
-
- LA
PANCHINA DEL TERZO BINARIO
- Mi guardavo
riflessa nel piccolo specchio della cipria, ripassando
lentamente il rossetto sulle labbra. Ero così
bella, con gli occhi verdi, lucenti.
- La panchina
sembrava osservarmi con sospetto ed ironia, forse
domandandosi perché non mi sedevo.
- Non c'era nessuno
lì seduto. Perché non mi sedevo io?
Perché non mi ci siedo ora?
- Lunghi treni
stridono nella stazione grigia. Partono, arrivano,
svaniscono nella nebbia con sibili lontani, sempre
più lontani.
- Un gruppo di
anziane signore, allacciate strette nei loro cappotti
fuori moda, parlano, parlano senza capire cosa
dicono.
- Le persone sembrano
distanti da me, sbiaditi personaggi di un romanzo di
cui non faccio parte.
- Non mi interessano
le loro chiacchiere, le preoccupazioni che hanno, i
pettegolezzi sulla figlia, la sorella, il suocero di
non so chi.
- Quando ero giovane
avevo i capelli lunghissimi e neri e stavo in piedi
davanti alla panchina del binario numero tre ad
aspettare quel lunghissimo treno pieno di
vita.
- Scendevano
famiglie, bambini, coppie di fidanzati, militari.
Scendevano tante persone colorate. Loro spaccavano il
vapore, spaccavano il silenzio.
- Lui illuminava il
mio universo con un semplice sorriso, dolce,
infreddolito, assonnato. Bellissimo.
- Lunghi treni
sbuffavano nella stazione non più
grigia.
- Avevo l'abitudine
di arrivare una ventina di minuti in anticipo.
Camminavo avanti e indietro per il breve binario sui
miei tacchi alti sempre intonati alla borsetta.
Controllavo l'orologio, l'orizzonte, tendevo
l'orecchio al più lieve rumore.
- Infine il treno
arrivava con il suo clamore, il fracasso dei freni, la
voce dell'altoparlante.
- Le persone si
affrettavano, si salutavano, oppure, come me,
aspettavano senza muovere un passo.
- Lui spiccava tra la
folla, alto, spalle larghe, portava un cappotto color
cenere con le punte del colletto alzate e una grossa
borsa a tracolla.
- Si avvicinava
lentamente con passo deciso.
- "Sei sempre
più bella", mi sussurrava
sorridendo.
- Ora non sono
più bella, i miei occhi non brillano, non
brillano più, sono spenti come questa stazione
che puzza di vecchio.
- Un giorno
d'inverno, freddo come questo, lui arrivò e non
disse niente. Mi fece sedere sulla panchina, serio,
serio e triste.
- "Devo partire per
sei mesi"
- Sei mesi, sei mesi,
sei mesi, rimbombavano nella testa, sei mesi....
silenzio.
- "Tornerò...
mi sposerai?"
-
- Le quattro signore
si sono sedute, stanno attaccate una all'altra e
riescono ad occupare la lunghezza esatta della
panchina. Sembrano stanche pecore che si fanno caldo
tra loro in molti modi: col corpo, con le parole, con
quelle larghe sciarpe fatte a mano.
- "Guarda, c'è
la Matta! Tutti i venerdì viene ad aspettare il
fidanzato di trent'anni fa!".
- Le ho sentite, si,
le ho sentite, ma non mi importa di loro, non mi
importa di nessuno ormai.
- "Intercity da
Milano in arrivo sul terzo binario "
- Finalmente.
- Stringo tra le mani
il manico della borsetta. Aspetto.
- Eccolo, un uomo
rabbioso che si fa spazio tra la gente.
- Sparisce dietro una
colonna, riappare, si avvicina, viene verso la nostra
panchina, verso di me.
- Adesso non lo vedo,
non c'è, non c'è più.
- Non c'è
più, non c'è più, non c'è
più....
- Stordita mi
accascio sulla dura panchina.
- Ho freddo ai piedi
e alle mani. Sotto il guanto la forma di un
anello.
- Ho giurato che
l'avrei aspettato. Tornerà.
-

-
- L'INCUBO
- Buio completo,
silenzio.
- Secondi, minuti
interminabili, prima di riuscire anche solo vagamente
a capire.
- Nessun riferimento,
nessun rumore, odore, nessuna sensazione sul corpo,
"nel" corpo, forse si è fermato anche il mio
cuore.
- Mi sforzo, cercando
di vedere qualcosa, un indizio, ma sono debole, troppo
debole.
- Le pupille si
dilatano, si costringono, lottano in cerca di
un'immagine.
- Pian piano appaiono
ombre, qualcosa comincia a riacquistare la sua
forma..
- Il cruscotto della
macchina, le cassette, il volante.
- Dove sono, che ci
faccio qui? Perché non dormo nel mio letto,
cos'è successo?
- Il mio corpo fermo,
eppure mi sto agitando, mi agito convulso senza
riuscire a spostarmi.
