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                 L'autobiografia
               come genere letterarioe lo
               scrittore scoprì
               l'Io"di
               Olivia Trioschi «Così parlavo e
               piangevo nell'amarezza sconfinata del mio cuore
               affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una
               voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che
               diceva cantando ripetendo più volte: 'Prendi e
               leggi, prendi e leggi'. Mutai d'aspetto all'istante e
               cominciai a riflettere con la massima cura se fosse
               una cantilena usata in qualche gioco da ragazzi, ma
               non ricordavo di averla udita da nessuna parte.
               Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L'unica
               interpretazione possibile era per me che si trattasse
               di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il
               primo verso che vi avrei trovato. [...].
               Appena terminata la lettura di questa frase, una luce,
               quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e
               tutte le tenebre del dubbio si
               dissiparono».«M'impegno in un'impresa
               senza esempio, e la cui esecuzione non avrà
               imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo
               nella nuda verità della sua natura; e
               quest'uomo sarò io. Io solo. Sento il mio cuore
               e conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di
               quelli che ho incontrati; oso credere di non essere
               come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di
               più, sono almeno diverso. Se la natura abbia
               fatto bene o male rompendo lo stampo nel quale mi ha
               colato, non si può giudicare che dopo avermi
               letto. Suoni pure, quando vorrà, la tromba del
               giudizio finale: io mi presenterò al giudice
               supremo con questo libro fra le
               mani».Quindici secoli separano
               queste voci. Sono voci di uomini che hanno
               intensamente vissuto e segnato la loro epoca, pietre
               miliari nella storia infinita della conoscenza di
               sé, sola strada attraverso cui può
               avvenire la conoscenza del mondo. E sono voci
               autentiche: ciascuno, leggendo queste righe,
               può sentire e sente ancora oggi l'intensa
               passione da cui sono nate, il supremo desiderio di
               verità che le anima. Sono confessioni entrambe:
               e proprio questo, Le confessioni, è il titolo
               dei volumi da cui sono tratte. Gli autori - e a questo
               punto è quasi superfluo ricordarlo - sono
               Agostino, il grande vescovo di Ippona vissuto nel IV
               secolo, e Jean Jacques Rousseau, filosofo e gran
               camminatore, icona sia dell'illuminismo che del
               romanticismo.Le Confessioni, quelle di
               entrambi, appartengono a un genere letterario preciso,
               l'autobiografia. Sentiamo come un critico letterario
               importante, Lejeune, lo ha individuato: «racconto
               retrospettivo in prosa che una persona reale fa della
               propria vita mettendo l'accento sulla vita individuale
               e in particolare sulla storia della sua
               personalità». Questa definizione, forse un
               po' arida come tutto ciò che cerca di
               sistematizzare e catalogare ciò che nasce per
               magica alchimia tra intelligenza ed emotività,
               è però assai utile perché
               consente di porre l'accento su alcuni elementi che
               appartengono solo e soltanto all'autobiografia come
               genere. Chiunque, e sono tanti, cerchi di scrivere di
               sé dovrebbe tener presente che solo il rispetto
               di queste indicazioni di massima fa sì che si
               possa parlare propriamente di
               autobiografia.Intanto si tratta di una
               questione formale: la forma, dice Lejeune, è in
               prosa; poi l'argomento: si tratta della storia di una
               personalità; e infine il rapporto
               autore/narratore: c'è identità tra i due
               - e deve trattarsi di un personaggio reale -
               così come c'è identità tra
               narratore e personaggio principale. Si può poi
               aggiungere, come conseguenza, che trattando il
               narratore della sua storia personale il
               raccontò avrà una visione retrospettiva,
               cioè sarà svolto facendo uso di verbi al
               passato e al contempo di verbi al presente che
               richiamino l'atto dello scrivere. Ci sono poi alcuni
               elementi contenutistici ricorrenti che emergono anche
               dai due brevissimi esempi che abbiamo citato
               all'inizio: l'insistenza sulla sincerità,
               verità e completezza del racconto, segnali
               questi necessari per stabilire un rapporto di fiducia
               col lettore il quale, ricevendo un messaggio che per
               sua natura non è verificabile, deve essere
               indotto a credervi; la consapevolezza della
               novità della propria impresa, l'esaltazione
               della propria individualità, la presenza del
               destinatario (il "voi", gli appelli al lettore
               perché partecipi con esclamazioni e domande
               all'operazione di scrittura).L'autobiografia si configura
               in questo modo come un genere specifico, genere che ha
               conosciuto enorme fortuna, dal punto di vista della
               storia della letteratura, a partire dalla seconda
               metà del Settecento. Si può anzi dire,
               magari forzando un po' la mano, che i quindici secoli
               che separano Rousseau da Agostino sono di silenzio del
               sé - nei termini prima individuati - se si
               eccettuano alcuni esempi (anche clamorosi, basti
               pensare alla famosissima Storia delle mie disgrazie di
               Abelardo). Cosa accade, dunque, sul finire del
               Settecento, che porta gli scrittori a raccontare la
               propria vita, e soprattutto la costruzione della
               propria personalità, come fatto conoscitivo
               irrinunciabile, come esperienza che può e deve
               essere condivisa? Non trattandosi di equazioni
               matematiche è ovviamente impossibile stabilire
               precisi legami di causa-effetto; ciò
               nonostante, si può tentare qualche ipotesi
               partendo dalla considerazione che due fatti si
               innestano tra loro proprio in quel periodo: uno
               appartiene alla storia della mentalità, l'altro
               alla storia politica. Il primo è il
               Romanticismo, il secondo la Rivoluzione Francese.
               È noto come il Romanticismo, la cui culla
               è stata la Germania di Novalis, dei Fratelli
               Grimm, delle saghe medievali, riporta prepotentemente
               l'attenzione su tutto ciò che nella
               personalità umana sfugge al controllo della
               ragione: emozione, sentimento, paure, desiderio. Sturm
               und Drang, tempesta e impeto, era il nome di uno dei
               primi circoli romantici tedeschi. Il tentativo
               è quello di dare un nome anche ai lati oscuri
               dell'animo, alle ombre, ai tormenti; di misurarsi con
               l'immensità della natura sentendosene parte,
               confondendosi in un universo infinito per trovare
               l'Uno e compensare gli opposti. È ciò
               che Friedrich ha messo nel quadro in copertina: l'uomo
               solo di fronte a un mare in tempesta, immerso nelle
               onde fumiganti, stagliato contro il cielo aperto.
               L'uomo che sfida ma cerca anche di comprendere.
               L'altro fatto, la Rivoluzione Francese, porta con
               sé una delusione storica per tutti gli
               intellettuali che avevano creduto con tutto
               l'entusiasmo e la volontà di cui erano capaci
               che davvero si stava aprendo un'era nuova per
               l'umanità, che davvero l'ingiustizia e il
               sopruso sarebbero stati sconfitti per sempre, che
               davvero la fratellanza avrebbe trionfato e mai
               più un uomo avrebbe schiacciato un altro uomo.
               Non fu così, si sa. Quando la Rivoluzione
               rientrò, lasciando tutti nauseati del sangue
               versato, del furore e dell'odio accecante, si
               scoprì che aveva vinto la borghesia, la quale
               aveva da pensare alle proprie botteghe e ai propri
               affari, e solo di striscio ai propri affetti. Il
               contrasto tra stato di natura e storia, già
               tragico per Rousseau, divenne incolmabile. Ed ecco
               allora il ripiegamento in se stessi, la
               necessità di indagare la propria
               interiorità anche come modo per fuggire da un
               mondo tanto ordinato quanto squallido. Di conseguenza
               il modulo privilegiato dell'espressione diventa quello
               della narrazione soggettiva e della confessione, anche
               in forma epistolare: i modelli sono Werther, Ortis
               (protagonisti però di romanzi epistolari e non
               di autobiografie, anche se è noto come in essi
               confluisca gran parte della personalità degli
               autori, Goethe e Foscolo) e ovviamente le Confessioni
               di Rousseau.Torniamo allora a questo
               capolavoro per conoscerlo più da vicino. Come
               si è detto, ci sono tutte le tecniche del
               racconto autobiografico: numerosi sono i segnali della
               veridicità e della trasparenza, anche
               impietosa, dei ricordi; altrettanto numerosi sono gli
               appelli al lettore; si notano i momenti caratteristici
               delle autobiografie: nascita, rapporti familiari,
               sessualità infantile, iniziazione al mondo. Lo
               stile, è stato notato, è una mescolanza
               tra tono elegiaco e tono picaresco che riflette la
               filosofia della storia di Rousseau. Il tono elegiaco,
               prevalente nell'infanzia, esprime il sentimento della
               felicità perduta, del rimpianto per
               un'età in cui il fanciullo (come l'uomo delle
               origini) possedeva la felicità e l'innocenza;
               il tono picaresco domina l'età adulta in quanto
               tempo della riflessione lucida ma anche della
               debolezza, dell'umiliazione e degli espedienti. Il
               passato, dunque, è al contempo il periodo
               benedetto della completezza di sé e quello del
               sonno della ragione; nel presente si vive al contrario
               il sorgere della razionalità e la perdita del
               paradiso. Proprio questo - la perdita del paradiso -
               è uno dei temi che ricorrono con più
               insistenza insieme con quello del rapporto tra essere
               (che coincide con l'innocenza) e apparire (dove
               l'apparenza è invece sinonimo di colpevolezza);
               un altro contenuto significativo è il problema
               del male e dell'ingiustizia, ciò che caccia il
               fanciullo innocente dal paradiso gettandolo in un
               mondo di sopruso e inganno. Tutti temi ben
               esemplificati nel famoso episodio del pettine della
               signorina Lambercier, istitutrice gentile e ferma come
               una madre, la quale punisce il giovane Jean Jacques
               per un delitto (la rottura di un pettine) non commesso
               nonostante tutte le apparenze inducessero al
               contrario. «Immagini il lettore - scrive Rousseau
               - un carattere timido e docile nella vita ordinaria,
               ma ardente, fiero, indomito nelle passioni, un ragazzo
               sempre educato dalla voce della ragione, sempre
               trattato con dolcezza, equità, compiacenza, che
               non concepiva neppure l'ingiustizia e che, per la
               prima volta, ne subisce una così terribile, e
               precisamente dalle persone che egli ama e rispetta di
               più: che capovolgimento di idee! Quale
               scompiglio di sentimenti! [...] Quella prima
               impressione della violenza e dell'ingiustizia mi
               è rimasta così profondamente scolpita
               nell'anima che ogni idea che vi si collega mi ridona
               la mia prima commozione, e quel sentimento, che
               riguarda me nella sua origine, ha preso in sé
               tale consistenza, e si è staccato così
               perfettamente da qualsiasi interesse personale, che il
               mio cuore si infiamma alla visione o al racconto di un
               atto ingiusto, qualunque sia l'oggetto e dovunque sia
               commesso, come se l'effetto ricadesse su di me».
