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               Genova,
               23 gennaio 1997È mezzanotte e sto aspettando che l'acqua della
               mia doccia diventi più tiepida. Da quando ho
               lasciato Ginevra e Giovanni, non mangio più,
               non ho alcuno scopo di vita. Oggi peso trentotto
               chili. Mi manca ogni forza, non riesco a camminare,
               paralizzata, come un verme schiacciato a terra e
               vistosamente deformato, che si dibatte. Senza una
               parola. Senza un lamento. Davanti a me ho il vuoto del
               linguaggio, il Nulla, la Morte. Ma ora sento che entra
               in me la verità nuda, pura, eterna. L'acqua
               scorre sempre.
 
 
 
Genova,
               30 gennaio 1997Indubbiamente sono in ospedale: gli occhi aperti a
               stento mi rivelano questa sorpresa. Dal mio petto
               parte un tubicino, che sbocca in una sacca piena di
               liquido biancastro, sospesa a un alto tubo. Non ci
               sono dubbi: una flebo.
Provo a chiamare
               un'infermiera ma, forse a causa di un altro condotto
               che esce dal mio naso, non riesco ad articolare nessun
               suono. Allora tiro il camice di un medico vicino a me
               che, con un sorriso e una voce rauca, mi dice:
               «Sei nel
               reparto di rianimazione dell'ospedale Galliera.
               Qualche giorno fa, sei entrata in coma. Stai
               tranquilla, ora sei fuori pericolo! Ti abbiamo salvata
               per miracolo, curandoti come un malato cardiaco.
               Soffri di anoressia, vero? Spero tu tragga
               insegnamento da questa brutta
               esperienza».Lo guardo allibita.
               Quando rinunciavo al cibo ero attratta dalla morte, ma
               non capivo veramente di perdere il bene prezioso della
               vita.
 
 
 
Genova,
               2 febbraio 1997La mia mente
               è attraversata da una fitta schiera di ricordi
               confusi, da cui mi distoglie una voce:
«Francesca,
               come stai?» .È mia madre,
               venuta a farmi visita insieme a
               papà.«Come sei
               pallida! Guarda, ti ho portato un fard» aggiunge
               la mamma, sempre così preoccupata delle
               apparenze. Poi prosegue:
               «Dopo questa dolorosa vicenda, non vogliamo
               più cadere in errore. Appena ti sarai rimessa
               in forze, non vivrai più sola e tornerai ad
               abitare con noi a Bologna».Se poco fa ero
               pallida, ora non oso immaginare il colore del mio
               viso. Guardo mio padre, sperando di trovarvi maggiore
               comprensione. Dalle sue labbra escono invece le
               parole:«Faremo
               proprio così».«Ma quando ero
               a Strasburgo, a Liegi, a Roma, a Rapallo, in Corsica,
               a Nizza stavo bene fisicamente. Se di recente a
               Ginevra e a Genova mi sono riammalata, è
               perché mi sentivo sotto il vostro
