- La
metèca
-
- Una soluzione di
continuità.
- Nella mia memoria
ne resta traccia, ne sono certa, ma sta sbiadendo pian
piano. Essenza ed apparenza, sensatezza e follia.
- Da quando sono qui
nella nave mi sostiene un conforto di sarcasmo, il
generoso barbaglio della cattiveria autoimposta. Ma ho
paura, anche.
- E adesso che sono
affacciata qui, con alle mie spalle quello che
chiamano il ponte Gondwana e quel pittore che stanotte
ha dipinto tutto di nero, ecco, forse mi sento
arrivata da qualche parte, in quel luogo sospeso che
ero andata cercando per tanto tempo. Mi rivedo allora
tra stanze in penombra dall'impiantito opaco, le
pareti umide, il tavolo di legno appiccicoso di cibo e
di anni. So bene com'erano le persiane quel giorno,
perché in effetti mi basta un particolare, una
minima sfumatura, per avere l'appiglio di un dileggio
raccolto, fugaci sorrisi sulle mie labbra. Le persiane
erano quasi accostate, il pulviscolo mulinava verso
l'ombra, mentre mia madre era seduta al tavolo, le
braccia arrossate sotto la testa, i capelli stopposi.
Dormiva e russava. Aveva di nuovo bevuto. Ubriaca
fradicia si perdeva in alcuni meandri del suo ardire
passato, quando si era protesa, sbigottita e sana, sul
parapetto della vita. Mia madre aveva vissuto qualcosa
di simile ad un amore, che subito si era illanguidito
in una serie inutile di incontri, abbelliti a forza da
una falsa poesia. Poi tutto era imputridito tra le
esternazioni dell'abitudine.
- Me ne sto
andando, amici di un tempo, nemici di sempre, la nave
partirà fra poche ore ed io potrò
finalmente ricominciare.
- Del resto avevo
già trasportato tutti i miei bagagli. La nave
era arrivata il giorno prima ed io mi ero soffermata a
lungo al porto, a rimirarla come un'apparizione
irripetibile. Per la prima volta, si può
credere, avevo visto una nave. Intendo dire che
l'avevo percepita veramente. Non era stata una cosa
idilliaca. Era troppo grande la nave, troppo alta,
troppo grigia. Potevo immaginare oscuri intrecci di
tubature, successioni di stanze e di piani e avevo
provato un improvviso desiderio di lasciar perdere. E
se infine avessi deciso di restare nella città
dove allora vivevo? Come quando, da bambina, mi
appressavo alle ringhiere dei balconi e subito me ne
ritraevo, spaventata dal precipizio.
- Me ne sto
andando, amati e amanti, non vedete com'è
leggero il mio passo?
- Ora ricordo con
chiarezza, affacciata verso la spuma, largamente
cosciente del vento salato che mi soffia sul viso, ora
che il pittore indugia di nuovo sul ponte Gondwana, e
- vorrei gridare - non voglio. Non voglio che mi veda.
La madre di mia madre si era avvicinata titubante,
appoggiandosi alle spalliere delle seggiole,
bruciandomi con lo sguardo. Non voleva che partissi
un'altra volta. Aveva duramente lavorato ed era nata
lontano, mettendo radici dove gli eventi la portavano.
Dalla camera da letto arrivava il respiro pesante
della madre della madre di mia madre. Non le mancava
molto da vivere. Ho stentato poi ad imboccare le
scale, perché in fondo avevo paura che la loro
perplessità mi seguisse, avevo paura di doverle
portare con me, non fosse che nel pensiero e non
potermi liberare di loro, mai. Le mie madri. Avrebbe
potuto esserci qualcosa di simile ad una risoluzione
finale di quel groviglio? Non avevo visto forse,
quatto quatto, appressarsi il mio fantasma d'angoscia,
ancora e sempre, invincibile?
- Perciò me ne
stavo andando, soprattutto per quella persecuzione.
Tutto il resto, tutto ciò che circondava la
loro assolutezza, le zie, le merciaie, le faccendiere,
quelle sarebbero sparite senz'altro subito. Avevano
abitato ben poco dentro di me. Naturalmente mi ero
premurata di cambiare aspetto. Avevo perso molti chili
nei mesi precedenti. Volevo andarmene diversa, comoda
e dunque mi ero infagottata bene. Mi aggiravo protetta
da pantaloni sformati, scarpe imbottite e con i
capelli tagliati cortissimi, tinti di grigio- argento.