               Rousseau adulto proclama la sua assoluta innocenza con
               il duplice intento di mettere in mostra come
               l'ingiustizia, emersa nell'ambiente più
               accogliente, mette in moto il suo temperamento e lo
               rende nemico di ogni sopruso (riflessione questa nata
               dalla realtà e non da esperienze libresche);
               rileva inoltre come tutto ciò produca un
               effetto nefasto sul fanciullo: si è spenta la
               gioia istintiva di una vita innocente.L'episodio clou, l'evento che
               rivoluziona la vita umana, è un altro elemento
               che caratterizza l'autobiografia.
               L'autore/narratore/protagonista che ripensa alla sua
               vita, o a una fase precisa di essa, individua quel
               momento rivelatore in cui il mondo è apparso in
               una luce diversa, quell'istante chiarificatore che
               come un lampo ha illuminato tutta un'esistenza facendo
               germinare da sé tutta una serie di conseguenze,
               e lo pone al centro della sua narrazione (centro
               ideale, ovviamente, non fisico) dipanando da esso il
               primo e il dopo. Spesso nelle autobiografie questo
               momento viene ricollegato alla lettura di un libro: si
               è visto l'esempio di Agostino, che dalla
               lettura di un passo trae la consapevolezza della
               propria vocazione; lo stesso Rousseau ricorda in
               più luoghi le letture di Plutarco, letture cui
               attribuisce la formazione del suo spirito repubblicano
               e del suo carattere indomito, impaziente di giogo e
               servitù. Ancora a Plutarco si riferisce
               Alfieri, anche lui autore di una celebre Vita, quando
               cita modelli ideali di comportamento, eroi che hanno
               saputo dire e fare alte cose; Werther leggeva Ovidio,
               Ortis Omero. Potremmo chiamare questo topos
               dell'episodio clou "conversione": ovviamente non in
               termini strettamente religiosi (per quanto la propria
               vita andrebbe vissuta con lo stesso impegno e la
               stessa fede di cui si nutre il sentimento religioso)
               ma in termini di profonda comprensione di quella che
               è la propria vocazione: chi sono, cosa voglio
               fare di me, che cosa mi fa sentire davvero vivo.
               Vocazione che può essere realizzata pienamente,
               come nel caso di Agostino, o anche negata: Rousseau
               dichiara apertamente la vita diversa, più
               semplice ma bruciata dal destino, che avrebbe
               voluto.Per Alfieri la scoperta della
               vocazione di scrittore avviene nell'Epoca III della
               sua Vita ed è il risultato di una
               predisposizione che viene da quel momento
               compiutamente perseguita; per Goldoni, che sul finire
               della vita scrive le sue corpose memorie, è una
               forza centripeta - la realizzazione della riforma
               teatrale - che unifica tutte le vicende. Se citiamo
               questi due esempi è perché si tratta
               delle più giustamente note autobiografie
               scritte da italiani dopo le Confessioni di Rousseau ed
               è chiaro, a questo punto, che non è
               possibile prescindere dallo snodo fondamentale del
               grande francese quando si parla dello scrivere di
               sé. Si tratta anche in questi due casi di
               volumi estremamente corposi ma godibilissimi, sia pure
               per motivi diversi. Goldoni rispecchia la
               realtà nella sua dimensione visibile, parla
               diffusamente di incontri, viaggi, luoghi, vita di
               teatro, persone e personaggi e si appaga di
               ciò, creando un mobilissimo e colorato affresco
               della società di fine Settecento, degli
               ambienti colti veneziani e parigini; e tutto
               ciò non tanto con la superficialità che
               pure un grande critico come De Sanctis vi aveva voluto
               vedere ma piuttosto con la sapienza di vita che deriva
               dai tanti anni vissuti (e Goldoni ne aveva ottanta
               quando pose mano alle sue memorie), dal distacco ormai
               tangibile nei confronti delle cose che, si sa,
               verranno lasciate tra breve e dal disincanto che ormai
               impedisce di andare oltre il racconto delle cose nella
               sfera dell'idealità. La Vita alfieriana
               è piuttosto la storia di un'anima: quello che
               viene fuori è un paesaggio interiore, il
               ritratto di un uomo; da questo punto di vista è
               possibile classificarla (come del resto tutte le
               autobiografie) come bildungsroman, romanzo di
               formazione: quella tipologia di romanzo moderno che
               descrive le esperienze attraverso le quali passa il
               protagonista per acquisire consapevolezza della
               propria identità e del proprio destino. La Vita
               è l'opera che conclude la galleria di eroi
               alfieriani con l'ultimo, lui stesso, ormai in grado di
               trasferire letterariamente (nelle tragedie) i suoi
               desideri e la sua concezione agonistica della vita. Il
               tono che ne deriva è risentito ed eroico e crea
               un mito umano che influenzerà profondamente le
               generazioni successive (basti pensare a
               Foscolo).Un altro mito umano è
               Giacomo Casanova, il quale pure si cimenta sul finire
               del Settecento in una voluminosa Storia della mia vita
               che se non è propriamente la storia di una
               personalità può essere senz'altro fatta
               rientrare nel filone autobiografico sia per la
               lontananza dei due tempi (passato/presente) sia per
               l'esatta coincidenza tra il personaggio libertino che
               si muove in ambiente salottieri incontrando
               intellettuali e cortigiane e discorrendo amabilmente
               di letteratura e politica e l'autore delle pagine. E
               anche in questo caso, come si è visto per
               Goldoni, non si tratta di ritratti sommari e
               superficiali ma di un'attenta ricostruzione di
               un'epoca e una società prescindendo da una
               tensione ideale sentita come molto
               lontana.Una declinazione particolare
               del genere autobiografia è il romanzo
               autobiografico. Da un punto di vista tecnico le
               differenze non sono poi eccessive: permangono infatti
               l'identità narratore-protagonista, il narrare
               in prosa con impostazione retrospettiva e,
               soprattutto, la storia della personalità come
               nucleo della vicenda; ciò che salta è
               l'identità autore-narratore, anche se grosse
               fette della vita e della personalità del primo
               finiscono per confluire nel secondo. Tra i più
               significativi romanzi autobiografici moderni non si
               può non ricordare due titoli straordinari,
               entrambi inglesi: Robinson Crusoe di Daniel Defoe e La
               vita e le opinioni di Tristram Shandy di Daniel Defoe.
               Defoe è questo personaggio assolutamente
               singolare che dopo aver fatto il pubblicista decide
               che ha bisogno di soldi per sposare la figlia e
               propone a un editore il seguente patto: io ti consegno
               trecentocinquanta pagine di memorie di un naufrago e
               ti assicuro che avranno grande successo data la
               risonanza che un fatto simile ha appena avuto
               (ovviamente usciranno anonime per avvalorare l'idea
               della testimonianza di vita vissuta), e tu mi dai quel
               che mi serve per la dote. Detto fatto, il Robinson
               esce di lì a poco ed è un successo
               strepitoso grazie al fuoco di fila di invenzioni e
               avventure che si dispiegano in ogni pagina: naufragi,
               pirati, luoghi lontani ed esotici abitati da selvaggi,
               prigionie, fughe e quant'altro si riesce a immaginare.
               Una realtà (perché così viene
               proposto il volume) che però mantiene i
               connotati della fuga nell'immaginario, con in
               più tutta una serie di valori intensamente
               sentiti e condivisi dalla rampante borghesia inglese:
               capacità, operosità, intraprendenza,
               civilizzazione di selvaggi e assoggettamento della
               natura. Certo, a una lettura di secondo livello appare
               anche che Robinson, in realtà, non "vince" la
               natura con oggetti costruiti da lui ma con relitti del
               naufragio e che "civilizza" Venerdì facendone
               il suo schiavo, e tutto ciò ha il colore e il
               sapore del sopruso: ma resta il fatto che si tratta
               del paradigma degli elementi di sopraffazione insiti
               nell'economia di mercato nella sua fase espansiva, e
               ciò non poteva non colpire l'immaginario
               collettivo di una nazione aggressiva e potente come
               l'Inghilterra. Ben diverso il Tristram Shandy, che
               dichiara sin dal titolo come ciò che conti sono
               le opinioni, non le avventure; ciò che il
               protagonista pensa, non la realtà esteriore. E
               difatti è operazione praticamente impossibile
               ricostruire la fabula di questo romanzo scritto in
               prima persona ma in cui, paradossalmente, il
               protagonista non compare che nel III libro dicendo
               comunque assai poco della sua vita (tra l'altro il
               romanzo è incompiuto, si ferma al IX volume e
               non va oltre la fanciullezza di Tristram); si sa molto
               di più degli eventi precedenti la sua nascita,
               raccontati seguendo il filo tortuoso dei suoi pensieri
               con una tecnica straordinariamente moderna che
               più di un secolo dopo verrà chiamata
               flusso di coscienza. E, cosa che non guasta, si tratta
               di una lettura divertente, talvolta spassosa, che non
               soffre assolutamente dei duecento anni passati dal
               momento della scrittura né come linguaggio
               né come stile.L'autobiografia (con tutte le
               sue declinazioni in termini di sottogeneri, come il
               romanzo autobiografico tradizionale e/o epistolare)
               non ha cessato di esercitare il fascino "riscoperto"
               dagli scrittori un paio di secoli fa. Nel Novecento,
               poi, si è assistito al singolare fenomeno
               dell'appropriazione di questo strumento espressivo da
               parte delle donne, che ne hanno fatto anche un momento
               di conoscenza del proprio essere diverse rispetto
               all'universo maschile con risultati di grande
               letteratura. Parlare di sé, in realtà,
               rappresenta un momento altamente consolatorio: e
               quando questo si fonde con una reale sicurezza di
               stile lo scrittore diventa una "porta", un canale
               attraverso il quale passano le emozioni e i travagli
               di tutti. Perché il mondo è fatto di
               tante singole individualità, e solo la
               condivisione degli affetti può far sentire meno
               soli; si vorrebbe però che questo non
               diventasse mercificazione, esibizione sbandierata e
               sgangherata di tante "vite vere" e "vite vissute"
               gettate in pasto a famelici spettatori (non più
               lettori, e questo è un vero guaio) pronti ad
               assorbire tutto senza entrare in empatia con niente e
               nessuno. La vita individuale - l'esperienza
               individuale - è l'unica vera ricchezza che
               all'uomo è dato possedere: è
               straordinario che si riesca a farne patrimonio comune,
               ma è triste e squallido che diventi solo metro
               per misurare audience. Rifarsi a modelli di
               autentiche, grandi autobiografie del passato è
               forse l'unico modo per riappropriarsi di uno strumento
               espressivo eccezionale e dalle potenzialità
               uniche, che va però coltivato con sapienza e
               usato con intelligenza e cuore. 