               controllo» cerco di spiegare, parlando con
               fatica, a causa del sondino che mi arriva fino in
               gola.È inutile,
               povera Francesca, non sprecare il tuo fiato. Ascolta
               papà:«Non ci
               convincerai mai! Lo facciamo per il tuo bene. Non
               vogliamo mica riapparire sui
               quotidiani».«Sui giornali?
               E perché?» chiedo.«Prima di
               entrare in coma all'hotel Astro, hai lasciato la
               doccia aperta. Gli albergatori, la notte, sentendo
               provenire dalla tua stanza il prolungato rumore
               dell'acqua che scrosciava, prima hanno bussato, poi
               hanno cercato di entrare col passe-partout, ma
               è stato inutile: la serratura era chiusa da
               dentro, con la chiave nella toppa. Allora hanno
               chiamato i vigili del fuoco, che hanno forzato
               l'uscio. È intervenuta anche la polizia e
               dunque del fatto sono venuti a conoscenza i
               giornalisti, che ci hanno intervistato. Sono apparsi
               molti articoli su di te, anoressica in coma, sulla
               cronaca sia di Genova che di Bologna».
               «Me li
               portate, la prossima volta che ci vediamo?»
               domando.«Se ci tieni
               tanto
- dice mia madre, che aggiunge: - Tutto
               è accaduto di notte».Ecco
ora si
               riaffaccia alla mia memoria una leggenda dolomitica,
               antichissimo mito solare, che appresi a
               Canazei
Sì, sono Soreghina, "filo di
               sole", che muore dolcemente a mezzanotte per un suo
               perduto amore...Ed è stata l'acqua che mi ha
               salvato.Costernata, non
               riesco neppure più a guardare i miei genitori e
               il mio sguardo smarrito poggia nel vuoto. Il fatto di
               aver toccato la morte da vicino non mi ha spaventata;
               ciò che ora mi terrorizza è l'idea di
               vivere nuovamente con mamma e papà. Per fortuna
               ora se ne vanno, alleviando un poco il mio
               dolore.La mia mente viene
               allora inondata da una marea di flashback, relativi ai
               periodi trascorsi con i miei. Il tubicino che esce dal
               mio naso somiglia un po' ai baffi, che dovetti portare
               da bambina per far piacere al dentista e ad Anna
               Maria. L'immobilità a cui sono costretta in
               questo letto mi fa tornare in mente il mio
               fastidiosissimo busto per la scoliosi. Mi rivedo
               anoressica quando, all'età di venti anni,
               abitavo con mia madre e mio padre. Ho vissuto il
               controllo sul cibo come la capacità di dominare
               la carne e la materia, a favore dello spirito. Se
               volessi cercare i colpevoli come si fa per un delitto,
               sia i miei genitori soffocanti che tutta la nostra
               società materialista, asservita alle cose, sono
               responsabili della mia entrata in coma.
 
