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- Le onde del
destino
-
- Mario fischiettava allegro mentre appoggiava
l'ultima posata sulla tavola imbandita. Dietro di lui
il coperchio di una pentola borbottava
impazientemente, sospinto dalla pressione del vapore
acqueo. Un profumo inteso ed avvolgente proveniva
invece dal ventre di un forno, dove una faraona stava
arrostendo allegramente. Guardò ansiosamente
l'orologio per l'ennesima volta
- "Ancora una mezz'oretta e saranno a casa"
pensò. Era la prima volta che sua moglie ed i
suoi due figli andavano in ferie da soli. Purtroppo un
lavoro urgente gli aveva impedito di andare con loro e
così aveva passato l'ultima settimana nella
fredda solitudine di una casa insolitamente vuota e
silenziosa.
- Uno squillo tanto insensibile quanto inatteso
infranse la quiete e Mario si affrettò a
rispondere
- "Pronto, chi parla?"
- "Buongiorno, cerco il signor Mario Morelli,
è lei?"
- "Si, sono io, cosa desidera?"
- "Sono il maresciallo Zito, ho l'ingrato compito
di comunicarle che c'è stato un incidente e la
sua famiglia è stata portata all'ospedale
Maggiore..." Mario rimase pietrificato, la cornetta
gli cadde di mano ed iniziò a balbettare
"Ma...Ma...ri...ri...sa...sa" poi una folgore lo
riscosse. Velocemente s'infilò la giacca, prese
le chiavi dell'auto e s'involò in direzione
dell'ospedale. Durante il breve viaggio rimase
concentrato sulla guida non permettendo ad alcun
pensiero di disturbarlo.
- Appena giunto all'ospedale parcheggiò
vicino all'ingresso, disinteressandosi del cartello di
divieto. Correndo raggiunse il pronto soccorso e
chiese ansando ad un'inserviente
- "Sono Mario Morelli, dovrebbero aver portato
qui mia moglie ed i miei figli, hanno avuto un
incidente"
- "Qual è il loro nome?"
- "Marco e Andrea Morelli e Marisa Beretti."
L'addetto scorse l'elenco degli arrivi e divenne
serio
- "Mi spiace ma Marisa Beretti e Marco Morelli
sono giunti già deceduti." A Mario parve che il
mondo si stesse frantumando in mille pezzi "Andrea
Morelli invece è stato portato in sala
operatoria ed è ancora sotto i ferri. Si sieda
in sala di attesa e non appena l'operazione
sarà terminata verrà avvisato."
Disperato e confuso Mario si sedette su una delle
tante sedie disposte nella fredda sala
d'attesa.
- Furono lunghe ed angosciose ore di attesa. La
sua mente era talmente sconvolta da non riuscire a
formulare neppure un pensiero completo. "Marisa non
dovevi... Marco perché sei... Andrea
devi..."
- Parole mozzate si rincorrevano continuamente,
mordendosi le iniziali senza mai trovare una fine: non
era ancora pronto per accettare l'accaduto e non osava
neppure invocare la speranza.
- Ogni caos ha però una fine e quel giorno
si concluse con l'arrivo del chirurgo.
- Mario non ebbe neppure la forza di alzarsi, le
gambe gli tremavano vistosamente, attese quindi seduto
la sentenza.
- Quando però il chirurgo abbassò
la testa, fulmini di follia gli trapassarono il
cervello
- "Mi dispiace signor Morelli..." aveva
già udito abbastanza. Le gambe ritrovarono
un'energia misteriosa e come in un sogno, una folle
visione anzi, un incubo, si ritrovò a correre.
Mario non vedeva, non sentiva e non capiva: qualcun
altro o qual cos'altro stava guidando il suo corpo in
sua vece. La sua mente in quel momento aveva raggiunto
l'unico luogo dove poteva trovare la pace: la
pazzia.
- Il suo ormai ex corpo salì in macchina,
la mise in movimento e la condusse in un'allucinante
corsa verso l'ignoto. Furono trenta chilometri di
sbandate, brusche frenate, guard rail rasentati e auto
sfiorate. L'asfalto si mutò in sabbia, ma
l'auto continuò la sua corsa. Ma proprio come
se fosse stata guidata da una mente sana, l'auto
raggiunse la sua meta e prima che la sabbia si
tramutasse in acqua, si arrestò. Il corpo di
Mario scese con calma e si avviò lungo il
molo.
- Una volta raggiunta la fine della banchina si
fermò, osservò il ribollire impetuoso
delle acque autunnali e si tuffò.
- Inizialmente nuotò con forza verso il
mare aperto, poi quando ritenne di aver raggiunto la
sua meta si lasciò travolgere: fu allora che
Mario riconquistò, decisamente nel momento
sbagliato, la coscienza di sé.
- "Perché la follia mi ha respinto proprio
adesso? Era un luogo così sicuro! Privo di
ricordi e di dolore, perché sono così
sfortunato?"