               
               
                  Olivia
                  Trioschi  
               
               
                  www.club.it/autori/olivia.trioschi  
               
               
 Dal
               libro I de Le Confessioni di J. J.
               RousseauEinaudi,
               Torino, (1978) Ecco il solo ritratto d'uomo,
               dipinto scrupolosamente dal vero e con assoluta
               fedeltà, che esiste, e che probabilmente
               esisterà mai. Chiunque siate voi, che il mio
               destino o la mia fiducia hanno reso arbitro di questo
               scritto, per le mie sventure, per le vostre viscere, e
               a nome dell'intera specie umana, vi scongiuro di non
               distruggere un'opera utile e unica, la quale
               può servire come prima pietra di paragone per
               quello studio degli uomini che certamente si deve
               ancora cominciare, e di non spogliare l'onore della
               mia memoria del solo documento sicuro sul mio
               carattere che i miei nemici non abbiamo sfigurato. E
               anche se foste voi, proprio voi, un mio nemico
               implacabile, smettete d'esser tale verso le mie
               ceneri, e non spingete la crudeltà della vostra
               ingiustizia sino al tempo in cui né io
               né voi saremo più in vita,
               affinché almeno una volta possiate offrirvi la
               nobile dimostrazione d'essere stato generoso e buono
               quando potevate essere maléfico e vendicativo:
               se il male non si fa a un uomo che non ne ha mai fatto
               o voluto fare possa pur prendere il nome di
               vendetta. 
               
               
                  J.J.
                  Rousseau 
                  
                  
                     Libro
                     primo  Intus et in
                  cute.  M'impegno in un'impresa senza
               esempio, e la cui esecuzione non avrà
               imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo
               nella nuda verità della sua natura; e
               quest'uomo sarò io.Io solo. Sento il mio cuore e
               conosco gli uomini. Non sono fatto come nessuno di
               quelli che ho incontrati; oso credere di non essere
               come nessuno di quanti esistono. Se non valgo di
               più, sono almeno diverso. Se la natura abbia
               fatto bene o male rompendo lo stampo nel quale mi ha
               colato, non si può giudicare che dopo avermi
               letto.Suoni pure, quando
               vorrà, la tromba del giudizio finale: io mi
               presenterò al giudice supremo con questo libro
               fra le mani. Gli dirò fieramente: «Ecco
               che cosa ho fatto, che cosa ho pensato, che cosa fui.
               Ho detto il bene e il male con la stessa franchezza.
               Nulla ho taciuto di cattivo, nulla ho aggiunto di
               buono e, se ho usato qua e là qualche
               trascurabile ornamento, l'ho fatto solo per colmare le
               lacune della mia memoria: ho potuto supporre vero
               quanto sapevo che poteva esser stato tale, mai
               ciò che sapevo falso. Mi sono mostrato come
               fui, spregevole e vile quando lo sono stato, buono,
               generoso, sublime, quando lo sono stato: ho svelato il
               mio essere interiore come tu stesso lo hai veduto.
               Essere eterno, raduna intorno a me l'innumerevole
               turba dei miei simili: ascoltino le mie confessioni,
               piangono sulle mie bassezze, arrossiscano per le mie
               miserie. Ciascuno d'essi con la stessa
               sincerità scopra a sua volta il suo cuore ai
               piedi del tuo trono: e poi uno solo ti dica, se ne ha
               il coraggio: "Io fui migliore di
               quell'uomo"».Sono nato a Ginevra nel 1712,
               da Isaac Rousseau, cittadino, e da Suzanne Bernard,
               cittadina. La divisione fra quindici figli d'un
               patrimonio men che mediocre avendo ridotto a nulla o
               quasi la parte di mio padre, questi non aveva per
               vivere che il suo mestiere di orologiaio, nel quale
               per la verità eccelleva. Mia madre, figlia del
               ministro Bernard, era più ricca: aveva
               onestà e bellezza, e mio padre non l'aveva
               ottenuta senza difficoltà. I loro amori avevano
               avuto inizio quasi con le loro esistenze: già
               fra gli otto e i nove anni andavano insieme ogni sera
               sulla Treille, a dieci anni non potevano più
               staccarsi. La simpatia, l'armonia delle anime
               approfondì il sentimento nato dall'abitudine.
               Entrambi, nati teneri e sensibili, non aspettavano che
               il momento di scoprire in un altro le stesse
               disposizioni o, meglio, quel momento attendeva loro; e
               ciascuno dei due riversò il suo cuore nel primo
               che si aprì a riceverlo. La sorte, che pareva
               opporsi alla loro passione, non fece che ravvivarla.
               Il giovane innamorato, non potendo ottenere la sua
               donna, si struggeva di dolore: lei gli
               consigliò di dimenticarla viaggiando. Egli
               viaggiò senza frutto, e tornò più
               innamorato di prima. Ritrovò tenera e fedele la
               ragazza che amava. Dopo simile prova, non restava che
               amarsi per la vita. Lo giurarono, e il cielo
               benedì il loro giuramento.Grabriel Bernard, fratello di
               mia madre, s'innamorò di una sorella di mio
               padre. Ma la condizione posta da lei fu che avrebbe
               sposato il fratello solo se suo fratello ne avesse
               sposata la sorella.L'amore pose rimedio a tutto,
               e i due matrimoni si celebrarono nello stesso giorno.
               Mio zio materno era perciò marito di mia zia
               paterna, e i loro figli furono doppiamente miei cugini
               germani. Ne nacque uno a entrambe le coppie in capo a
               un anno.Poi bisognò ancora
               separarsi.Mio zio Bernard era
               ingegnere: andò a servire nell'Impero e in
               Ungheria agli ordini del principe Eugenio. Si distinse
               nell'assedio e alla battaglia di Belgrado. Mio padre,
               dopo la nascita del mio unico fratello, partì
               per Costantinopoli, dov'era chiamato, e divenne
               orologiaio del Serraglio. Mentre era lontano, la
               bellezza di mia madre, la sua intelligenza, i suoi
               doni le attirarono vari omaggi. Il signor della
               Closure, residente in Francia, fu tra i più
               premurosi a offrirgliene. La sua passione doveva
               essere ardente davvero, se ancora trent'anni dopo l'ho
               visto commuoversi parlandomi di lei. Per difendersi,
               mia madre aveva uno scudo più sicuro della
               virtù: il suo tenero amore per il marito. Lo
               pregò di tornare: lui lasciò tutto e
               rimpatriò. Fui io il triste frutto di quel
               ritorno. Nacqui, dieci mesi dopo, debole e malaticcio;
               costai la vita a mia madre, e la mia nascita fu la
               prima delle mie sventure.Non ho mai saputo come mio
               padre sopportò quella perdita, ma so che non se
               ne consolò mai. Credeva di rivederla in me,
               senza poter dimenticare che gliel'avevo tolta io: non
               mi abbracciò mai senza ch'io non sentissi dai
               suoi sospiri, dai suoi abbracci convulsi, che un
               rimpianto amaro s'insinuava nelle sue carezze: erano
               perciò anche più tenere. Quando mi
               diceva: «Jean-Jacques, parliamo di tua
               madre», io gli dicevo: «Ebbene, babbo,
               dunque ora piangeremo»; e bastava questa parola a
               strappargli le lagrime.«Oh! - gemeva,
               ridammela, consolami di lei, colma il vuoto che mi ha
               lasciato nell'animo. Ti amerei così se tu non
               fossi che mio figlio?» Quarant'anni dopo che
               l'aveva perduta, egli morì fra le braccia di
               una seconda moglie, ma col nome della prima sulle
               labbra e la sua immagine nel profondo del
               cuore.Tali furono gli autori della
               mia vita. Di tutti i doni che il cielo gli aveva
               accordati, un cuore sensibile è l'unico che
               essi mi trasmisero: ma esso aveva fatto la loro
               felicità, e fu la fonte di tutte le mie
               sventure.Ero nato quasi morente:
               disperavano di salvarmi. Portai in me il germe di un
               male che poi gli anni rafforzarono, e che ora non mi
               dà quale momento di sollievo e per lasciarmi
               soffrire più crudelmente in un'altra maniera.
               Una sorella di mio padre, ragazza amabile e savia, mi
               curò tanto che mi salvò.Nel momento in cui scrivo
               queste pagine, ella vive ancora, e, all'età di
               ottant'anni, assiste un marito più giovane, ma
               consumato dal vino. Cara zia, vi perdono di avermi
               costretto a vivere, e mi addolora non potervi
               ripagare, al termine della vostra vita, le cure che mi
               avete prodigato all'inizio della mia. Anche
               Jacqueline, la mia balia, vive ancora, sana e robusta.