 
Genova,
               3 febbraio 1997«Ormai
               sei fuori pericolo, quindi ti trasferiamo nel reparto
               psichiatrico di quest'ospedale».
È un medico,
               a cui chiedo:«E
               perché proprio lì?».«Perché
               sei anoressica. Più che nel fisico, sei
               invalida nella psiche».Lo guardo con un
               sorriso: quasi quasi provo piacere nel definirmi
               malata mentale. Un malato è un diverso: amo
               ostentare la mia diversità. Eh già, sono
               pochi ormai quelli che come me amano la parola e
               odiano la cosa, la materia, il corpo. Con una lettiga un
               infermiere mi trasferisce nell'altro reparto dove, nel
               prendermi in braccio per adagiarmi su un letto,
               esclama:«Sei leggera
               come una piuma!».Mi viene spontaneo
               tradurre mentalmente la frase in francese: Tu es
               légère comme une plume! Non penso alla
               leggerezza della piuma dell'uccello, ma a quella della
               plume per scrivere e della letteratura. Tragica
               leggerezza.
 
 
 
Genova,
               8 febbraio 1997Ora riesco a
               parlare e camminare, tirandomi dietro con fatica il
               flacone della flebo, appeso a un'asta munita di ruote.
               Nel reparto psichiatrico, con il passare dei giorni
               faccio amicizia con gli altri degenti. Numerosi sono i
               tentati suicidi: la ragazza disperata perché il
               fidanzato l'ha lasciata, la casalinga estremamente
               depressa, il padre di famiglia disoccupato. Mi sembra
               di essere finita nel settimo cerchio dantesco, tra i
               violenti contro se stessi. Anche i golosi,
               però, l'Alighieri li colloca all'Inferno. Ma
               qui siamo vivi. Fra di noi scherziamo e sorridiamo: il
               sorriso di coloro che hanno voluto morire, hanno
               tentato e sono stati salvati.
La mia compagna di
               stanza si chiama Marta, è drogata e un giorno
               mi mostra un libricino dal titolo Ecstasy -
               allargamento della coscienza - restringimento dello
               stomaco, un opuscolo informativo per la
               liberalizzazione delle sostanze stupefacenti,
               accompagnata a un loro uso consapevole e
               cosciente.«Ti sei mai
               fatta uno spinello?» mi chiede Marta.Le rispondo:
               «No. Anch'io, però, quando non mangio sono
               come un tossicodipendente che si inietta il veleno
               fatale, senza capire del tutto che si sta annientando
               e senza sapere se vuole morire. Comunque, non mi
               drogherò mai: preferisco i paradisi artificiali
               aperti dalla letteratura».
 