- Sono incastrato
nella macchina, nel buio, sono incastrato.
- Sprofondo insieme a
tutta questa ferraglia, ferraglia che scricchiola,
che affonda pian piano nell'acqua, affonda pian
piano.
- Buio, sempre
più buio. L'acqua sale, sale, ai piedi, alle
gambe, l'acqua sale.
- Aiuto, aiuto,
aiuto, aiuto, aiuto, aiuto.....
-
- Non riuscivo a
svegliarmi.
- Qualcuno mi
strattonava forte, ma io non mi rendevo conto, ero
incastrato in un sogno crudele.
- Terrore.
- Avevo sempre
cercato di ascoltare ciò che i sogni tentavano
di dirmi.
- L'incubo parlava
chiaro: era giunta l'ora di
cambiare.
- La riva del mare mi
accolse rabbiosa. Le onde scure si scontravano e si
frantumavano tra loro davanti ai miei occhi, seguendo
misteriose correnti.
- Spirava un vento
freddo che ghiacciava il sale sul viso e cantava,
cantava una canzone triste per convincermi ad andare
via.
- Ma io "dovevo"
restare e qualcuno là in fondo mi "doveva"
ascoltare.
- "Sto soffocando,
mare, ho sbagliato strada, ho sbagliato vita, mare,
sto gettando i miei anni come monetine in un
fiume"
- Piansi, piansi le
lacrime che avevo tenuto strette nel cuore per tanti
anni.
- Accovacciato sulla
sabbia, abbracciato soltanto da una spessa sciarpa di
lana, a poco a poco cominciai a sentirmi meno solo, e
poi sempre più unito, più intimamente
unito alla natura, al mare, a tutto ciò che mi
circondava.
- Pensai al mio
passato, breve per gli anni, ma intenso e ricco di
colori: azzurro, giallo, rosso sanguigno, nero,
grigio.
- Ricordai con
precisione la casa di campagna con il suo arredamento
vecchio, le galline, i conigli. Mia madre mentre
inzuppa le mani nelle carcasse per cucinarle e fa
schizzare il sangue sul grembiule bianco. Schifo. E
poi dolcezza.
- Pensai a lungo, non
saprei dire se per un'ora, due o soltanto per pochi
minuti. Il tempo scorreva secondo nuove lancette, le
mie.
- Sentivo il sonno
corrermi incontro con passi leggeri, come orme sulla
battigia. Temevo di fare ancora quell'incubo
così terribile e reale, e allora m'imposi di
non cedere alla tentazione di dormire.
- Molti pensieri
scorrevano sottili tra le mie dita per poi svanire
velocemente nel vento.
- Parole, poche
parole riassumevano tutta la mia vita.
- "Diplomazia". Avevo
imparato presto le virtù dell'uomo saggio, che
parla poco e ascolta molto, evita i dissidi ed
è sempre gentile e educato, in pace con
tutti.
- Io ero stato
davvero bravo, piacevo agli altri, avevo collezionato
più amici che nemici. I miei genitori potevano
essere fieri di me.
- Mi avevano detto
che in questo modo sarei arrivato lontano, che
"qualcuno" avrebbe fatto in modo che io fossi arrivato
lontano.
- Mi avevano
costruito una tana buia ma piena di pelo, dove mi
nutrivano, mi amavano, mi insegnavano le loro
leggi.
- Soffocavo
perché mi tenevano legato.
- Sciocchezze.
Soffocavo perché non avevo il coraggio di
andare altrove da solo.
- Neanche il coraggio
di amare.
- "Amore".
Cristina.
- Il viola cupo del
tramonto mi fece pensare al rossetto di Cristina. Una
striscia di cielo si confuse con le altre,
sfumando.
- Avevo vissuto
venticinque anni nella certezza di essere forte,
sicuro, indipendente. Una tigre. Improvvisamente, di
fronte al mare, mi scoprii un gattino, un cucciolo
trascinato da un lungo guinzaglio.
- Tutte le ragazze e
gli amici che avevo scelto fino ad allora erano state
marionette che rispondevano esattamente alle
aspettative dei miei genitori. Donne belle ma con
eleganza, intriganti ma materne, ragazzi simpatici ma
responsabili.
- Cristina era
piccola, paurosa, troppo sensibile, troppo affettuosa,
appiccicosa. L'acqua saliva, saliva e io
soffocavo.
- Sciocchezze.
Cristina mi innervosiva perché era debole come
me.
- Una settimana prima
l'avevo incontrata per caso in città. L'avevo
riconosciuta da lontano per quella larga giacca blu
che portava spesso, ed ebbi la tentazione di tornare
indietro per non incrociarla. Fuggire.
- Accanto alle altre
ragazze sembrava ancora meno attraente, con quel modo
di fare goffo e impacciato e i capelli legati in una
coda.