- Tentò di lasciarsi sopraffare dalle
acque turbinose: ma il suo corpo si rifiutò di
affondare, non era decisamente la sua
giornata!
- Ingoiò molta acqua, ma nonostante i suoi
sforzi i polmoni si rifiutarono di trattenerla e la
sputarono sempre fuori.
- Dopo un tempo all'apparenza interminabile, il
suo corpo fu trascinato a riva, fradicio, esausto ma
vivo. Rimase in quella posizione per molto
tempo.
- Lacrime copiose gli rigavano il viso mentre il
sole del tardo pomeriggio lo asciugava con uno dei
suoi ultimi raggi. A causa del tramonto imminente una
corrente d'aria fredda lo colpì
- "Bisogna che me ne vada altrimenti mi
prenderò una polmonite" costrinse i suoi
muscoli doloranti a rimettersi in movimento
- "Mi avete costretto a vivere ora dovete anche
riportarmi a casa!" disse loro con rabbia. Una volta
in piedi si girò ad osservare il tramonto
infuocato. Il sole era furibondo, rosso di rabbia,
rifiutava di cedere il passo alla notte e le nuvole
bianche parvero incendiarsi sotto il suo sguardo. Il
mare, con un sorriso impertinente, rifletté
quello scontro di titani: la prepotenza del sole, la
paura delle nuvole e la timidezza della notte
avanzante.
- "Per quanto noi ci possiamo adoperare per
creare la bellezza, nulla sarà mai paragonabile
a ciò che crea la natura" fu sul punto di
andarsene, ma qualcosa lo colpì: qualcosa di
giallo in tutto quel rosso panorama. Concentrando
meglio la vista vide cosa aveva attirato la sua
attenzione: un fiore! Una solitaria margherita sfidava
le rocce del molo crescendo in un luogo apparentemente
impossibile. Si avvicinò e non poté
resistere alla tentazione di raccoglierla. La
osservò attentamente parlandole
- "Anche tu come me sei stata abbandonata dai
tuoi simili? Eppure te ne stavi li ritta e fiera
sfidando il destino vero? Chi mi ha dato il diritto di
strapparti al luogo dove vivevi? Chi mi ha rubato la
famiglia? gettò con rabbia il fragile fiore
nell'acqua e l'osservò. Era piccolo. Era
fragile. Era destinato a sparire ben presto: eppure
resisteva. Le acque del pomeriggio, anche se ormai
calme, lo sballottavano continuamente da un luogo
all'altro, eppure continuava a resistere. Onde
fameliche lo soverchiavano eppure lui continuava
ripetutamente a tornare a galla.
- "Certo, un giorno, con il tempo, si
scioglierà. Ma fino a quel giorno
continuerà a resistere. Non si lascerà
morire, sarà il corso naturale degli eventi e
prendersi la sua vita, ma comunque lui
continuerà a lottare fino all'ultimo. Se Dio
vuole questo da noi umani, io non posso certo esimermi
dai miei doveri". Alzò il viso contro il cielo
lasciandosi accarezzare dalla brezza serale e
permettendole di asciugare le ultime lacrime per la
sua vecchia vita.
- Alzò il braccio in segno di saluto verso
il cielo
- "Addio Marisa, addio ragazzi, ci sarà un
giorno in cui ci ritroveremo, ma sembra che
dovrò guadagnarmelo." Disse loro.
- Poi, dopo un momento lungo una vita, si
girò... e ricominciò a vivere.
-

-
-
- La mia morte
-
- Tutto era meraviglioso. La mia vita era
splendida.
- I miei figli erano ormai grandi ed in grado di
sostentarsi da soli ed io ero libera di pensare a me
stessa. Non avrei potuto desiderare un'esistenza
migliore. Almeno fino a quella terribile
estate.
- Pensandoci bene, però forse fu proprio
quella troppa libertà la causa di tutti i miei
guai. Non mi accorsi neppure di aver commesso un
crimine fino a quando non vidi i primi uomini armati
cercarmi.
- Cos'avrei potuto fare? il mio istinto mi spinse
ovviamente a fuggire!. Cercai rifugio nella foresta,
mi nascosi nei suoi meandri più nascosti pur di
sfuggirgli, ma sapevano seguire le mie tracce ed alla
fine mi accerchiarono.
- Sapevo di essere perduta, di non avere
più alcuna via di uscita, ma volli vendere cara
la mia pelle, volli difendere fino all'ultimo la mia
libertà.
- Lanciai un folle urlo di sfida e mi lanciai in
un disperato attacco: non arrivai a toccare neppure
l'uomo più vicino. Qualcosa di sconosciuto mi
colpì alle spalle ed una fitta lancinante mi
squassò il corpo. Forse, nella follia della
disperazione, avrei potuto resistere e combattere fino
alla morte. Ma mi si annebbiò la vista "Mi
hanno colpito al cuore, sono finita, addio figli miei"
pensai prima che l'oscurità scendesse su di
me.