 
Genova,
               10 febbraio 1997Oggi
               finalmente mio padre mi ha portato i quotidiani che
               gli avevo chiesto. Adesso mi va proprio di
               leggerli
 Dunque, vediamo
 Alla prima riga
               di un articolo che mi riguarda ed è apparso su
               «la Repubblica», mi accorgo subito di un
               errore commesso dal giornalista, quando leggo che ho
               «un ottimo rapporto con i genitori». Non si
               possono esprimere giudizi su di un individuo, se non
               lo si conosce benissimo. Mi viene in mente un motto
               degli indiani d'America, che ho letto nel libro Va'
               dove ti porta il cuore della Tamaro: «Prima di
               giudicare un uomo cammina per tre lune nei suoi
               mocassini». Viste dall'esterno, molte vite come
               la mia sembrano irrazionali, pazze: finché si
               sta fuori è facile fraintendere le persone e i
               loro comportamenti. Soltanto da dentro, dal mio cuore,
               soltanto arrancando tre lune con i miei stivalacci, si
               possono comprendere le mie motivazioni.
Il servizio del
               giornale è accompagnato dalla foto di una
               modella dall'esile silhouette. Vicino sta scritto:
               «L'ossessione di un corpo perfetto, una molla che
               può far scattare l'anoressia». La mia
               inappetenza, invece, non somiglia a quelle che
               aumentano di numero dopo le sfilate di moda, imponenti
               immagini di bellezza femminile il più delle
               volte distorte, al limite dello scheletrico: una
               concezione estetica che sta mietendo le sue vittime,
               ma non mi sfiora.Leggendo il pezzo
               de «la Repubblica» mi accorgo di nuovo che
               è stata proprio la mia doccia a salvarmi dalla
               morte. Quell'acqua che amo tantissimo simboleggia la
               forza del mio inconscio: anche quando non mangiavo,
               non ho mai cessato di berla. È sì fonte
               di vita, ma pure distruttrice. Le acque
               dell'interiorità, da cui ci lasciamo
               trasportare, arrecano pericoli: possono agitarsi,
               nascondere squali, trasformarsi in neve, ghiaccio,
               valanghe incombenti e minacciose. La mia anoressia
               è stata un'esplosione del represso, una slavina
               di protesta. Lo scenario che si prospetta è
               simile a quello di uno dei più famosi film
               catastrofici che io ricordi: Valanga, la pellicola del
               regista Corey Allen. Storia di una palla di neve che,
               piano piano, scendendo a valle si trasforma in un
               disastro ambientale di proporzioni inaudite e investe
               una stazione sciistica. Morti ovunque. Macerie.
                In un articolo
               apparso sul «Corriere mercantile» di Genova
               si afferma che, quando sono stata rinvenuta in stato
               di incoscienza all'hotel Astro, ero «seduta su
               una sedia, non in grado di parlare, immobile come un
               automa». Quel robot che Anna Maria, durante la
               mia pubertà e adolescenza, aveva voluto fare di
               me.  In un altro
               servizio pubblicato su «la Repubblica» e
               intitolato Da dodici anni in lotta con l'anoressia,
               leggo:«È
               cominciato dodici anni fa, d'estate, - racconta la
               madre. - Eravamo andati in vacanza a Milano Marittima.
               Mia figlia aveva diciassette anni, era soltanto una
               ragazza formosa, certo non si può dire grassa.
               Mi disse che voleva mettersi a dieta e iniziò a
               mangiare soltanto delle bistecche con insalata
               scondita. Fosse stata una come tante, dopo un po'
               avrebbe ceduto. Lei invece ha sempre avuto una
               volontà di ferro: iniziò a ridurre le
               quantità di cibo fino al rifiuto quasi
               totale».Mamma, affermando
               che la mia anoressia dura da dodici anni, ha detto il
               falso. Infatti dieci anni fa, dopo la mia prima
               inappetenza, mi ripresi e non ho più sofferto
               di questo male, pur con tutte le mie nevrosi, fino a
               poco più di un anno fa. Anna Maria ha mentito
               anche per quanto riguarda la dieta che feci a Milano
               Marittima. Non la intrapresi spontaneamente, ma per
               volontà di mia madre: non posso dimenticare il
               suo schiaffo
Uno solo è
               anche il ceffone buscatomi da mio padre, che mi
               picchiò perché avevo preso un cinque. Ho
               ancora in mente quel giorno
 Ritorno bambina, ho
               sette anni, sono a scuola, in classe. La maestra
               Domenica Ventura dalla cattedra ci dice:«Adesso, un
               dettato facile! Darò cinque a chi fa un solo
               errore».Io, solita a
               svolgere compiti perfetti, in questa prova, forse per
               l'agitazione, commetto un piccolo sbaglio, nell'andare
               a capo, sì, me lo ricordo ancora. A casa, cerco
               lacrimante di spiegare a papà che il mio voto
               è ingiusto. Una misura punitiva della mia
               insegnante nei confronti dei più
               «somari», come li chiamo io: i loro dettati,
               una volta corretti, sembrano «cimiteri»! Il
               babbo, però, non vuole ascoltare le mie ragioni
               e mi molla uno sberlone. Per reazione raddoppio il mio
               studio già tenace, con un impegno che mi
               renderà sempre la prima della classe fino alla
               quarta liceo. Non prenderò mai più un
               voto insufficiente. Per me, come per mio padre,
               è importante l'essere, per mamma
               l'apparire.
 