Chi avrebbe potuto prendermi per una vera donna? Ero
pronta a dimenticare ogni cosa, la luce malata oltre
le persiane e il puzzo del vino, ed anche il mio sesso
per potere ora trovarmi qui esposta verso il mare che
fugge, l'orizzonte, la schiuma solenne che ribolle
raccontando storie. Non so se continuerò a
sapere e a ricordare, ma sono stata salvata da un
rapido movimento di pensiero, tra volontà e
azione.
- Perché sono
sulla nave.
-
-
- Pare che la terra
non esista, diceva quel vecchio. Io mi sono guardata
le mani e ho percorso l'orlo selvaggio del tempo. Mi
tenevo in equilibrio tremebonda e consapevole, con un
senso quasi piacevole di vertigine. Mi trovavo presso
la curva nera di un tubo e una corda arrotolata, stavo
rannicchiata, avvolta nella mia felpa pesante. Mi sono
guardata le mani e pensavo che la terra esiste eccome,
ma probabilmente si può fare come se non
esistesse. Se io non ho avuto voce in capitolo nel
finire a guardarmi queste mani che invecchiano posso
comunque cedere al compromesso dell'illusione. La
terra non esiste perché non voglio che esista e
potevo dirglielo a quel vecchio che mi tendeva un
cerino masticato, con la subdola incertezza di un
rabdomante. E quelle forme, quelle città che si
ravvisano ogni mese circa, che altro sono se non le
incisioni di un dio drogato, su uno schermo di frodo?
Ma poi ho pensato che potevo non dire nulla,
chè tanto la nebbia stava calando sulla sua
mente, la nebbia malevola del vino e del mare. In
fondo per questo accettavo la sua presenza, non mi
ribellavo alla sua ansimante gonfiezza. Era sin troppo
facile pensare a mia madre. Potevo riconoscere la
vicenda delle tentazioni, delle lusinghe cannibali, e
le vendette postume di un attimo di onnipotenza.
- Allora mi sono
guardata le mani e ho avvertito la mia solitaria
virtù di specie, la bolla di sapone sformata
della mia coscienza desta. Le dita doloranti ne sono
la prova. Dita di mani che invecchiano come
invecchiavano quelle di coloro che circondarono il mio
muto ordito infantile, che ravviavano i capelli dalle
fronti corrucciate. Queste mani che non porgerò
più a nessuno. Della mia giovinezza mi ero
accorta tardi. Cedendo agli appigli della
vanità, avevo poi combattuto come potevo contro
l'opera del tempo, alternando creme e trucchi al
calvario edificante di un sentiero nemico, le rinunce
a denti stretti. E su quest'ultimo fronte, avevo
persino animato di curiosità amorosa la soglia
del mistero, entrando qualche volta nelle Chiese.
Tutto vano, ma che non mi si venga a dire che la
strada maestra è quella che quel vecchio
delineava con la putrefazione delle sue parole
stentate. Impossibile tornare al passato, rincorrere
la mia vita di prima accanto ad un corpo sofferente
tanto quanto il mio è anestetizzato e protetto.
Quando mi alzo la mattina e mi guardo allo specchio la
testa d'argento e sorrido, ecco che inarco le
sopracciglia e improvvisamente mi accorgo di
considerarmi al di sopra di tutti. Li promuovo
dall'alto come si mira il volgo, perché mi sono
innalzata oltre i borborigmi che li riguardano. Li
disprezzo e mi nutro - beata me - di questo disprezzo.
Sono lasciva e mi intingo - oh sì - del sapore
acro e vincente dell'odio. Ma non negherei, in
verità, un aiuto. A lui invece, lo so fin
troppo bene, l'ho negato. Con lui ho cominciato a
sottrarmi definitivamente, a trattenermi sul bordo del
mio crogiolo. Poi ho saputo che è morto. Morto
all'improvviso. A quel punto le mie vene potevano
inturgidirsi del sangue avvelenato della mia colpa. Ma
non è avvenuto nulla ed ho persino sorriso,
avvolgendomi più strettamente nel mio rancore
di felpa. Ed ancora sono qui, rannicchiata presso una
corda, amica immobile di questo vento. Qui per
sempre.
-
-
- E se mai si potesse
cogliere quel fulcro di rivelazione, la marea montante
della verità, allora non sarebbe così
umiliante, talvolta, la dispersione solitaria delle
forze. Credevo che bastasse calare il sipario sulle
vaste regioni delle complicità. Ma, come dire,
non era così facile. Me ne dovetti accorgere
sin dalle prime notti nel buio della cabina, quando
compresi infine la mia, seppur volontaria, prigionia.
