ripresi io a discorrere:
- «M'esiliai allor fra discoscesi
meandri
- dell'alma mia remando cheto e
triste
- su questo vasello alla sol ricerca
- di savie parole e vano m'apparve
- il navigare quando il tuo
vocìo
- venutomi in eco, m'addusse forza,
- e sì negletto in un marmoreo
anfratto
- vidi l'aprico tuo poggiolo e un
radio
- tesser lesto la tua figura tutta.
- Sicché amarrai e or eccomi sol...
dinanzi
- all'eloquenza tua che pia
s'inciela.
- Meco ogni dove porterò in
secreto
- le tue parole e or scusami
riemergo,
- pria ch'el core mio spaurito
s'inceppi.
- Spintomi lesto traverso la regge
- che separa il mortal dal
sempiterno,
- venni scosso da un suono che
diceva:
- «È ora alzati, farai tardi al
lavoro!».
-
- Padre
-
- Pria dell'etate padre, nella quale
- si suol col senno e il core
ragionare,
- ti vedevo sì al desco
familiare
- quale un re, e io ero il vassallo stolto e
frale.
-
- Imparai poi a rispettar il tuo alto
ruolo,
- e a mimar le gesta tue. Cambiai
muta
- mi risvegliai, non più con la voce
acuta,
- ma aggravata per alzarmi com'altri in
volo.
-
- Con sembianze d'omino reclamavo
- l'ingiusta clausura. Uscir, altro,...
niente.
- Dinanzi alla tua gran figura osavo
-
- alzar pugne verbali, ch'or ancor
schiavo
- delle mie parole soffro silente.
- Amor e ironia dal cor tuo ancor
ricavo!
-

-
- Codice
Genesi
- Dal libro di Michael Drosnin «Codice
Genesi» Rizzoli, prima edizione, giugno
1997
-
- Nelle sacre scritture Iddio nascose
- il fato dell'uman etate.
- Sculto e poi nascoso fra le righe
- in un simmetrico gioco,
- percorse mille e mille rote
- intorno al foco mastro,
- in un sopor profondo
- senza risveglio.
- Or eccolo è desto!,
- e arcane date
- giaccion là silenti in
codice,
- ma aspettate...
- popolo dell'orbe terracqueo,
- siete ancor voi assisi al volante,
- indi ogni dove volge il fato
- non ponetevi domande
- siete voi ad aver guidato.
-

-
- Lacrime
(inedita)
-
- Eccola!,
- da silvestre vie la vecchierella,
- avvicinarsi passo a passo,
- nelle ore tarde,
- ove il carnal manto terra opima.
-
- La veggo sì ...pria del
vespro,
- portando al core quel sempiterno foco dono
d'Artemide,
- passando fra lapidi ignote,
- portar fiori al suo caro.
-
- Guarda nonno d'alto loco!,
- a capo chino lacrima sul tuo litico
avello.
- Guarda è lei, fra le sue dita il
vostro anello!
-
- Dì e notte d'amor tuo il cor mio
ammenta
- e l'imago del manto tuo lasso
- ancor mi strugge e mi tormenta.
- La viperea goccia vagò teco
stesso
- lasciandoti adusto, privo di forza,
- assiso a contemplar il fato.
- Oh! nonno,
- dal tuo cerulo poggiolo,
- ascolta!
- Sono solo.
-

-
- Umiltà
(edita).
- Mi piange l'anima saper di tanto
vanto;
- son sazio d'ascoltar cose
- che servon solo per apparir tanto.
- Mio Dio!, perché non si può
parlar
- sol di cose vere, sol di
sentimenti,
- senza dover aggiunger colori!
- Non riesco ad agir com altri che
parlan
- di se stessi, quasi fossero fieri.
- Sol tendendo l'orecchio
- riesco a saper chi si nasconde
dietro
- qualsivoglia specchio.
- Che disgusto parlar e insaporir la
salsa,
- perché si sente il sapor di quella
falsa!
- Vi prego bastaaaaaaaaa!
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