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               QUANDO
               L'EURO ANCORA NON C'ERA E' tornato, dopo
               molti anni, sul molo "Alfio Cinni", richiamato da
               oscuri ricordi, l'uomo che dopo un lungo tragitto
               della vita, è ora disteso e assopito come un
               ramarro sul cemento corroso dal mare.Secondo
               l'abitudine, cerca un posto umido dove mettere le mani
               che non amano il vento, il sole o la polvere, e alla
               fine lo trova in una pozza lasciata dalla risacca.
               Accanto a lui, come
               una bestiola fedele, è afflosciata la sacca
               delle cose che ha raccolto un po' dappertutto, da
               scemo e vagabondo di paese. Tiene invece ben protette,
               in un involto celato in una tasca segreta, le monete
               rimediate nella questua, quelleleggere che
               andavano prima dell'euro, da cinque lire con impressa
               l'immagine del delfino.Guardando la mano
               nella pozzanghera sta ora rivedendo se stesso bambino
               che corre verso il mare, in una giornata di avanzata
               primavera che già glielo fa immaginare tiepido
               e accogliente.Stringe in mano, il
               bambino, il copricapo di velluto scuro che, anni
               prima, gli ha regalato la signora Ildegonda,
               patronessa e benefattrice del paese. Lo usa non solo
               per ripararsi dal freddo, ma anche più
               semplicemente, da tenere in mano, perché
               morbido e caldo, da sembrargli vivo.II suo camminare,
               quel giorno, era felice perché sui rami vi
               erano già le foglie di un verde tenero e
               lucente mentre una piacevole corrente magnetica di
               vita lo investiva alle spalle sospingendolo nella
               stessa maniera in cui il vicino torrente trascinava i
               fiocchi dei pioppi, rappresi in grumi
               biancastri.I ragazzi del
               "branco Cinni" lo incontrarono appena ebbe
               oltrepassato il podere di Mario del
               Pipì.Andavano a caccia
               di nidi e del nulla che solitamente riempiva la loro
               violenza di adolescenti. Alcuni stringevano in mano
               giunchi flessibili, altri bastoni duri altri tenevano
               in mano bastoni e pietre di varie dimensioni, mentre
               il più grande (avrà avuto sedici anni),
               si era cacciato sul capo una corona di foglie di
               alloro selvatico per indicare la supremazia che
               esercitava sul gruppo. Il suo atteggiamento da "capo"
               era perfetto dal momento che posava l'occhio, a volte
               benevolo e a volteimperioso, sugli
               altri, e più spesso, fissava un punto
               indefinito verso l'orizzonte. Quando si udiva un
               fruscio tra i rami di biancospino bastava il muoversi
               dei suoi occhi o il puntare l'indice nella direzione
               del rumore perché due dei sottoposti si
               avvicinassero circospetti alla siepe. Un cinguettio
               straziante e un frullo di ali spezzate,rivoltate tra i
               fitti rametti spinosi, indicavano che un altro nido
               era stato depredato e l'uccisione, già
               decretata, seguiva rapida con i bastoni e coi sassi,
               mentre gli uccelli più piccoli venivano
               semplicemente scagliati violentemente per terra. Altre
               volte l'imperatore ordinava, senza muoversi o parlare,
               di scagliare le pietre contro la muraglia bianca di
               biancospino dentro cui si infilavano senza rumore e
               sollevavano solo nuvolette di petali, mettendo in fuga
               placidi ramarri.Questo gioco andava
               avanti da un pezzo e stava venendo a noia quando la
               vista del piccolo li animò calamitando
               l'attenzione del capo supremo che, togliendo lo
               sguardo dall'infinito, disse:- Arriva lo scemo
               sordomuto - Gli altri
               aggiunsero, presi dal desiderio di elevarsi a
               consiglieri:- Pisciamogli il
               berretto -- Togliamogli i
               pantaloni -- Buttiamolo nel
               fosso -- Bastoniamolo
               -L'Augusto, con
               un'occhiata e un leggero scrollare di spalle
               disapprovò gli estremismi, mentre accolse le
               proposte che non erano idonee ad arrecare danno alla
               persona, in ciò dimostrando l'equilibrio
               proprio dei despoti.- Togliamogli i
               pantaloni e pisciamogli berretto -
               sentenziò.La frase fu
               ripetuta in coro dal branco e poi da ognuno di loro e
               continuò a rimbalzare tra gli angoli angusti
               della mente del bambino che accettò con
               curiosità che gli sfilassero i calzoni e le
               mutande che gli annodarono al collo come un
               fazzoletto. Anzi rideva per lo scherzo che gli
               facevano e, appena incrociando le gambe, ritraeva il
               bacino per il naturale istinto di proteggere i
               genitali.Con delle stoppie
               bruciate, alla fine, gli sporcarono il pube, mentre
               l'incoronato sentenziò: "Adesso anche tu puoi
               dire di essere grande". Oppose invece una
               grande resistenza per cedere il berretto che stringeva
               con tutta la sua forza usando in ciò, lo stesso
               accanimento che gli uccelli adulti opponevano nella
               difesa dei nidi distrutti dal branco. Riuscì
               anche a disorientare per un attimo gli assalitori
               emettendo il suono inarticolato di cui era capace :
               uno squittio, un sibilo, e un soffio da mantice
               sfiatato. Chi tirava il berretto per strapparglielo
               allentò la presa in quanto quel verso entrava
               nelle orecchie, ma scendeva all'interno del petto
               generando un'angoscia improvvisa. Il capo stesso
               avrebbe in cuor suo, deciso di lasciar perdere ma
               capì che i suoi già sottolineavano un
               giudizio di debolezza solo vedendolo dubbioso. Fece
               allora un gesto imperioso col capo per dire: -
               Sbrighiamoci! -Fecero infatti in
               fretta, e prima di andarsene annaffiarono
               abbondantemente con getti caldi di urina il berretto
               di velluto che infradiciandosi rimase sul terreno
               dove, simile a una bestiola schiacciata mostrava un
               lembo della sua fodera rossa come intestini vomitati
               per la violenza subita.Il bambino quando
               lo raccolse,per la prima volta pianse con vere lagrime
               e inutilmente cercò di pulirlo dai frammenti di
               terra che invece, a toccarli, si spandevano ancora di
               più.Rimanendo sempre
               con le natiche e il sesso scoperti volle distendere il
               berretto al sole, appoggiandolo alla siepe di
               biancospino mentre con gli occhi stupiti accarezzava
               la fuliggine del basso ventre che in questo modo si
               spandeva sulla pancia. Attese a lungo che il berretto
               si asciugasse e, osservandolo, le lagrime continuavano
               a scendergli abbondanti lungo le guance.Di tanto in tanto
               continuava a palparlo con quella circospezione che
               abitualmente si usa per accertarsi se una persona
               morente sia ancora in vita. Aspettò
               un'eternità dal momento che il berretto
               impregnato com'era non accennava ad asciugarsi del
               liquido maleodorante.Fu allora che con
               ogni probabilità scoccò nella sua mente
               uno di quei lampi che sovente lo aprivano, lui
               sordomuto dalla nascita, ai misteri della natura. Si
               infilò nuovamente mutande e pantaloni e,
               annodando lo spago che li sorreggevano si diresse di
               corsa verso il mare lasciando indietro i ragazzi del
               branco Cinni già intenti ad altre
               imprese.Percorse o pochi
               chilometri in un attimo tra i tiepidi profumi della
               primavera che in quel momento non avvertiva vibrante
               come prima. Si fermò
               alla fine del molo dove si appallottolò come un
               animale selvatico piangendo per la paura del futuro,
               pensando alla perdita del suo berretto che, ogni
               notte, per prendere sonno, doveva premersi addosso per
               porre in fuga le figure che, col buio,abitualmente lo
               circondavano, saltellandogli attorno come gatti dai
               colori sgargianti.Cercò, in
               quella lunga disperazione, una tregua, immaginando
               prima una grossa pigna che, appesa a uno spago,
               oscillava lentamente come un pendolo, e poi perdendo
               lo sguardo davanti a sé nell'immensità
               del mare, fin oltre la salita
               dell'orizzonte.Queste immagini
               riuscirono a calmarlo un po', ma il dolore rimaneva
               acuto ogni volta che gli tornava alla mente l'immagine
               del berretto lasciato tra i biancospini. Durante il
               sonno, tutte le notti, sentiva che solo quel contatto
               era capace di mettere in fuga le figure che lo
               spaventavano al capezzale... Ora i fantasmi lo
               avrebbero strattonato a proprio piacimento e i
               più feroci avrebbero potuto percuoterlo e forse
               divorarlo. Altre immagini,
               appena abbozzate, gli si agitavano in mente, cercando
               faticosamente di diventare pensieri organizzati quando
               "vide" emergere dall'acqua un delfino che, già
               da tempo volteggiava al largo, facendosi scambiare per
               una piccola onda che fronteggiava, al largo, i marosi.
               Mentre, stupito e
               già distratto, si asciugava le lagrime,
               sedendosi sulla banchina, il delfino, che si era
               avvicinato sparì sott'acqua per riemergere in
               un punto in cui galleggiava una ciocca di alghe rosse
               che gli rimase impigliata nella testa come una
               parrucca sbilenca. La scena fece esplodere
               l'ilarità del bambino che, ora dopo la
               disperazione, batteva le mani e agitava i piedi sul
               pelo dell'acqua dove il delfino,avvicinandosi ancora,
               glieli toccava col muso. Quel contatto riempì
               il bambino di gioia facendogli emettere suoni
               articolati simili a parole che lui, da sordomuto, non
               conosceva. Anche il delfino soffiando compì,a
               modo suo, modulazioni sonore articolate. E dopo poco i
               due... si parlarono a lungo, con un linguaggio noto a
               loro soltanto e all'immensità del
               mare. Il delfino fu poi
               ritrovato, dal bambino, divenuto uomo, sulle monete da
               cinque lire che c'erano prima dell'euro. Ora
               incomincia ad allineare le monete su uno spazio pulito
               in diverse file, così che l'immagine del
               delfino si ripropone in decine e centinaia di volte, E
               l'uomo non si stanca di bearsi del luccicante colpo
               d'occhio. |