Mi sono imboscata in un ambiguo carcere di riposo, ma
non era forse l'unica libertà che mi fosse
ancora consentita? Persino una baronessina alla
vaniglia può auscultare le storie del vento, in
questa nave che solca l'oceano. E che lambisce
territori di pia illusione, paradisi di fiori di loto.
L'altro giorno mi sono messa a disegnare un fiore
malizioso. Ho fatto prevalere il turchese,
perché più prossimo all'essenza dei
luoghi che intravedo dal Ponte Gondwana, spesso
nascosti da nebbie dorate. Pennellavo piano piano, con
una lentezza troppo affamata di creazione per essere
l'alveo di un afflato di salute. In effetti presentivo
qualcosa. Che bella idea, mi ripetevo seduta in un
cantuccio, quello valutato più caldo sul
volgere della prora. L'avevo accarezzata, l'idea degli
acquerelli, tra le confuse nobiltà del pensiero
più libero. Dopo ho dovuto convenire che ero
soddisfatta, anche stavolta. Contenta di me stessa,
pareva. C'era forse qualche dubbio in merito? Che
carini ad avanzare altre balorde, rassicuranti ipotesi
ma quanto fuori strada. Trionfante, sono tornata alla
mia cabina, ho preso le forbici ed ho ritagliato il
fiore tutto intorno, meticolosamente. Nello sforzo la
fronte mi si corrugava, la lingua premeva sul palato.
Con altra carta ho saputo modellare un peduncolo
frastagliato, sulla cui cima ho incollato il rigoglio
dei petali. Finita la mia opera potei abbozzare un
passo di danza, tendendo in avanti il laborioso
costrutto. E ancora pensavo: il fiore di loto,
promessa di paradisi a venire. Come se per un attimo
avessi ceduto alla voluttà scottante, la
torbida certezza di ricevere pronta risposta ad ogni
eco del capriccio. Ho fatto un saltello e mi sono
sentita quasi aggraziata. Ho riconosciuto allo
specchio dell'armadio la mia figura annegata in calde
pieghe scure, i pantaloni larghi, le ultime scarpacce
di tela e mi è sfuggito un sorrisino contenuto,
lo stesso che ogni mattina mi costringe ad ammettere
la mia superiorità. Bene, bene, convenivo,
niente di meglio per una signora. E poi,
improvvisamente, mi sono ricordata. Non l'avevo
accolto in nessuno dei miei, per quanto illuminanti,
ritorni di fiamma. Mi sono ricordata di tanto tempo
fa, di un'acqua trasparente, che si allargava in
anelli concentrici in una luce d'estate. E di un
sassolino gettato nel lago, un giorno nuovo di zecca
nel tripudio delle mie forze, anelli concentrici che
abbagliavano di sole e di gratitudine la mia
magnanimità, mentre me ne stavo pigramente
abbandonata tra braccia d'accatto. Oh, è meglio
che mi fermi a quelle braccia svampite, prima di dover
essere sopraffatta dalla vertigine. C'è stato
perciò un tempo in cui i miei tesori si
schiudevano in un parossismo d'amore? Un tempo in cui,
nutrita e leggiadra, mi adagiavo su un tappeto di
rose? La ventata di passione dal dolce fragore antico
mi ha stordito e mi ha obbligata a sedermi sul bordo
del letto. Il mio fiore turchese non era che lo
spettro di quanto accennava. L'ho accartocciato
rabbiosamente tra le mani, ne ho fatto una pallottola.
Mi ero ridestata all'esistenza di profluvi di respiro
facile, di franca estensione delle prospettive del
desiderio. Cosa ci facevo lì, ignara, sul bordo
del letto angusto, a farmi avvolgere da un torpore
micidiale? Non avevo capito, quel giorno lontano, di
aver raggiunto la sommità di quanto si
può voler conseguire sul ciglio del vuoto?
Ignara, ignara
come una dea bendata ero, che non
si accorgeva delle rose
Perché forse,
allora, non potevo indovinare nulla del mio-nostro
concerto misterioso di neuroni, in piste e gorghi
d'efficienza guasta. Credevo di poter scegliere e
decidere. So che sbagliavo. E adesso cosa mi serviva,
quel fiore mentitore? Potevo magari iniziare a cantare
e, attraverso l'armonia, cercare di recuperare le
piste generose di assentimento rilucente. Lo sapevo,
invece, di non poter che restare prudentemente al di
sotto del livello di soglia. Cercando la mia segreta
superbia seduta sul bordo del letto, tra macerie di
fiori e di vita.