- Soltanto dopo
qualche passo riuscii a distinguere la persona con cui
parlava, era un ragazzo che l'aveva insidiata altre
volte.
- D'un tratto mi
sentii ardere di una rabbia imprevista.
- "Via dalla mia
preda, via dal mio territorio", pensai.
- Quando mi vide,
Cristina sorrise. Ora era bella, più bella di
tutte le altre.
- "Facciamo un
giro?", le chiesi.
- Trotterellava
accanto a me, felice di avermi incontrato. Io guardavo
l'asfalto che scivolava sotto i miei piedi,
silenzioso.
- Lei capì
cosa avevo in mente e divenne seria. Da giorni temeva
di sentirmi pronunciare quelle parole, e per questo
m'illusi che le avrebbero fatto meno male.
- Parlai velocemente,
in modo quasi meccanico. Altre donne avevano tradito
la mia fiducia, mi avevano ferito,
umiliato.
- Ormai avevo
imparato a vivere solo, a non avere bisogno di
nessuno, mi ero creato una vita perfetta, senza
preoccupazioni, paure, senza perdere il controllo
mai.
- Non mi sarei
più innamorato, ne ero sicuro, me lo ero
imposto. Cristina non mi piaceva, no, non piaceva
neanche ai miei amici.
- Claudio ne era
persino geloso. Io e lui eravamo legati da un rapporto
molto forte, mi considerava un fratello maggiore,
dipendeva da me e in qualche modo anch'io da
lui.
- Non era mai andato
d'accordo con Cristina, non digeriva il fatto di
essere lasciato solo il sabato sera a casa, mentre io
andavo a fare l'amore con lei, velocemente, con uno
stupido senso di colpa.
- Non poteva andare
avanti così: o lui o lei.
- Lui era la
libertà, il divertimento, le discoteche, le
sbornie con gli altri amici.
- Lei era solo
sesso.
-
- Era passata una
settimana da quel giorno, il giorno in cui avevo preso
una decisione importante. Non avevo più pensato
a Cristina, non l'avevo sentita per telefono, non mi
soffocava più con il suo amore.
- Eppure l'acqua
continuava a salire, il sogno me lo aveva mostrato
chiaramente.
- "Mare, ho sbagliato
strada", sospirai di nuovo.
- Spinsi il mio
sguardo verso l'orizzonte, al di là delle
ultime imbarcazioni, perdendomi nelle poche macchie
viola che rimanevano, assediate dal blu scuro quasi
notte.
- Per troppo tempo
avevo marciato lungo corridoi senza guardarmi intorno,
seguendo solo la logica, la razionalità,
protetto da fili spinati per non soffrire, per non
rischiare.
- Era giunta
l'ora.
- Mi alzai
lentamente, con le gambe intorpidite e la brezza
marina attaccata alle ossa.
- Passi lunghi e
determinati. Strade poco illuminate, portoni
arrugginiti.
- Per venire ad
aprire il cancello, Cristina dovette percorrere il
sentiero di ghiaia attraverso il giardino e da lontano
stentava a riconoscermi.
- "Cos'é
successo?", domandò preoccupata, scrutando
l'espressione del mio viso, per lei del tutto nuova. E
anche per me.
- "Stai bene?",
insisteva con la sua solita apprensione. Sembrava
quasi aver dimenticato il male che le avevo fatto, il
mio egoismo, le mie paure.
- "Ieri sera ho preso
la macchina e ho avuto un colpo di sonno, ho
sbandato..", lei sbarrò gli occhi spaventata.
- Decisi di non
perdere tempo a spiegarle tutto.
- "Ti posso
abbracciare?"
- Lei non rispose e
mi strinse forte, carezzandomi i capelli, così
forte da togliermi il respiro.
- L'acqua saliva,
saliva, mi stordiva, mi inebriava, poi mi
terrorizzava. Saliva, saliva, mentre mi aggrappavo a
lei, al suo corpo, con la sensazione che non mi
avrebbe sorretto e quindi sarei dovuto fuggire,
fuggire lontano.
- Mare, aiutami a
cambiare, mare, mare.
- Infine chiusi gli
occhi e rimasi fermo, in silenzio. Un profondo
respiro, come se mi fossi dovuto immergere alla
scoperta di fondali meravigliosi.
- Finalmente,
finalmente, mentre l'acqua saliva, io nuotavo. Per la
prima volta. Nuotavo.
-

-
- Per mia
madre
-
- Nei giorni in
cui mi arrampicavo sugli alberi
- e avevo gli
occhi grandi
- e piccole mani
farfalline
-
- Ti ricordi le
ciliege a coppie
- sull'orecchio
come gioielli ?
- Io
sì...
-
- Vorrei prenderti
per mano
- e portarti a
quel laghetto assorto
- dove sognavo
gnomi e fatine
-
- Nei giorni in
cui il caldo
- aveva il suono
delle cicale
- e i miei piedi
erano persi nell'erba
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