- Ma non ero morta: purtroppo!. Mi avevano solo
addormentata per catturarmi ed imprigionarmi
più facilmente.
- Quando riaprii gli occhi ero confusa e non
capii subito dove ero finita; ma quando vidi le
inferriate davanti a me compresi. No, non ero morta,
ma sarebbe stato meglio che lo fossi: era solo la mia
libertà ad essere morta. Le sbarre che
l'avevano uccisa erano la mia lapide e quel piccolo
paradiso in cui mi avevano rinchiusa era il mio
sepolcro.
- Ovviamente non posso dire che fui trattata
male, anzi, in questo luogo dove ormai mi trovo da
tempo immemorabile presenta tutte le comodità
che potrei desiderare: forse più di quando ero
libera. Il cibo è regolare ed abbondante,
l'ambiente è pulito e tutti mi trattano con il
dovuto rispetto.
- Ma è pur sempre una prigione e per me
che sono innocente equivale all'inferno.
- Ho impiegato molto tempo a capire quale fu il
mio errore, quale colpa mi ha condannato a questa
vita-morte, ed alla fine ho capito. Ho capito che la
mia unica colpa era di essere bella, troppo bella per
essere lasciata in libertà; altrimenti
perché mi avrebbero messo in questa specie di
palcoscenico?
- Tutti i giorni decine di persone passano
davanti alla mia prigione, tutti si fermano e mi
guardano.
- Vedo nelle loro espressioni sentimenti molto
contrastanti: chi esprime curiosità, chi
meraviglia, alcuni con timore, altri con evidente
terrore; qualcuno perfino compassione. Mi chiamano con
molti nomi in molte lingue diverse, ma quella che odio
di più è una: belva.
- Io chiedo a voi che mi insultate con
quell'appellativo: solo perché uccido per
procurarmi il cibo per sfamare i miei figli sarei io
la belva?. Voi che state la fuori invece cosa siete?
Voi che mi avete imprigionato solo per il vostro
capriccio, pensate di essere tanto diversi? Voi che
avete ucciso la mia libertà come quella di
molti altri miei simili, come vi giudicate? Solo
perché vi ritenete superiori pensate di potervi
attribuire il diritto di vita o di morte? Ma è
inutile che continui a parlarvi, non potete capirmi,
siete solo degli animali e seguite il vostro barbaro
istinto. D'altronde come potreste capire una cosa
così semplice, visto che fate le stesse cose
anche ai vostri simili? Torno quindi sotto il piccolo
alberello che mi avete tanto "gentilmente" offerto e
mi stendo per dormire un po': tanto non ho altro da
fare.
-
- All'esterno delle sbarre un bambino,
accompagnato dai genitori, osserva l'enorme tigre
accucciarsi sotto le fronde del piccolo alberello
ponendo nel contempo mille domande ai propri
genitori
- "Come bella! come grande! Perché vive
qui?"
- "Lei non vive qui Luca, delle persone l'hanno
catturata nella giungla dove viveva e l'hanno portata
qui" risponde il padre
- "Perché?"
- "Perché così noi la possiamo
vedere"
- "Non è giusto! Ecco perché
è così triste! È in prigione!" il
padre osserva stupito il ragazzino prima di
rispondere
- "Ma non è in prigione. Qui vive anche
meglio di dove è nata, in questa grande gabbia
hanno ricostruito il posto dove viveva prima e viene
curata ed accudita."
- "Ma le tigri non abitano nella
giungla?"
- "Si" rispose il padre non capendo il motivo di
quella domanda "i bambini a volte sono contorti nei
loro ragionamenti" pensò
- "Ma è così piccola la giungla?"
disse il bimbo
- "Certo che no! è molto più
grande!" rispose il padre confuso, il bimbo
rifletté un poco e poi fece un'altra
domanda
- "È come essere sempre chiusi in quella
bella villa fuori dal nostro paese?"
- "Più o meno" rispose il padre. Il bimbo
divenne serio
- "Io odierei vivere sempre in quella casa. Si
sente decisamente in prigione, glielo leggo negli
occhi!" affermò convinto
- "Ma cosa dici! gli animali non hanno un
pensiero come noi umani, loro seguono il loro istinto
e non si rendono certamente conto di nulla!" disse il
padre che continuò rivolto alla moglie
- "Bisogna che andiamo a parlare con la maestra,
cosa gli insegnano per fargli venire in mente idee
simili?" Proprio in quel momento la tigre emise un
forte ruggito, il bambino si spaventò e la
famiglia decise di andarsene: inoltre così
venne accantonata quell'assurda discussione.
-
- Poco più avanti passarono davanti ad una
gabbia di scimmie ed una di esse si avvicinò
alle sbarre di fronte al bimbo
- "Che sguardo malinconico! chissà cosa
pensa..."
- pensò Luca, ma questa è un'altra
storia.
-
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