-
-
-
- Pensavano che non
ci sarei andata alla festa. Pensavano di non vedermi
affatto nei paraggi di quel mattatoio di perdenti
smemorati, sfigurati dall'impresa di vivere. Si erano
sbagliati, seppur di poco. Quante volte costoro hanno
preso l'abbaglio degli illusi, sedotti senza scampo
dai paraventi dei loro dèi. Privilegio loro
concesso dal perpetuo decoro, consolazioni imposte da
un clemente destino. Ma quella festa non si è
potuta sottrarre al corpo contundente del mio sguardo.
Mi sono fermata poco distante dalle porta-finestre,
stringendomi addosso la felpa nel freddo stillante
della notte. Mi sono avvicinata, perdio, ed oltre le
vetrate sfavillavano i cristalli dell'assunzione, le
losche scintille dell'egoismo mondano. Come dire,
tanto va la gatta al lardo
però non sono
io quella, non mi avvicino tanto da lasciarci lo
zampino. Potrei davvero rinunciare alle
incommensurabili capienze della mia solitudine? Cosa
credevano, che al cospetto del loro oro vivisezionato
in fulgide composizioni in codice io mi smidollassi,
mi sbracassi come la servetta del verziere? Grama
illusione, la loro... la stessa che mi spinse al porto
per sfuggire alle mie molte vite sapendo, in fondo,
che non si può venir meno all'ineludibile. La
nave ha viaggiato senza tregua, continua a viaggiare,
dunque sono ormai lontana, ma dentro di me tutto
è rimasto intatto, presente e vivo come una
ferita. Non avranno la mia venerazione e neppure il
mio rassicurante ludibrio. Non mi passa neppure per un
attimo l'idea che io abbia a che spartire con la loro
incoscienza, che le pellicine delle loro dita
inanellate siano polvere d'oro per la mia
genuflessione.
- Li ho visti,
sì, li ho visti meravigliosamente abbigliati,
le belle donne, i loro cicisbei, li ho visti ballare,
approssimarsi a vortici brilli, a conati di gioia
possente, sì. Ho visto i levigati piedi
barcollare su scarpe adorne di gioie. Erano proprio
lì, sul limitare di un saturo abisso, una
grandezza del vivere che nessuno di loro conosce, e
neppure io del resto, più che mai in quel
momento nascosta nel buio, nell'ingannevole tepore di
una felpa madre. Non ho la pretesa di trarre in
inganno me stessa, di scambiare il vortice della mia
miseria per un trionfo tra le luci del mondo. Non
sarebbe stato un piede della baronessina, che vedevo
ridere con gli occhi umidi, o uno degli innumerevoli
ritratti che quella femmina ha voluto di sé, a
farmi intravedere l'alcova sacra, il riposo dei
giusti, in una blanda e beata protezione. Purtroppo.
Perché anch'io, come loro, avrei voluto credere
che bastasse poco per amare le proprie pellicine. Sono
nata potendo contare sul conforto del sole di luglio e
della frescura di ottobre nei pressi dei parchi. E
c'erano anche i fiori nel davanzale, le amiche scaltre
dei carrugi, le fonti di sapienza raccolta e
sorridente, le mie maestre, le mie dispensatrici - in
libri - di vita.
- E poi c'era la
poesia. E' stato inutile, vicino alle loro danze,
discernendo le loro risate spontanee o forzate,
è stato inutile cercare di richiamare alla
memoria i versi secolari, tesori ormai spenti di un
mio tempo perduto, quando le parole erano ciottoli
luminescenti che si stagliavano in un generoso nulla.
Tempo in cui potevo nascondermi tra pieghe di stoffe
dai colori infantilmente raggianti, e intanto
accogliere versi nel cavo del pensiero.
- Ma non potevo
recuperare quella forza a due passi dallo spreco di
esseri ridotti a vesciche purulente, pronte a
scoppiare in marcescenti vanità, offuscate
dagli splendori della festa. E della nave.
- In definitiva
avevano visto giusto, non sono andata alla loro
ascensione. Finchè sono stata a due passi
poteva ancora accadere che decidessi di entrare, di
chiedere accoglienza tenendo le palpebre abbassate per
sublime orgoglio. Ma sono rimasta a lungo a guardare e
poi sono andata verso il mare, mi sono messa a
fissare, trasognata, la scia di schiuma bianca che mi
avvisava del costante moto. E non sono del tutto
certa, sia ammesso una volta per tutte, che non
rimpiangessi l'ingenuità di colei che forse
sono stata solo in sogno, dolce, spensierata, amica,
nella beata fragranza del parlare e del bere,
nell'aspettativa di baci nella notte.
- Nella pia
intimità del desiderio.
-
-
-
- L'hai
fatto.
- Hai voluto
conoscere i paesaggi del mio pensiero, le pareti
scoscese delle mie valli.
- Sei stato con
me.
- Ed ora sto
stringendo sabbia tra le dita, che si sparge al vento
senza forse mai raggiungere le acque di questo
mare.
- E' successo.
Malgrado me, sei letteralmente piovuto sulla mia
terra, fecondandola per poco.
- Posso ricostruire
ogni singolo momento, a partire da quando ti sei
avvicinato con passi ampi, e la titubanza dei tuoi
gesti era pari alla forza della tua determinazione.
Dapprima è stata un'intesa intuitiva,
impellente, immediata. Colpo di fulmine lo chiamavano,
nel mondo di prima. Poi c'è stato quel
cercarsi, quel brancolare. Erano le mani, le braccia
che tentavano la loro sicurezza, abbozzavano un
tracciato a cui abbandonarsi con fiducia, senza
più dover scegliere. Le dita si sono sfiorate.
Se avessi le parole potrei indugiare molto su quello
che ho provato. Ho sentito un brivido interno, a
partire dal calore del ventre. E' stato un attimo in
cui mi sono ricordata un'altra volta di tutto, di me,
della nave, del nostro viaggio. E allora ho detto no,
mi sono fermata, rimettendomi in dimestichezza con
l'intimità della mia solitudine. Ti ho guardato
col disprezzo dovuto a chi fa vacillare una magia, a
chi spegne una fiamma. Per appiccare un incendio. Dopo
le nostre mani si sono unite, si sono intrecciate
decise. Era inevitabile.
- Di lì a poco
non so bene, mi sono ritrovata tra il cordame, nuda
sopra i miei scialli, un telo grezzo attutiva gli urti
sulle scapole. Tu sei sceso su di me come una promessa
perentoria, dono di consapevolezza, con la
verità dei tuoi occhi, sostanza d'amore. I tuoi
capelli quasi bianchi sottolineavano la disperazione
della tua urgenza. Io lo ero stata molto tempo fa, una
donna.
- Sei sceso su di me
come un'ebbrezza ed un'invasione. Ho sbattuto le
ginocchia, convulsamente, senza sapere più
nulla del tuo corpo, se c'era o non c'era.
Sprofondavo, mollavo tutto, colta da una stanchezza
estrema e appagante. Le tue dita si sono fatte strada,
plasmando la mia vertigine. Ero nuda, forse bella, di
sicuro bella per te. E tu eri un intero universo, con
costellazioni e frammenti di vita sparpagliata,
perduta. Le tue labbra erano cibo sostanzioso per le
arterie percorse da linfa nuova. Spremevo il succo del
tuo essere e c'erano spigoli e morbidezze, calore e
mistero incombente.
- Non ridevo, no,
come tu avresti voluto, invitandomi alla leggerezza
della vita. A quel punto il tuo sguardo si era fatto
ironico, restando clemente, ma io non potevo ridere
rimpicciolita nel mio corpo, con tutt'altri
impedimenti che i tuoi, con crediti ovunque nel
passato e nel presente. Cosa ne sai tu, di una donna?
Tu che hai potuto contare sull'indiscussa esistenza
dei tuoi pensieri e volontà, veri per gli altri
e a maggior ragione, dunque, per te stesso? Cosa nei
sai tu dei miei crediti? Ed ecco che avrei voluto
nuovamente scacciarti, allontanarti da quella pretesa
che tu avanzavi, di essere complice mio, di spartire
con me la vita. Una richiesta tutta maschile e
assurda. Volevi darmi una certezza fulminea, totale.
Continuavi ad essere grande, a tuo modo. Ma mi sono
tesa, piegata, rappresa. Ho lottato con te. Siamo
stati due nemici, forse per un minuto intero. Poi hai
vinto tu. E' stato come se un terrapieno crollasse ed
io finalmente potessi correre sull'acqua senza
annegare. