- Grembi
-
- C'era solo una
finestra. Era chiusa, nevicava. I fiocchi sbattevano
contro i vetri e muti ricadevano sul davanzale
sciogliendosi in gocce d'acqua.
- C'era odore di
muffa, scure macchie di umido dipingevano le pareti.
Dal soffitto penzolava un filo verde con una lampadina
spenta. L'intonaco era scrostato e cadeva a piccole
gocce di cemento sul pavimento. Una brandina con un
materasso dormiva in un angolo buio.
- Marco non
arrivava.
- Ero stanca di
cercare. Tutte le altre case le avevo scartate: erano
troppo costose, e da quando avevo lasciato il lavoro
in fabbrica non potevo permettermi granché,
nonostante avessi messo da parte una somma discreta.
Era stato il signor Braschi a consigliarmi quella
casa. Il padrone era un suo intimo amico e sicuramente
mi avrebbe aiutata.
- Gli stivali
lasciavano tracce scure sul pavimento, dove giaceva
uno spesso strato di polvere bianca. Era tutta
lì, quella casa. In quella stanza colorata di
muffa, un piccolo bagno, una finestra chiusa. Eppure
mi aveva già inghiottita: ero nel suo
stomaco.
- Non c'era
più tempo per cercare, alla fine lei mi aveva
scelta. Era così vicina al negozio, così
poco costosa. Così necessaria nel suo essere
scarna. E la pancia era già tonda. Accarezzai
la sua pelle sottile e mi accorsi di quanto grande
fosse già il mio bambino.
- La schiena
bruciava, le gambe non reggevano il pancione. Mi
sedetti tra la polvere bianca, di fronte a quell'unica
finestra. Nel grembo della nuova casa. Perché
la neve continuava a cadere sui vetri? Sapevo che quel
posto avrebbe visto crescere la mia piccola famiglia e
mi aspettavo che in qualche modo il mondo decidesse di
fermarsi in un sospiro sospeso di attesa mentre,
meravigliato, guardava la mia vita
cambiare.
- Piansi. Il bambino
prendeva a calci la pancia. La neve graffiava.
Dondolavo avanti e indietro, i capelli oscillavano
insieme al mio corpo. Succhiava il sale dalle mie
lacrime, le dita si attorcigliavano come nodi in una
rete. Come avrei eliminato le macchie di umido? E
l'odore di muffa? Come avrei riempito tutto quel
vuoto?
- La stanza pulsava
di un proprio respiro. Mi fissava con quella sua
grande finestra, come un occhio che guarda all'interno
piuttosto che fuori. Mi spaventava l'idea che
lì dentro avrei visto nascere i nostri ricordi.
I giorni mi precipitavano addosso: non potevo
più vivere in pensione, non avevo soldi, il
bambino sarebbe nato fra pochi mesi. Era quello il
momento in cui la realtà inghiottisce i sogni.
Lo sentivo sulla pelle, nel cervello.
- Asciugai le lacrime
con le mani sporche. La polvere bianca si
appiccicò sulle guance e rimase lì, a
tirarmi la pelle.
- «Mamma».
Dissi ad alta voce, immaginando la voce del mio
bambino che pronunciava il mio nuovo nome.
«M-a-m-m-a» ripetei.
- La casa non
produceva nessuna eco. E la melodia della "emme",
così gonfia nel suo suono, da sembrare di
rinchiudere già tutto un progetto di amore
nella semplicità del suo essere lettera,
sbatteva contro le pareti umidicce, per poi ricadere a
terra, inutile.
- Mi avvicinai alla
finestra. La casa affacciava su una piccola strada, a
pochi metri dalla piazza. Guardava quel paese di
montagna a me estraneo accucciato nella sua valle
sicura, come una perla nel grembo della sua ostrica.
Quel paese che mi aveva adottata e protetta. Tra la
neve che fioccava, a stento riuscii a scorgere la
croce verde di una farmacia che lampeggiava ad
intermittenza. Affianco c'era il negozio di fiori dove
lavoravo. Il signor Braschi mi aveva assunta quando
avevo lasciato il lavoro in fabbrica, non appena gli
dissi che nella mia città non avevo più
niente e nessuno.
- Avevo solo voglia
di scappare da quello che era successo. Gli avevo
detto che aspettavo un bambino. Era un uomo massiccio,
sempre avvolto nella sua giacca a vento arancione. La
barba lunga, grigia. Aveva gli occhi caldi come una
tazza di brodo. Ora stava addobbando la vetrina del
suo negozio con vasi di bizzarri bonsai.
- Fuori al negozio
una vecchietta avvolta in uno scialle grigio camminava
lungo il marciapiede. Portava una grossa borsa per la
spesa. Camminava spedita, vedevo i piedi affondare
nella neve. Attraversò la strada, si
avvicinò ad un portone di ferro battuto.
Aprì il cancello e scomparì nella sua
casa. Spesa fresca e pranzo caldo per il suo marito
nonnino. Chissà cosa prova il cuore quando
invecchia con un altro cuore.
- Spostai lo sguardo.
La neve sembrava nebbia. Catturava le strade e
agguantava i contorni delle case, facendo precipitare
il mondo in una realtà che sembrava vera solo
in apparenza.
- Mi sembrò di
vedere Marco camminare sul marciapiede sotto casa.
Aveva il suo berretto nero scolorito e socchiudeva gli
occhi per proteggerli dalla neve. Spingeva un
passeggino blu a stelle bianche che slittava sulla
strada e le sue ruote lasciavano profonde strisce
bagnate. Dove aveva preso quel passeggino? Lo vidi
attraversare la strada e dirigersi verso la casa. In
quella trasparenza ovattata, Marco, col suo passeggino
blu, pareva l'unico essere umano che camminava sulla
Terra.
- Sarebbe stato qui
tra pochi secondi. Fra un quarto d'ora sarebbe
arrivato il proprietario della casa per discutere
dell'affitto e per firmare il contratto. La neve
continuava a cadere ed io non sapevo che
fare.
- Forse dovevo
scappare. Avrei potuto allontanarmi dalla finestra e
raggiungere la porta. Aprirla, scendere le scale,
uscire dal portone. E farmi congelare dal freddo.
Lasciare che il mio corpo si addormentasse sotto la
neve. Ma Marco entrò proprio in quel momento.
La faccia rossa di freddo, le ciglia bianche di neve
ed il suo cappellino nero tutto inzuppato. Ci
guardammo, lui sorrise, io lo fissai negli
occhi.
- «Hai
pianto», affermò. Con la mano
ripulì la mia guancia dalla polvere bianca
appiccicata. «Guarda, ho recuperato un
passeggino, me lo ha dato un mio collega: il suo
bambino è cresciuto». Spinse il passeggino
nella casa, e le ruote lasciarono strisce bianche tra
la polvere del pavimento. Notai che all'interno c'era
un pacchettino marrone.
- «Ho portato
qualcosa da mangiare e da bere», mi disse. Come
al solito, Marco era affamato. Dal sacchetto marrone
prese un panino che ancora fumava. Addentò il
pane, riconobbi il rosso del pomodoro ed il verde
dell'insalata. Qualche briciola scura e una macchia di
maionese gli rimase appiccicata sulle labbra. Con la
lingua la raccolse e continuò a
mangiare.
- Ritornai alla
finestra a guardare fuori. La neve sembrava stesse
cadendo con più violenza. Come se precipitasse
da un cielo molto più alto.
- Era tutto quel
bianco ad imbrogliare i pensieri. A renderli deboli e
facile preda dell'immaginazione...
- Mi parve di sentire
il rumore frizzante di una lattina che si stappa, e
vidi Marco sorseggiare della birra scadente con le
labbra appiccicate sulla latta. Si asciugò la
bocca con un fazzoletto di carta. Tolse il berretto e
si spettinò i capelli con la mano.
- La sua faccia era
quella di sempre. La pelle chiara, le lentiggini sul
naso sottile, le prime, timide rughe agli angoli della
bocca. Cercai sulla sua pelle i motivi per cui mi ero
innamorata di lui.
- Mi venne vicino e
guardò anche lui dalla finestra. I nostri
respiri si posavano sul vetro trasformandosi in
macchie di vapore bianco. La neve aveva cancellato
ogni cosa. Il mondo intrappolato in quella finestra,
era bianco e piatto. Non riuscivo a scorgere nemmeno
le persone, nemmeno le macchine. Né l'insegna
della farmacia, né il fioraio. Come una ladra
aveva rubato tutto.
- Marco si
inginocchiò. Mi abbracciò e
appoggiò la guancia sul mio pancione. Sentii
che borbottava qualche stupida parola a suo figlio,
che se ne stava beato nel suo nido di acqua a prendere
a calci la madre. Marco gli aveva parlato già
altre volte. Era convinto che in questo modo il
bambino si sentisse meno solo. Continuò a
sussurrare, aveva gli occhi chiusi, sentivo il respiro
caldo soffiarmi sulla pancia, avvertivo le sue labbra
muoversi sulla mia salopette. Mi strinse più
forte. Sentii il suo viso affondare nella carne.
«Dimmi, perché hai
pianto?»
- Con un movimento
goffo mi sedetti per terra. Appoggiai la schiena
contro la parete, e rimanemmo tutti e due così,
seduti sotto l'enorme finestra. La casa, da quella
prospettiva, aveva un altro aspetto. Sembrava
più timida senza quell'occhio di vetro, ma
anche più povera, come se avesse vergogna di se
stessa.
- In tutto quel
vuoto, l'odore di Marco galleggiava, sembrava anche
più forte, come non l'avevo mai sentito.
Appoggiai la testa alle sue gambe, stendendomi sulla
schiena, e da lì riuscii a vedere tutto il
soffitto della casa. La pittura scrostata e le macchie
di umido sembravano nuvole nere che disegnavano ombre
fantasiose come nei giochi dei bambini.
- Chiusi gli occhi.
Polpastrelli soffici toccarono la mia pelle, premendo
sulla carne tra le pieghe del collo. Le sue dita
divennero scintille che incenerivano i pensieri.
Quando lui mi toccava era come una fusione. Ne sentivo
il calore, anche in quel momento...
- ... forse stavo
impazzendo.
- Marco mi fissava.
Chinò la testa da un lato, con i denti si morse
le labbra, come faceva sempre. Mi guardò con
gli occhi attenti, con quel suo atteggiamento di
pacata comprensione. Ecco perché amavo Marco.
Lo avevo assorbito, così come lui aveva
assorbito me: ogni suo gesto mi era così
famigliare da diventare necessario. Lo capivo adesso,
quando la familiarità del suo amore respirava
solo attraverso i ricordi. «Non devi
piangere», mi disse.
- Aprii bruscamente
gli occhi quando qualcuno bussò alla porta. Un
uomo sulla cinquantina, con un cappello di lana
ricoperto di neve, entrò a grandi passi nella
casa. Mi alzai lentamente, e lasciai che l'uomo mi
stringesse la mano.
- Era il padrone di
casa. Mi salutò sorridendo e cominciò a
parlarmi delle clausole del contratto, a farmi leggere
fogli su fogli. Mentre parlava aveva il vizio di
gesticolare animatamente, sembrò quasi che quel
suo tanto dimenarsi potesse riempire tutto quel
vuoto.
- Notai che con
sé aveva portato un piccolo tavolo, delle
scatole di cartone ed un fornello da
campeggio.
- «Che
cos'è quella roba?», chiesi.
- «Ah! Io non ne
ho più bisogno. Ho pensato che a lei potrebbe
essere utile. Almeno per il momento. Nelle scatole ci
sono delle lenzuola e delle coperte», lo disse
così, con un sorriso semplice, senza aspettarsi
niente in cambio. Mi commossi.
- L'uomo
sfregò le mani tra loro: «A casa dovrei
avere anche una stufa elettrica. È bella grande
e anche abbastanza nuova. La porterò qui
stasera».
- Sorrisi, e chinai
la testa prima di scoppiare in lacrime.
- «Mia moglie
l'ha invitata a cena questa sera. Mi farebbe piacere
se venisse».
- «Lei è
molto gentile».
- L'uomo si strinse
nella giacca e mi fissò con uno sguardo timido:
«Se ha bisogno di qualcosa, noi siamo a sua
disposizione».
- Non riuscii a
sussurrare nemmeno un grazie. Mi avvicinai alla
finestra, piangevo.
- «Mi dispiace
per l'incidente... per suo marito», la sua voce
si spense, imbarazzata.
- Avrei potuto dirgli
che Marco non aveva avuto il tempo di diventare mio
marito. Ma non cambiava nulla. Invece gli dissi:
«La ringrazio molto, per il suo aiuto».
Tirai su con il naso, mentre le lacrime cascavano.
«Mio figlio sta per nascere. Devo darmi da
fare».
- La neve adesso
cadeva leggera, fiocchi piccoli come chicchi di
sabbia. Il mondo aveva riacquistato i suoi colori.
Riuscivo a vedere chiaramente l'insegna verde della
farmacia, i clienti che compravano i bouquet di fiori
nel negozio del signor Braschi.
- La gente
passeggiava sottobraccio sorridendo, il paese
respirava aldilà di quella finestra chiusa. La
aprii e inghiottii l'aria gelida. Oltre le montagne, i
raggi di sole cominciarono a rischiarare la
valle.
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