 
 
Genova,
               11 febbraio 1997Oggi nel mio
               reparto viene internato un nuovo paziente. Di
               mezz'età. Occhialini tondi. Capo fasciato.
               Stringo amicizia pure con lui, che si presenta
               così:
«Mi chiamo
               Roberto, sono psicologo di
               professione
».Non riesco a
               trattenermi:«Non è
               paradossale per uno psicologo finire ricoverato nel
               reparto psichiatrico di un
               ospedale?».«Sì, lo
               è, il colmo dei colmi! Ma sai, ho perso la
               testa quando, di ritorno da un viaggio, nel
               sottopassaggio della stazione, sono stato assalito da
               due extracomunitari, che mi hanno ferito alla testa,
               per portarmi via i bagagli e tutto il mio denaro.
               Farneticavo e così mi hanno condotto qui.
               Adesso ci resto volentieri, finché non mi
               toglieranno i punti. Sì, perché in
               questa sezione si mangia bene
». Ritorno nella mia
               stanza dove, per vedere se ho ancora l'aspetto di una
               mezza morta, tiro fuori lo specchietto del fard.
               Un'infermiera me lo strappa di mano,
               dicendo:«Qui non si
               possono tenere specchi».È entrata
               per farmi prendere una medicina. Molto diffidente
               verso i medici riguardo ai farmaci che mi fanno
               ingerire, chiedo di vedere il foglio illustrativo. Fra
               le varie notizie, vi leggo: «L'uso in caso di
               gravidanza e allattamento è raccomandato dalla
               letteratura internazionale. Nessun effetto è
               riportato dalla letteratura sull'attenzione e sulla
               capacità di guidare o usare
               macchine».Non si tratta mica
               della letteratura umanistica? A parte gli scherzi,
               credo profondamente nella capacità terapeutica
               delle lettere classiche. I romanzi, le poesie, il
               teatro rappresentano una sorta di medicinali per
               guarire quei mali fisici che, come l'anoressia,
               riflettono un malessere psichico, interiore. È
               proprio la cultura letteraria ad avermi insegnato
               l'ironia, il farmaco che mi aiuta a
               vivere. Ma a salvarmi
               è stata soprattutto l'acqua, simbolo dello
               spirito divino vivificante: il Signore mi ha protetto,
               facendo sì che io lasciassi aperta la doccia,
               quando sono entrata in coma. È Lui che non mi
               ha fatto trovare un monolocale di mio gradimento a
               Genova: se non fossi rimasta all'hotel Astro, ora
               sarei già morta.La raccomandazione
               che vedevo dappertutto era in realtà Dio che mi
               voleva aiutare, seminando tanti germi, che non seppi
               far fiorire e raccogliere. Sì, proprio Lui, il
               Signore del mio delirio, come mi piace chiamarlo,
               senza alcun intento blasfemo. Ed è Dio che ora,
               uscita dal coma, mi fa capire dove devo cercare una
               ragione di vita: la scrittura. Voglio organizzare i
               miei appunti e il mio diario, riordinare le lettere
               indirizzate a Giorgia e pubblicare dei romanzi. Ne
               stenderò più d'uno: ne ho tante da
               raccontare. Credo nella "scritturoterapia": registrare
               le mie emozioni, nevrosi e ossessioni mi
               permetterà di penetrarvi sempre più in
               profondità, esorcizzandole.Pur non avendo mai
               partecipato ad alcun rapporto sessuale io, che prendo
               tutto alla lettera, ho avuto la mia petite mort,
               l'orgasmo nel gergo francese. Il mio coma per
               anoressia, piccola morte, è stato per me come
               il culmine del coito, l'acme, la punta, il picco della
               mia passione, ovvero il momento in cui mi sono tolta
               la vita per il dolore di trovarmi lontana da Giovanni:
               un atto d'amore. Ma ora, rinata, quasi risuscitata,
               capisco che posso restargli per sempre vicina in
               un'altra dimensione, scrivendo, con la mia parola.
               Nessun luogo è lontano.Quando i miei libri
               saranno pubblicati, li spedirò al professor B.,
               perché sappia dell'amore che nutro per lui e
               che non gli ho mai confessato. Ciò che mi
               addolora di più è il fatto di non essere
               riuscita a spiegargli bene la mia storia e
               l'ossessione dello squalo, nella mia lettera
               delirante. Forse, se fossi
               rimasta in Svizzera e avessi accettato di conseguire
               il dottorato sotto la sua direzione, come lui mi aveva
               chiesto, la mia anoressia non si sarebbe aggravata e
               non sarei entrata in coma. Mi sono vergognata di
               fronte a Giovanni della mia malattia psichica e ho
               fatto la mia scelta, che mi ha condotto alla morte.
               Nella vita, quando un indeciso si trova a un bivio e
               imbocca una via, perde tutte le alternative offerte
               dalle altre strade. Questo, però, non accade
               nel tempo ambiguo della scrittura, in cui tutto
               è possibile, persino la rinascita dell'amore.
               Sì, anche questa volta troverò la forza
               di andare avanti, di vivere: la creazione rappresenta
               la mia possibilità di affermare vittoria sul
               tempo e sulla morte. Dopo il coma, ecco la
               resurrezione miracolosa nella parola.
 