               Le mani che mi aprirono gli occhi alla mia nascita
               potranno chiuderli alla mia morte.Sentii prima di pensare:
               è la sorte comune degli uomini. Ne feci la
               prova più d'ogni altro. Non so quel che feci
               sino a cinque o sei anni, non so come imparai a
               leggere, ricordo soltanto le mie prime letture e
               l'effetto che produssero su me: è il tempo al
               quale faccio risalire senza più interruzioni la
               coscienza di me stesso. Mia madre aveva lasciato dei
               romanzi. Ci mettemmo a leggerli dopo cena, mio padre e
               io. Da principio, si trattava solo di esercitarmi alla
               lettura con qualche libro divertente; ma in breve
               l'interesse divenne così vivo che leggevamo
               alternandoci senza riposo, e trascorrevano le notti in
               quella occupazione. Non potevamo staccarcene che a
               volume finito. Qualche volta mio padre, sentendo al
               mattino le rondini, diceva tutto vergognoso:
               «Andiamo a letto: sono più bambino di
               te!»In breve tempo, non tardai ad
               acquistare, con quel pericoloso metodo, non solo una
               facilità estrema di leggere e di capire me
               stesso, ma una intelligenza delle passioni unica per
               la mia età. Non avevo nessun'idea delle cose, e
               già conoscevo tutti i sentimenti.Non avevo concepito nulla, e
               avevo sentito tutto. Le emozioni confuse, che provavo
               una dopo l'altra, non mi guastavano la ragione, che
               ancora non avevo; ma me ne plasmarono una d'una tempra
               diversa, e m'ispirarono intorno alla vita umana idee
               bizzarre e romanzesche, dalle quali esperienza e
               riflessione non mi hanno mai potuto guarire del
               tutto.I romanzi finirono con
               l'estate del 1719. L'inverno seguente, ci fu ben
               altro. Esaurita la biblioteca di mia madre, ricorremmo
               alla parte di quella di suo padre ch'era toccata in
               eredità a noi.Per nostra fortuna, vi si
               trovarono libri buoni, né poteva essere
               diversamente, trattandosi di una raccolta messa
               insieme bensì da un ministro e anche dotto,
               come allora era di moda, ma uomo di buon gusto e
               d'ingegno. La Storia della Chiesa e dell'Impero di Le
               Sueur, il Discorso sulla storia universale di Bossuet,
               gli Uomini illustri di Plutarco, la Storia di Venezia
               del Nani, le Metamorfosi di Ovidio, La Bruyère,
               i Mondi di Fontenelle, i suoi Dialoghi dei Morti e
               alcuni tomi di Molière furono trasportati nel
               laboratorio di mio padre, e io li leggevo ogni giorno,
               mentre lui lavorava. Vi presi un piacere raro, e forse
               unico per quell'età.Plutarco soprattutto divenne
               la mia lettura favorita. Il godimento che ne provavo,
               non stancandomi di rileggerlo, mi guarì un po'
               dai romanzi; e in breve preferii Agesilao, Bruto,
               Aristide a Orondate, Artamene e Giuba. Attraverso
               quelle letture appassionanti, e le discussioni che
               occasionavano fra mio padre e me, si formò
               quell'animo libero e repubblicano, quel carattere
               indomito e fiero, intollerante di giogo e di
               schiavitù, che mi ha tormentato tutto il tempo
               della mia vita nelle condizioni meno propizie a dargli
               impulso. Continuamente assorto in Roma e Atene,
               vivendo per così dire nella compagnia degli
               uomini grandi di quelle città, nato anch'io
               cittadino di una repubblica e figlio di un padre in
               cui l'amor di patria era la passione dominante,
               m'infiammavo al suo esempio, mi credevo Greco o
               Romano, diventavo il personaggio di cui leggevo la
               vita: il racconto degli episodi di costanza e di
               coraggio che mi avevano commosso mi faceva scintillare
               gli occhi e irrobustire la voce. Un giorno che
               raccontavo a tavola l'episodio di Muzio Scevola,
               restarono tutti impietriti dallo spavento vendendomi
               avanzare e mettere la mano sul braciere per
               rappresentare il suo gesto.Avevo un fratello di sette
               anni maggiore di me; imparava il mestiere di mio
               padre. L'immenso affetto che aveva per me glielo
               faceva un po' trascurare, e non è cosa che
               approvi. La sua educazione risentì di quella
               trascuratezza. Prese la china del libertinaggio, anche
               prima dell'età in cui si sia libertini
               davvero.Lo misero a lavorare da un
               altro padrone, e anche di là continuava le sue
               scappatelle come dalla casa paterna. Non lo vedevo
               quasi mai, appena posso dire di averlo conosciuto. Non
               per questo lo amavo meno teneramente, e lui amava me
               come un monello può voler bene a qualche cosa.
               Mi ricordo che, una volta che mio padre lo puniva
               aspramente, e con ira, io mi lanciai impetuosamente
               fra quei due, abbracciandolo stretto. Così lo
               riparai col mio corpo, prendendo su di me le percosse
               destinate a lui, e mi ostinai in quella posizione
               finché mio padre dovè fargli grazia, sia
               perché disarmato dai miei strilli e dalle mie
               lagrime, sia per non malmenare me più di lui.
               Mio fratello finì poi talmente male che
               fuggì e scomparve per sempre. Qualche tempo
               dopo si seppe ch'era in Germania. Non scrisse una
               volta sola.Da quel tempo non si ebbero
               più sue notizie, ed ecco come sono rimasto
               figlio unico.Se l'educazione di quel
               povero ragazzo fu negletta, non fu così di suo
               fratello, e i figli dei re non potrebbero essere
               curati con maggior zelo di me, nei miei primi anni:
               idolatrato da tutti coloro che mi circondavano, e
               trattato sempre, caso molto più raso, ragazzo
               amato, mai da ragazzo viziato. Non una volta,
               finché non abbandonai la casa paterna, mi si
               lasciò correre solo nella strada con gli altri
               ragazzi; mai in me si dové reprimere o
               soddisfare qualcuno di quei fantastici capricci che
               vengono attribuiti alla natura e che nascono tutti
               solo dall'educazione. Avevo i difetti della mia
               età: ero chiacchierino, goloso, qualche volta
               bugiardo. Posso aver rubato frutta, dolciumi, roba da
               mangiare, ma non presi mai gusto a far del male, a
               rompere, a incolpare gli altri, a tormentare povere
               bestie. Ricordo, però, che una volta orinai
               nella pentola di una nostra vicina, la signora Clot,
               mentre lei era al sermone. Confesso anzi che il
               ricordo mi fa ridere tuttora, perché la signora
               Clot, buona diavola per il resto, era la donna
               più bisbetica che ho mai conosciuto. Ecco la
               breve e veridica storia di tutte le mie malefatte
               infantili.E come sarei divenuto cattivo
               con gli esempi di dolcezza che avevo sempre sotto gli
               occhi e circondato dalla migliore gente del
               mondo?Mio padre, mia zia, la mia
               «tata», i miei parenti, i nostri amici, i
               nostri vicini, tutto quel che mi circondava non
               obbediva a me, è vero, ma mi voleva bene, e io
               egualmente. Le mie volontà erano così
               poco eccitate e contrariate che neppure mi veniva in
               mente di averne. Posso giurare, che finché non
               mi si impose la soggezione a un padrone, non seppi che
               cosa fosse capriccio. Tolto il tempo che passavo a
               leggere o a scrivere presso mia padre e quello in cui
               la mia bambinaia mi portava a passeggio, stavo sempre
               con la zia a vederla ricamare, a sentirla cantare,
               seduto o in piedi vicino a lei, ed ero contento. La
               sua allegria, la sua dolcezza, la sua piacevole
               fisionomia, mi lasciarono sì forti impressioni,
               che ne vedo ancora l'espressione, lo sguardo, gli
               atteggiamenti: mi ricordo le sue brevi frasi
               carezzanti, saprei dire com'era vestita e pettinata,
               senza dimenticare i due uncinetti che i suoi capelli
               neri le facevano sulle tempie, alla moda di
               allora.Sono convinto d'esserle
               debitore del gusto o, meglio, della passione per la
               musica, che in me si è sviluppata solo
               più tardi.Ella conosceva una
               quantità straordinaria di ariette e di canzoni,
               che cantava con un esile filo di dolcissima voce. La
               serenità d'anima di quella ottima ragazza
               allontanava da lei e da tutto ciò che le stava
               intorno l'inquietudine e la tristezza. Per me
               l'attrattiva del suo canto fu tale che non solo molto
               sue canzoni mi son sempre rimaste nella memoria, ma,
               oggi che l'ho perduta, me ne tornano ancora altre che,
               totalmente dimenticare dopo l'infanzia, si ravvivano
               via via che invecchio, con un fascino che non so
               esprimere. Chi mai penserebbe che io, vecchio
               brontolone, tormentato da afflizioni e affanni, mi
               sorprendo qualche volta a piangere come un bambino
               canticchiando quelle ariette con una voce già
               spezzata e tremolante? Ce n'è una, soprattutto,
               di cui mi è tornata per intero l'aria; ma la
               seconda metà delle parole si è ostinata
               a sfuggire ad ogni mio sforzo per riafferrarla,
               sebbene confusamente me ne tornino le rime. Ecco
               l'esordio, e quanto ho potuto ricordarmi del
               rimanente: 
               
               
                  Tircis, je
                  n'oseÉcouter ton
                  chalumeauSous l'ormeau;Car on en
                  causeDéjà dans
                  notre hameau;............................................................
                  un berger........................
                  s'engager........................
                  sans danger,Et toujours l'épine
                  est sous la rose.  Cerco di capire dove sia il
               tenero incanto che il mio cuore sente in questa
               canzone: è un capriccio in cui non capisco
               un'acca, ma mi è impossibile cantarla sino
               all'ultimo senza che le lagrime mi fermino. Ho pensato
               cento volte di scrivere a Parigi per fa cercare il
               resto delle parole, se pure vi è qualcuno che
               ancora le conosce. Ma quasi sicuramente la gioia che
               provo a ricordarmi quest'aria svanirebbe in parte, se
               avessi la prova che altri l'hanno cantata, oltre alla
               povera zia Suzon.Tali furono le prime passioni
               del mio ingresso nella vita: cominciava così a
               formarsi e a rivelarsi in me quel cuore a un tempo
               così fiero e così tenero, quel carattere
               effeminato eppure indomito, che, ondeggiando sempre
               fra timidezza e coraggio, fra debolezza e
               virtù, mi ha messo sino all'ultimo in
               contraddizione con me stesso, e ha fatto sì che
               l'astinenza e la voluttà, il piacere e la
               saggezza mi siano sfuggiti egualmente.Questa specie di educazione
               fu interrotta da un accidente, le cui conseguenze
               influirono sul resto della mia vita. Mio padre ebbe un
               alterco con un certo signor Gautier, capitano in
               Francia e imparentato con gente del Consiglio.
               Gautier, uomo insolente e vile, ne uscì col
               sangue al naso e, per vendetta, accusò mio
               padre di aver messo mano alla spada nella cerchia
               cittadina. Mio padre, che volevano mandare in
               prigione, si ostinava a chiedere che, secondo la
               legge, l'accusatore vi si chiudesse anche lui: non
               avendolo ottenuto, preferì andar via da
               Ginevra, ed espatriare per il resto della sua vita
               piuttosto che cedere sopra un punto in cui gli
               parevano compromessi onore e
               libertà.Restai sotto la tutela di mio
               zio Bernard, addetto allora alle fortificazioni di
               Ginevra. Sua figlia maggiore era morta, ma egli aveva
               un figlio della mia stessa età. Andammo insieme
               a Bossey, in pensione presso il ministro Lambercier,
               per impararvi, col la tino, tutta la minuta
               cianfrusaglia che l'accompagna col nome di
               educazione.Due anni trascorsi in quel
               villaggio addolcirono un po' la mia asperità
               romana, e mi riportarono alla condizione di
               fanciullo.A Ginevra, dove nulla m'era
               imposto, mi piaceva leggere e studiare. Era il mio
               solo divertimento, o quasi. A Bossey il lavoro mi fece
               amare i giochi che gli servivano di ricreazione. La
               campagna era per me così nuova che non potevo
               stancarmi di goderne.Ebbi per lei una passione che
               non si è potuta mai spegnere. Il ricordo dei
               giorni felici che vi trascorsi mi ha fatto rimpiangere
               quel soggiorno e le sue gioie, in ogni età,
               fino a quella che mi ci ha riportato. Il signor
               Lambercier era un uomo di gran buon senso, che, senza
               trascurare la nostra istruzione, non ci soffocava con
               doveri eccessivi. La sua abilità è
               attestata dal fatto che, nonostante il mio odio per
               ogni imposizione, non mi sono mai ricordato con
               disgusto le mie ore di studio e che, se non appresi da
               lui molte cose, quel che imparai lo imparai
               facilmente, e non l'ho mai dimenticato.La semplicità della
               vita campestre mi procurò un beneficio
               inestimabile aprendo il mio cuore all'amicizia. Sino a
               quel momento non avevo conosciuto che sentimenti
               sublimi, ma immaginari. L'abitudine alla vita in
               comune, in uno stato pacifico, mi unì
               teneramente a mio cugino Bernard. In poco tempo ebbi
               per lui sentimenti più affettuosi di quelli
               già avuti per mio fratello, che non si sono mai
               più cancellati. Era un ragazzone alquanto magro
               e smilzo, d'animo mite quanto debole di corpo, e non
               abusava troppo della predilezione che si aveva per lui
               nella casa, come figlio del mio tutore. I nostri
               studi, i nostri svaghi, i nostri gusti erano gli
               stessi: eravamo soli, della stessa età, a
               ciascuno di noi due ci voleva un compagno: separarci
               era, in qualche modo, distruggerci. Benché
               avessimo scarse occasioni di metterlo alla prova, il
               nostro affetto reciproco era grandissimo, e non solo
               non potevamo vivere un istante separati, ma non
               immaginavamo neppure che potessimo esserlo mai.
               Entrambi facili alle carezze, compiacenti quando non
               si voleva costringerci, andavamo d'accordo su tutto.
               Se, favorito da coloro che ci educavano, egli
               conservava alla loro presenza qualche ascendente sopra
               di me, da soli ne avevo uno su di lui che ristabiliva
               l'equilibrio. Quando egli esitava, nelle ore di
               studio, gli suggerivo la lezione; quando il mio tema
               era pronto, lo aiutavo a fare il suo e, nei nostri
               svaghi, la mia passione più vivace gli serviva
               sempre da guida. Insomma, i nostri due caratteri si
               accordavano così, bene e l'amicizia che ci
               univa era così schietta che, nei cinque anni e
               più che fummo quasi inseparabili, sia a Bossey
               sia a Ginevra, spesso ci picchiammo, lo ammetto, ma
               non ci fu mai bisogno di dividerci, mai un nostro
               litigio durò più di un quarto d'ora, e
               mai una volta ci accusammo l'un l'altro d'una colpa.
               Queste considerazioni si potrebbero anche dir puerili;
               pure, ne balza un esempio forse unico da quando
               esistono ragazzi.Il mondo in cui vivevo a
               Bossey mi conveniva talmente che solo il fatto di non
               esser durato più a lungo gl'impedì di
               fissare in maniera perenne il mio carattere. I
               sentimenti teneri, affettuosi, pacifici ne facevano il
               fondo. Credo che mai individuo della nostra specie
               ebbe per natura meno vanità di me. A balzi
               toccavo i sentimenti sublimi, ma subito ripiombavo nel
               mio torpore. Essere amato da chiunque mi avvicinasse
               era il mio più vivo desiderio.Ero mite, mio cugino anche, e
               coloro che mi educavano parimenti.Per due anni interi non fui
               né testimone né vittima di un eccesso di
               violenza. Tutto concorreva a nutrire nel mio cuore le
               disposizioni ricevute dalla natura. Non conoscevo
               nulla di più gradevole che veder tutti contenti
               di me e di tutto. Mi ricorderò sempre che al
               tempio, nel rispondere al catechismo, nulla mi
               turbava, se mi capitava di esitare, come il vedere
               segni di inquietudine e di pena sul viso della
               signorina Lambercier. Ciò solo bastava ad
               affliggermi, anche più della vergogna di
               sbagliare in pubblico, che pur mi accorava
               all'estremo. E, infatti, poco accessibile alle lodi,
               lo fui sempre molto alla vergogna; e posso qui dire
               che il timore dei rimproveri della signorina
               Lambercier mi angustiava meno del timore di
               rattristarla.Ciò nonostante, ella
               non mancava all'occorrenza di severità, al pari
               di suo fratello. Ma, poiché questa
               severità, quasi sempre giusta, non era mai
               esagerata, me ne affliggevo, ma non mi ribellavo. Mi
               rincresceva più di scontentare che d'esser
               punito, e un segno di malcontento era per me una
               ferita più crudele d'un castigo corporale.
               È un vero imbarazzo spiegarmi meglio, eppure
               è necessario. Come si cambierebbe di metodi coi
               giovani, se si valutassero meglio gli effetti lontani
               di quello che si impiega senza discernimento e spesso
               indiscretamente! La grande lezione che si può
               ricavare da un caso comune quanto funesto mi convince
               a riferirlo.La signoria Lambercier, che
               aveva per noi un affetto di madre, ne aveva anche
               l'autorità, e questo la induceva a darci
               qualche volta il castigo che si dà ai bambini,
               quando l'avevamo meritato. Si limitò lungamente
               alla minaccia, e questa minaccia di un castigo per me
               del tutto nuovo mi pareva spaventosa.Ma, dopo averlo subito, lo
               trovai meno terribile di quanto non temessi, e
               più strano ancora è che quel castigo mi
               affezionò anche più a chi me l'aveva
               inflitto. Ci voleva proprio tutta la verità di
               questo affetto e tutta la mia mite natura per
               impedirmi di cercare di attirarmi ancora un tal
               castigo; perché nel dolore, nella stessa
               vergogna avevo scoperto un misto di voluttà che
               mi aveva lasciato più desiderio che timore di
               provarlo nuovamente per opera della stessa mano. Vero
               è che, insinuandosi in tutto ciò qualche
               precoce istinto del sesso, il medesimo castigo non mi
               sarebbe piaciuto egualmente riceverlo dalla mano del
               fratello di lei. Ma, dato il suo umore, non c'era da
               temere una tal sostituzione; e, se mi astenevo dal
               meritare la correzione, era unicamente per paura di
               scontentare la signorina Lambercier. Tale, infatti,
               è in me l'imperio della benevolenza, anche di
               quella che fanno nascere i sensi, ch'essa dettò
               sempre loro la legge nel mio cuore.La recidiva, che allontanavo
               senza temerla, arrivò senza colpa mia o,
               meglio, senza mia volontà, e la gustai, posso
               dire, con la coscienza tranquilla. Ma la seconda fu
               anche l'ultima, perché la signorina Lambercier,
               essendosi indubbiamente accorta da qualche indizio che
               il castigo non otteneva lo scopo, dichiarò di
               rinunziarvi e che la stancava troppo. Fin lì
               avevamo dormito nella camera di lei, e qualche volta,
               d'inverno, persino nel suo letto.Due giorni dopo ci
               trasferirono in una stanza a parte; e dal quel momento
               ebbi l'onore, di cui mi sarei privato volentieri,
               d'essere trattato da lei da ragazzo fatto.Chi crederebbe che quel
               castigo da bambino, ricevuto a otto anni da una donna
               di trenta, abbia deciso dei miei gusti, dei miei
               desideri, delle mie passioni, di me, per il resto
               della mia vita, e precisamente in modo opposto a
               quello che sarebbe dovuto naturalmente derivarne? Nel
               momento in cui si accesero i miei sensi, i miei
               desideri caddero in tale inganno che, limitati alla
               sensazione già provata, non s'interessarono di
               cercare altra causa.Con un sangue che bruciava di
               sensualità quasi dalla nascita, mi conservai
               puro da ogni macchia fino all'età in cui si
               manifestano i temperamenti più freddi e
               più tardivi. Lungamente tormentato senza
               saperne il motivo, divoravo con occhi ardenti le belle
               donne: la mia immaginazione non si stancava di
               richiamarmela, ma solamente per farle agire a mia
               guisa, e trasformarle in altre in altrettante
               signorine Lambercier.Anche dopo l'età
               nubile, quel gusto bizzarro, sempre persistente e
               spinto sino alla depravazione, sino alla pazzia, mi ha
               sempre conservato onesti i costumi, di cui sembrerebbe
               che avesse dovuto privarmi. Se mai educazione fu
               modesta e casta, tale fu sicuramente quella che
               ricevetti io. Le mie tre zie non solo erano persone di
               esemplare onestà, ma di un riserbo da gran
               tempo sconosciuto alle donne. Mio padre, uomo
               godereccio, ma galante all'antica moda, non ha mai
               tenuto, con le donne che più gli piacevano,
               discorsi cui una vergine avesse potuto arrossire, e
               mai si è osservato come nella mia famiglia e
               alla mia presenza il rispetto dovuto ai fanciulli. Non
               trovai meno scrupolo sullo stesso soggetto in casa del
               signor Lambercier, e un'ottima domestica ne fu
               cacciata solo per una parola un po' sboccata che si
               lasciò sfuggire davanti a noi. Non solo non
               ebbi sino alla adolescenza nessuna idea distinta
               sull'unione dei sessi, ma questa idea confusa non mi
               si presentò mai che sotto un'immagine odiosa e
               di disgusto.Avevo per le donne pubbliche
               un orrore che mai si è cancellato.Non potevo vedere un
               dissoluto senza sdegno, persino senza timore; e la mia
               avversione per la vita licenziosa giungeva sino a
               questo punto da quando, andando un giorno al
               Petit-Sacconex per una strada incassata, vidi sui due
               lati alcuni fossi nel terreno, dove mi dissero che le
               genti del luogo scendevano ad accoppiarsi.Gli amori canini che avevo
               visti mi tornavano sempre in mente pensando agli
               altri, e mi sentivo stomacare al solo
               ricordo.Questi pregiudizi
               dell'educazione, atti per sé a ritardare le
               prime esplosioni di un temperamento combustibile,
               furono aiutati, come ho detto, dalla diversione che
               operarono su di me le prime avvisaglie della
               sensualità. Non sapendo immaginare null'altro
               fuorché le sensazioni provate, nonostante
               alcune effervescenze di sangue assai moleste,
               rivolgevo i desideri solo verso il tipo di
               voluttà che mi era nota, senza mai pensare a
               quella che mi era stata resa odiosa, e che era
               così prossima all'altra senza che ne avessi il
               minimo sospetto. Nelle mie stolte fantasie, nei miei
               erotici furori, negli atti inconsueti ai quali essi mi
               spingevano qualche volta, prendevo in prestito con
               l'immaginazione l'aiuto dell'altro sesso, senza mai
               pensare che si prestasse a un uso diverso da quello
               che ardevo di ricavarne.Non solo, dunque, con un
               temperamento più che ardente, lascivo e
               precoce, superai la pubertà senza desiderare,
               senza conoscere altri piaceri dei sensi tranne quelli
               che la signorina Lambercier mi aveva con assoluta
               innocenza rivelati; ma, quando finalmente il passar
               degli anni mi ebbe fatto uomo, fu ancora quel che
               doveva perdermi a salvarmi. Il mio vecchio vizio di
               ragazzo, anziché svanire, si fuse nell'altro al
               punto che non mi riuscì di rimuoverlo
               interamente dalle voglie accese dai miei sensi, e
               quella follia, congiunta alla mia naturale timidezza,
               mi rese sempre poco intraprendente con le donne, non
               osando dir tutto e non potendo osar tutto,
               giacché quel genere di godimento, di cui
               l'altro per me non era che il termine supremo, non
               può essere usurpato da chi lo desideri
               né immaginato da colei che può
               accordarlo. Così ho passato la mia vita
               struggendomi di brame e tacendo vicino alle persone
               che più amavo. Non osando mai confessare il mio
               gusto, lo lusingavo almeno con atti che me ne
               conservavo l'idea.Gettarmi alle ginocchia
               d'un'amante imperiosa, obbedire ai suoi ordini,
               doverle chiedere spesso perdono, erano per me
               dolcissime gioie, e più la mia vivace
               immaginazione mi accendeva il sangue più avevo
               l'aria di un amante intimorito. È evidente che
               un tal modo di fare all'amore non porta a rapidissimi
               progressi, e non è troppo insidioso per la
               virtù delle persone che ne costruiscono
               l'oggetto. Ho, dunque, posseduto pochissime donne, ma
               non ho mancato di goder molto, a modo mio, ossia con
               l'immaginazione.Ecco come i miei sensi,
               d'accordo col mio timido temperamento e con la mia
               fantasia romanzesca, mi hanno conservato sentimenti
               puri e costumi onesti, pur con i medesimi gusti che,
               accompagnati forse da un po' più di
               disinvoltura, mi avrebbero travolto nei più
               brutali piaceri dei sensi.Ho fatto il primo e
               più penoso passo nel buio e fangoso labirinto
               delle mie confessioni. Non quel che è
               delittuoso costa maggior fatica a dirsi, ma quel che
               è comico e vergognoso. D'ora in poi sono sicuro
               di me: dopo quanto ho osato dire, nulla può
               più fermarmi. Si valuterà quanto mi
               siano costate simili confessioni, considerando che,
               nell'intero corso della mia vita, travolto talora,
               accanto alle donne che amavo, dai furori di una
               passione che mi privava della facoltà di
               vedere, di udire, fuori di me e còlto da un
               tremito convulso in tutto il corpo, non mi
               riuscì mai a manifestare la mia pazzia e
               d'implorare da loro, nella più stretta
               intimità, il solo favore che mancasse agli
               altri. Questo mi capitò una volta sola nella
               mia infanzia, con una ragazza della mia età; e
               fu lei stessa a farmene la prima proposta.Risalendo così ai
               primi indizi del mio essere sensibile, trovo elementi
               che, pur sembrando a volte inconciliabili, non
               mancarono di combinarsi insieme per produrre con forza
               un effetto semplice e uniforme; e ne trovo altri che,
               pur essendo in apparenza gli stessi, produssero, col
               concorso di talune circostanze, combinazioni
               così differenti che non ci s'immaginerebbe mai
               che ci fosse qualche rapporto tra loro. Chi
               crederebbe, ad esempio, che uno fra gli stimoli
               più energici nella mia anima sia scaturito
               dalla medesima sorgente dalla quale scesero nel mio
               sangue lussuria e mollezza? Senza allontanarsi
               dall'argomento di cui ho parlato, se ne vedrà
               nascere ora un'impressione ben diversa.Un giorno, me ne stavo solo a
               studiare la mia lezione nella camera attigua alla
               cucina. La domestica aveva messo ad asciugare i
               pettini della signorina Lambercier sul frontone del
               camino.Quando tornò a
               riprenderli, ne trovò occato il pettine. Il
               signore e la signorina Lambercier si mettono insieme,
               mi esortano, insistono, minacciano; io persisto,
               ostinato; ma l'evidenza era troppo palese, e l'ebbe
               vinta su ogni mia protesta, benché fosse la
               prima volta che mi trovassero tanta audacia nel
               mentire. La cosa venne presa sul serio e meritava di
               esserlo. La malvagità, la menzogna,
               l'ostinazione parvero egualmente degne di castigo; ma,
               questa volta, esso non mi venne inflitto dalla
               signorina Lambercier. Scrissero allo zio Bernard; egli
               venne.parvero egualmente degne di castigo; ma, questa
               volta, esso non mi venne inflitto dalla signorina
               Lambercier. Scrissero allo zio Bernard; egli
               venne.Il mio povero cugino era
               sotto accusa per un altro reato non meno grave; fummo
               associati nella stessa esecuzione. Fu spaventosa. Se,
               cercando il rimedio nel male stesso, si fossero voluti
               smorzare per sempre i miei sensi depravati, non si
               sarebbe potuto far di meglio. E così essi mi
               lasciarono a lungo tranquillo.Non si riuscì a
               strapparmi la confessione che si esigeva. Riafferrato
               a varie riprese e ridotto nello stato più
               atroce, fui irremovibile. Avrei preferito la morte, e
               vi ero deciso. La stessa violenza fu costretta a
               cedere alla diabolica testardaggine di un ragazzo,
               poiché non chiamarono altrimenti la mia
               costanza. Alla fine uscii da quella prova crudele a
               pezzi, ma trionfante.Sono passati quasi
               cinquant'anni da quell'avventura, e non ho più
               paura, oggi, d'essere punito di nuovo per lo stesso
               peccato.Ebbene, dichiaro, in cospetto
               del cielo, ch'ero innocente, che non avevo né
               spezzato né toccato il pettine, non mi era
               accostato al caminetto, non ci avevo pensato neppure.
               Non mi chiedete come fosse avvenuto il guasto: non so
               e non riesco a capirlo; so di certo ch'ero
               innocente.Immagini il lettore un
               carattere timido e docile nella vita ordinaria, ma
               ardente, fiero, indomito nelle passioni, un ragazzo
               sempre educato dalla voce della ragione, sempre
               trattato con dolcezza, equità, compiacenza, che
               non concepiva neppure l'ingiustizia e che, per la
               prima volta, ne subisce una così terribile, e
               precisamente dalle persone che egli ama e rispetta di
               più: che capovolgimento di idee! Quale
               scompiglio di sentimenti! Quale sovvertimento nel suo
               cuore, nel suo cervello, in tutto il suo piccolo
               essere intelligente e morale. Vi invito a immaginare
               tutto ciò, se possibile, perché, quanto
               a me, non mi sento capace di spiegare, di seguire la
               minima traccia di quello che accadeva in me
               allora.Non ero ancora abbastanza
               ragionevole per comprendere come le apparenze fossero
               contro di me, e per mettermi nei panni degli altri. Mi
               attenevo al mio giudizio, e sentivo solo il rigore di
               uno spaventoso castigo per un delitto non commesso. Il
               dolore fisico, benché vivo, lo sentivo poco:
               sentivo soltanto dispetto, rabbia, disperazione. Mio
               cugino, per un caso press'a poco simile, e ch'era
               stato punito per una colpa involontaria come per un
               atto premeditato, montava in furore sul mio esempio, e
               s'innalzava, per così dire, al mio unisono.
               Entrambi nello stesso letto, ci abbracciavamo in
               trasporti convulsi, ci soffocavamo, e, quando i nostri
               teneri cuori un po' sollevati potevano sfogare la loro
               collera, ci alzavamo a sedere e ci mettevamo a gridare
               insieme cento volte con tutto il nostro fiato:
               carnifex, carnifex, carnifex!Mentre scrivo, sento il polso
               che si eccita ancora: quei momenti mi saranno sempre
               davanti, vivessi centomila anni. Quella prima
               impressione della violenza e dell'ingiustizia mi
               è rimasta così profondamente scolpita
               nell'animo che ogni idea che vi si collega mi ridona
               la mia prima commozione, e quel sentimento, che
               riguarda me nella sua origine, ha preso in sé
               tale consistenza, e si è staccato così
               perfettamente da qualsiasi interesse personale, che il
               mio cuore s'infiamma alla visione o al racconto di un
               atto ingiusto, qualunque sia l'oggetto e dovunque sia
               connesso, come se l'effetto ricadesse su me. Quando
               leggo delle crudeltà di un feroce tiranno o
               delle sottili perfidie d'un prete birbante, andrei
               volentieri a pugnalare quei miserabili, dovessi
               soccombere cento volte. Spesso mi son messo in un
               bagno di sudore per inseguire o prendere a sassate un
               gallo, una vacca, un cane, una bestia che vedevo
               tormentare un'altra, unicamente perché si
               sentiva più forte. Questo impulso può
               essere in me naturale, e presumo sia tale; ma il
               ricordo profondo della prima ingiustizia da me
               sofferta vi fu troppo a lungo e troppo fortemente
               legato per non averlo rinforzato di molto.Ebbe termine così la
               serenità della mia vita infantile. Da quel
               momento cessai di godere d'una pura felicità, e
               ancora oggi sento che il ricordo dei piaceri della mia
               infanzia si ferma lì. Restammo ancora a Bossey
               qualche mese. Vi fummo come ci viene rappresentato il
               primo uomo: vivente ancora nel paradiso terrestre, di
               cui ha però cessato di godere: in apparenza era
               la stessa situazione di prima, ma in realtà
               essa era radicalmente diversa.L'affetto, il rispetto,
               l'intimità, la confidenza non legavano
               più gli allievi ai maestri. Non li
               consideravamo più come dèi che leggevano
               nei nostri cuori: avevamo meno vergogna di far male e
               maggiore timore d'essere accusati; cominciavamo a
               dissimulare, a ribellarci, a mentire. Tutti i vizi
               della nostra età corrompevano la nostra
               innocenza e disabbellivano i nostri giochi. Persino
               dalla campagna sfumò ai nostri occhi
               quell'attrattiva di dolcezza e di semplicità
               che va dritto al cuore: ci pareva cupa e deserta,
               s'era come coperta d'un velo che ce ne nascondeva le
               bellezze. Smettemmo di coltivare i nostri orticelli,
               le nostre erbette, i nostri fiori. Non andavamo
               più a raspare per terra, gridando di gioia
               quando scoprivamo il germe del grano che avevamo
               seminato.Ci disgustammo di quella
               vita; essi si disgustarono di noi; mio zio venne a
               riprenderci. Ci separammo dal signore e dalla
               signorina Lambercier sazi gli uni degli altri, e senza
               grande rimpianto...
               
               
                   J.J.
                  Rousseau   
               
               
 Dal Libro Ottavo
               de Le Confessioni di Agostino 12.29 - Così parlavo e
               piangevo nell'amarezza sconfinata del mio cuore
               affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una
               voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che
               diceva cantando e ripetendo più volte:
               «Prendi e leggi, prendi e leggi». Mutai
               d'aspetto all'istante e cominciai a riflettere con la
               massima cura se fosse una cantilena usata in qualche
               gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla
               udita da nessuna parte. Arginata la piena delle
               lacrime, mi alzai. L'unica interpretazione possibile
               era per me che si trattasse di un comando divino ad
               aprire il libro e a leggere il primo verso che vi
               avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che
               ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per
               caso mentre si leggeva: «Va', vendi tutte le cose
               che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei
               cieli, e vieni, seguimi». Egli lo
               interpretò come un oracolo indirizzato a se
               stesso e immediatamente si rivolse a te.Così tornai conciato
               al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo
               lasciato il libro dell'Apostolo all'atto di alzarmi.
               Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto
               su cui mi caddero gli occhi. Diceva: «Non nelle
               crapule e nell'ebbrezze, non negli amplessi e nelle
               impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma
               rivestitevi del Signore Gesù Cristo né
               assecondate la carne nelle sue concupiscenze».
               Non volli leggere oltre, né mi
               occorreva.Appena terminata infatti la
               lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza
               penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del
               dubbio si dissiparono. 12.30 - Chiuso il libro,
               tenendovi all'interno il dito o forse un altro segno,
               già rasserenato in volto, rivelai ad Alipio
               l'accaduto. Ma egli mi rivelò allo stesso modo
               ciò che a mia insaputa accadeva in lui. Chiese
               di vedere il testo che aveva letto. Glielo porsi, e
               portò gli occhi anche oltre il punto ove mi ero
               arrestato io, ignaro del seguito. Il seguito diceva:
               «E accogliete chi è debole nella
               fede». Lo riferì a se stesso, e me lo
               disse. In ogni caso l'ammonimento rafforzò
               dentro di lui una decisione e un proposito onesto,
               pienamente conforme alla sua condotta, che l'aveva
               portato già da tempo ben lontano da me e
               più innanzi sulla via del bene. Senza
               turbamento o esitazione si unì a
               me.Immediatamente ci rechiamo da
               mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne
               gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti:
               esulta e trionfa. E cominciò a benedirti
               perché puoi fare più di quanto chiediamo
               e comprendiamo. Vedeva che le avevi concesso a mio
               riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto
               con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose.
               Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che
               non cercavo più né moglie né
               avanzamenti in questo secolo, stando ritto ormai su
               quel regolo della fede, ove mi avevi mostrato a lei
               tanti anni prima nel corso di una rivelazione; e
               mutasti il suo duolo in gaudio molto più
               abbondante dei suoi desideri, molto più
               prezioso e puro di quello atteso dai nipoti della mia
               carne. 
               
               
                  Agostino
                  d'Ippona  
               
               
 Da Vita, Epoca
               III, cap. XV di Vittorio
               Alfieri Tornato io una tal sera
               dell'opera (insulso e tediosissimo divertimento di
               tutta l'Italia) dove per molte ore mi era trattenuto
               nel palco dell'odiosamata Signora, mi trovai
               così esuberantemente stufo che formai la
               immutabile risoluzione di rompere sì fatti
               legami per sempre. Ed avendo io visto per prova che il
               correre per le poste qua e là non mi avea
               prestato forza di proponimento, che anzi me l'avea
               subito indebolita e poi tolta, mi volli mettere a
               maggior prova, lusingandomi che in uno sforzo
               più difficile riuscirei forse meglio, stante
               l'ostinazione naturale del mio ferreo carattere.
               Fermai dunque in me stesso di non mi muovere di casa
               mia, che come dissi le stava per l'appunto di faccia;
               di vedere e guardare ogni giorno le di lei finestre,
               di vederla passare; di udirne in qualunque modo
               parlare; e con tutto ciò, di non cedere oramai
               a nulla, né ad ambasciate dirette o indirette,
               né alle reminiscenze, né a cosa che
               fosse al mondo, a vedere se ci creperei, il che poco
               importavami, o se alla fin fine la vincerei. Formato
               in me tal proponimento, per legarmivi contraendo con
               una qualche persona come un obbligo di vergogna,
               scrissi un bigliettino ad un amico mio coetaneo, che
               molto mi amava, con chi s'era fatta l'adolescenza, e
               che allora da parecchi mesi non mi vedea più,
               compiangendomi molto di essere naufrago, in quella
               Cariddi, e non potendomene cavar egli, né
               volendomi perciò parer d'approvare. Nel
               bigliettino gli dava conto in due righe della mia
               immutabile risoluzione, e gli acchiudevo un involtone
               della lunga e ricca treccia de' miei rossissimi
               capelli, come un pegno di questo mio subitaneo
               partito, ed un impedimento quasi che invincibile al
               mostrarmi in nessun luogo così tosone, non
               essendo allora tollerato un tale assetto,
               fuorché ne' villani, e marinari. Finiva il
               biglietto col pregarlo di assistermi di sua presenza e
               coraggio, per rinfrancare il mio.Isolato in tal guisa in casa
               mia, proibiti tutti i messaggi, urlando e ruggendo
               passai i primi quindici giorni di questa mia strana
               liberazione. Alcuni amici mi visitavano; e mi parve
               anco mi compatissero; forse appunto perché io
               non diceva parola per lamentarmi, ma il mio contegno
               ed il volto parlavano in vece mia.Mi andava provando di leggere
               qualche cosuccia, ma non intendeva neppur la gazzetta,
               non che alcun menomo libro; e mi accadeva di aver
               letto delle pagine intere cogli occhi, e talor con le
               labbra, senza pure saper una parola di quel ch'avessi
               letto. Andava bensì cavalcando nei luoghi
               solitarj, e questo soltanto mi giovava un poco
               sì allo spirito che al corpo. In questo
               semifrenetico stato passai più di due mesi sino
               al finir di Marzo del '75; finché ad un tratto
               un'idea nuovamente insortami cominciò
               finalmente a svolgermi alquanto e la mente ed il cuore
               da quell'unico e spiacevole e prosciugante pensiero di
               un sì fatto amore.Fantasticando un tal giorno
               così fra me stesso, se non sarei forse in tempo
               ancora di darmi al poetare, me n'era venuto, a stento
               ed a pezzi, fatto un piccolo saggio in quattordici
               rime, che io, riputandole un sonetto, inviava al
               gentile e dotto padre Paciaudi, che trattavami di
               quando in quando, e mi si era sempre mostrato ben
               affetto, e rincrescente di vedermi così
               ammazzare il tempo e me stesso nell'ozo, ricordatosi
               ch'io gli avea detto parermi quello un oggetto di
               tragedia, e che lo avrei voluto tentare, (senza pure
               avergli mai mostrato quel mio primo aborto, di cui ho
               mostrato qui addietro il soggetto) egli me la
               comprò e donò. Io in un momento di
               lucido intervallo avea avuta la pazienza di leggerla,
               e di postillarla; e glie l'avea così rimandata,
               stimandola in me stesso assai peggiore della mia
               quanto al piano e agli affetti, se io veniva mai a
               proseguirla, come di tempo in tempo me ne rinasceva il
               pensiere. Intanto il Paciaudi, per non farmi smarrire
               d'animo, finse di trovar buono il mio sonetto,
               benché né egli il credesse, né
               effettivamente lo fosse. Ed io poi, di lì a
               pochi mesi ingolfatomi davvero nello studio dei nostri
               ottimi poeti, tosto imparai a stimare codesto mio
               sonetto per quel giusto nulla ch'egli valeva. Professo
               con tutto ciò un grand'obbligo a quelle prime
               lodi non vere, e a chi cortesemente le mi donò,
               poiché molto mi incoraggirono a cercare di
               meritarne delle vere.odesto mio sonetto per quel
               giusto nulla ch'egli valeva. Professo con tutto
               ciò un grand'obbligo a quelle prime lodi non
               vere, e a chi cortesemente le mi donò,
               poiché molto mi incoraggirono a cercare di
               meritarne delle vere.Già parecchi giorni
               prima della rottura con la Signora, vedendola io
               indispensabile ed imminente, mi era sovvenuto di
               ripescare di sotto al cuscino della poltroncina quella
               mia mezza Cleopatra, stata ivi in macero quasi che un
               anno.Venne poi dunque quel giorno,
               in cui, fra quelle mie smanie e solitudine quasi che
               continua, buttandovi gli occhi su, ed allora soltanto
               quasi come un lampo insortami la somiglianza del mio
               stato di cuore con quello di Antonio, dissi fra me
               stesso: «Va proseguita quest'impresa; rifarla, se
               non può star così; ma in somma
               sviluppare in questa tragedia gli affetti che mi
               divorano, e farla recitare questa primavera dai comici
               che ci verranno». Appena mi entrò questa
               idea, ch'io (quasiché vi avessi ritrovata la
               mia guarigione) cominciai a schiccherar fogli,
               rappezzare, rimutare, troncare, aggiungere,
               proseguire, ricominciare, ed in somma a impazzare in
               altro modo intorno a quella sventurata e mal nata mia
               Cleopatra.
               
               
                   Vittorio
                  Alfieri  
               
               
 La Prefazione
               delle Memorie di Carlo Goldoni
                Non c'è autore, buono
               o cattivo, la cui vita non si ritrovi o in capo alle
               sue opere o nelle memorie del suo tempo.È vero che la vita
               d'un uomo non dovrebbe essere edita se non dopo la sua
               morte; ma questi ritratti tardivi somigliano proprio
               agli originali? Se è un amico che se ne assume
               l'incarico, la verità risulta alterata dalle
               lodi; se è un nemico, la censura prende il
               posto di una critica onesta.La mia vita non offre
               interesse; ma può darsi che, in capo a qualche
               tempo, si scopra in qualche angolo d'una vecchia
               biblioteca una collezione delle mie opere. E allora
               potrà nascere la curiosità di sapere chi
               fu quest'uomo singolare che si è proposto la
               riforma del teatro del suo paese, che ha messo in
               scena e sotto i torchi centocinquanta commedie, sia in
               versi, sia in prosa, di carattere e d'intreccio, e che
               ha visto, lui vivo, diciotto edizioni del suo teatro.
               Si dirà senza dubbio: «Quest'uomo doveva
               essere molto ricco; per qual ragione ha lasciato il
               suo paese?» Ahimè, bisogna pur far sapere
               ai posteri che Goldoni non ha trovato se non in terra
               di Francia il riposo, la tranquillità, il
               benessere, e ch'egli ha terminato il corso della sua
               vita d'artista con una sua commedia scritta in
               francese, che, sulla scena di Francia, ha avuto la
               fortuna d'un incontro felice.Io ho pensato che solo
               l'autore fosse in grado di dare un'idea compiuta e
               sicura della sua indole, degli aneddoti di cui
               è ricca la sua vita e delle sue opere; e mi
               è parso che se egli pubblicasse, da vivo, le
               sue memorie, e non ricevesse smentita dai suoi
               contemporanei, i posteri potrebbero far fondamento
               sulla sua sincerità.Seguendo questa idea, nel
               1760, poiché vedevo che dopo la mia prima
               edizione di Firenze dappertutto si saccheggiava il mio
               teatro, e già se n'erano fatte quindici
               edizioni, non solo senza il mio consenso, ma senza che
               neppure me ne fosse data comunicazione e - per rincaro
               dei mali - tutte erano stampate perfidamente, venni
               nel pensiero di farne una seconda a mie spese e di
               porre in ciascun volume, in vece di prefazione, una
               parte della mia vita. Pensavo così che, alla
               fine dell'opera, la storia delle mie vicende personali
               e quella del mio teatro avrebbero potuto di pari passo
               essere compiute.Mi sono ingannato. Quando
               incominciai a Venezia l'edizione di Pasquali - in
               ottavo con illustrazioni - non potevo immaginarmi che
               il mio destino fosse quello di varcare le
               Alpi.Chiamato in Francia nel 1761,
               continuai a trasmettere i dati per i mutamenti e le
               correzioni che mi ero proposto per l'edizione di
               Venezia; ma la vita turbinosa di Parigi, le mie nuove
               occupazioni e la distanza dei luoghi hanno diminuito
               la mia attività e hanno rallentato l'esecuzione
               della stampa, cosicché un'opera che doveva
               abbracciare trenta volumi e che doveva esser compiuta
               nello spazio di otto anni, non era ancora, in
               vent'anni, che al tomo diciassettesimo; né io
               certo spero di vivere abbastanza per vedere questa
               edizione terminata.Ciò che per il momento
               m'inquieta e mi sta a cuore è la storia della
               mia vita. Ripeto, essa non offre singolari attrattive;
               ma quel tanto ch'io ne ho dato fino a oggi nei primi
               diciassette volumi, è stato accolto così
               bene che il pubblico m'invoglia a continuare, tanto
               più che ciò che io ho detto fin qui non
               riguarda che la mia persona, e ciò che mi resta
               a dire deve trattare del mio teatro in ispecie, di
               quello degli italiani in genere, e in parte di quello
               dei francesi, che io ho potuto vedere da vicino. I
               costumi delle due nazioni, i loro gusti messi a
               confronto fra loro, tutto quello che ho veduto, e
               tutto quello che ho osservato, potrebbe diventar
               divertente e al tempo stesso istruttivo per gli
               appassionati di questa materia.Io mi assumo dunque il
               compito di lavorare per quel tanto che potrò, e
               lo faccio con parere indicibile per arrivare al
               più presto a parlare della mia cara Parigi, che
               mi ha fatto così buone accoglienze e mi ha
               offerto tanti divertimenti e così utili
               occupazioni.Comincio col rifondere e col
               mettere in francese tutto ciò che si trova
               nelle prefazioni storiche dei diciassette volumi di
               Pasquali. È il compendio della mia vita, dalla
               nascita fino agli inizi di ciò che si chiama in
               Italia la riforma del teatro italiano. Si vedrà
               in qual modo questa inclinazione al comico, da cui mi
               sono sempre sentito dominare, abbia dato i primi
               annunci di sé, in qual modo si sia svolta; si
               vedranno gli inutili sforzi che altri ha fatto per
               distogliermi dal mio cammino e i sacrifici da me
               offerti a quest'idolo imperioso da cui mi son sentito
               trascinare; Questo formerà la prima parte delle
               mie Memorie.La seconda parte deve
               comprendere tutto ciò che si riferisce alla
               storia delle mie commedie, l'ispirazione segreta che
               mi ha indotto a scriverle, la loro riuscita, buona o
               cattiva, le rivalità che i miei successi hanno
               suscitato, le cabale che ho disprezzato, le critiche
               che ho rispettato, le «satire» che ho
               sopportato in silenzio, gli intrighi del palcoscenico
               che ho sventato. Si vedrà che l'umanità
               è la medesima dappertutto, che dappertutto
               s'incontrano gelosie, che l'uomo pacifico e di sangue
               freddo riesce a farsi amare dal pubblico e a stancare
               la perfidia dei suoi nemici.La terza parte di queste
               Memorie comprenderà il tempo del mio soggiorno
               in Francia. Io sono così felice di poterne
               parlare in libertà che ho provato la tentazione
               di cominciare di qui l'opera mia; ma in tutto ci vuole
               metodo. Sarei stato forse costretto a ritoccare le due
               parti precedenti, e io non amo ritornare su ciò
               che ho fatto.Ecco ciò che avevo da
               dire ai miei lettori. Io li prego di leggermi e di
               usarmi la cortesia di credermi. La sincerità
               è sempre stata la mia virtù preferita, e
               mi sono sempre trovato a mio agio con lei,
               perché essa mi ha risparmiato la pena di
               architettare la menzogna, e mi ha evitato il
               dispiacere di dover arrossire. 
               
               
                  Carlo
                  Goldoni |