 
Genova,
               13 febbraio 1997È mezzogiorno e un'infermiera mi porta in
               camera un piatto di trenette fumanti, col pesto alla
               genovese. Saranno dieci anni che non gusto
               pastasciutta, ma adesso mi è venuta l'acquolina
               in bocca. Riuscirò a papparmi questo piattone?
               Da quando ha cominciato a vivere da sola, non mi sono
               mai cucinata una minestra. Ora inforco le posate e mi
               accingo a consumare le trenette, sfogliando i
               quotidiani che mi ha portato mio padre. È
               strano, ma adesso non faccio più fatica a
               deglutire. E poi, questo pesto è squisito!
               Divoro tutto il piatto con voracità mentre
               leggo, seduta vicino a Marta.
Le dico: «Ehi,
               leggi un po'
 Un'indagine, in Gran Bretagna, ha
               rivelato che attualmente, nell'acqua potabile, vi
               è una percentuale di antidepressivo, tanto ci
               troviamo inondati da queste medicine».
               «Addirittura!
               Inaudito!» esclama la mia compagna di
               sventura.«Sì,
               sta scritto qui. Quell'acqua che amo tanto e mi ha
               salvato
Sai, Marta, in tutti gli ospedali in cui
               sono stata ricoverata, mi hanno obbligato ad assumere
               intrugli che, secondo gli psichiatri, portano
               beneficio alla mia testa tutta matta. Io invece non
               credo molto nell'efficacia degli psicofarmaci: bisogna
               lasciar fare alla natura. Oggi ci troviamo sommersi da
               immagini, ma penso che l'unico sollievo possa essere
               dato dalla parola, meglio se scritta e letteraria, ma
               anche solo detta e rammentata. Te lo dice una che di
               nomi se ne intende e ne ha studiato la storia e la
               filologia. Una che ha visto tanti Torna a casa
               lessici, protagoniste le lingue neolatine. Non
               dimenticherò mai le frasi, la voce, l'accento
               toscano di Giovanni, che ho amato tanto ma non
               sensualmente: ricordandoli, sento quell'uomo
               meraviglioso più che mai presente e vicino a
               me, anche se è molto lontano
 Vedi, la
               parola ha, è un corpo. Fatto di
               materialità. Di accenti, linee, punti. Di
               fonicità. Con una componente di
               ludicità! Tò, adesso invento i vocaboli
               creando dei neologismi, che per la psichiatria sono
               sintomi di schizofrenia. Diciamo di ludique, per
               riprendere il termine di Cla
ah sì,
               Claparède!».«Un tuo
               amico?» chiede l'ignorante Marta.Rido: «No, il
               pedagogista svizzero, che per primo introdusse il
               termine in psicologia. Non lo
               sapevi?».«No».Continuo:
               «Sai? Credo nell'erotismo e nel piacere della
               parola, anche la meno aguzza, la meno penetrante, a
               tal punto che riesco a mangiare e a bere solo se
               intanto leggo o scrivo, è più forte di
               me, sono fatta così. I libri freschissimi li
               surgelo! A parte gli scherzi, i medici mi dicono che
               è una nevrosi ossessiva, che deve essere curata
               con cento, mille medicine, da dosare bene in ospedale
               psichiatrico. Ma me ne infischio di coloro che dicono
               non bisogna mai fare due cose in una volta!
               Perché non unire due piaceri-necessità:
               il cibo e la lettura-scrittura? Vedi, per me leggere,
               scrivere sono un'urgenza vitale. È
               strano
se leggo un numero, non riesco a
               pasteggiare contemporaneamente: non si può
               vivere di cifre e formule, ma di lettere, vocaboli,
               frasi, preghiere. Ho deciso, farò la scrittrice
               con lo pseudonimo di Chiara Parola, sarò il
               verbo commestibile e non solo per la mescolanza e
               compenetrazione che cibo e parola hanno nelle mie
               nevrosi. Anche perché con la scrittura mi
               proporrò di comunicare il mio grande amore per
               la letteratura, insegnandola, rendendola di facile
               comprensione agli altri, più appetibile, anche
               a chi ne sa meno di me, come te, i miei genitori, i
               borghesi, tutti innamorati dei numeri e non dei nomi.
               La letteratura è vita. Sceglierò di
               chiamarmi proprio Parola perché sento di
               esistere solo attraverso le parole: io stessa, in
               carne ed ossa, mi trasformerò in una somma di
               parole sotto forma di libro».La mia amica cambia
               argomento: «Ti va di
               ascoltare un po' di Elton John?». «Oh sì,
               piace tanto anche a me! Delle sue canzoni amo non
               tanto i suoni talvolta metallici, troppo artificiali,
               quanto the words, con tutta la loro musicalità.
               Blue eyes, fly away, freedom, only one love, wife, my
               love is impossible, reality is black and white: con
               queste parole, opportunamente controllate sul
               vocabolario, manualmente, scribanamente (e ne invento
               sempre delle nuove), voglio scriverci un libro, anzi,
               tre romanzi, proprio una trilogia».
 
 
 
Genova,
               26 febbraio 1997«Su,
               Francesca, smettila di leggere mentre mangi, dai,
               sbrigati a fare la colazione! Tra poco ti trasferiamo
               in autoambulanza in un ospedale bolognese; così
               sarai più vicina ai tuoi genitori» mi dice
               un medico.
Scoppio in lacrime
               e, mentre gli infermieri mi portano in barella, non
               faccio che gridare con tutte le mie forze:«No, vi prego,
               a Bologna no! La vicinanza ai miei m'impedisce di
               maturare, di crescere, di vivere!». Mettiamoci ora nei
               panni di un estraneo, che abbia letto qualche articolo
               su di me. In questo momento, nell'udire i miei
               lamenti, forse sta pensando:«Ma non si
               vergogna a urlare così, questa ragazza che dai
               genitori ha avuto tutto e che a Bologna
               riceverà da loro coccole, carezze, soldi,
               benessere, comfort? È proprio viziata!».
               Con i miei pianti,
               vorrei rispondergli:«Lei non
               può comprendere quanto mi faccia soffrire
               questo legame simbiotico che mi stringe a mamma e
               papà, da cui sono condannata a dipendere
               sempre». Sull'ambulanza che
               mi sta portando a Bologna (un altro ritorno), cesso di
               singhiozzare e sbraitare. Ho capito tutto troppo
               tardi, di questo trauma che mia madre e mio padre mi
               fecero patire nella pubertà e adolescenza. A
               cosa serviva cambiare nazione, città, albergo,
               monolocale? Sono io, come i miei genitori mi hanno
               voluta, a essere malata dentro. A Bologna gli
               psichiatri soffocheranno con i farmaci la mia rivolta
               giovanile, che si è rivelata patologica, pazza
               ed è sfociata nel delirio. Non mi
               resterà altro che chiudermi in una stanza a
               scrivere monologhi blu, fiume in cui come Narciso mi
               rifletterò. Non devo piangere,
               perché anche a Bologna potrò scrivere.
               Nella mia battaglia per l'autonomia e l'indipendenza
               dai miei, non ho avuto la V della Vittoria. E non mi
               resta che affidarmi a una S, quella della Scrittura.
               Una lettera che è l'iniziale non dei Soldi,
               né del Sesso, ma piuttosto di Souvenir,
               Subconscio, Specchio, Simbolo, Sogno. Sì, a
               Genova, la notte del 23 gennaio 1997, sono morte per
               sempre le trentenni Francesca, Simona e Giovanna, per
               lasciar posto a Chiara Parola, la scrittrice.
               Chissà cosa combinerà
Oh, adesso
               è una piccola neonata. Eh già,
               apprendere a creare è come imparare a
               camminare. La bambina-artista comincerà con lo
               strisciare, poi verranno i primi passi da bebè,
               quindi le cadute
 Quanti fogli butterò nel
               cestino, quante cancellature sui quaderni, quanti
               abbozzi di romanzi farò e
               disferò! |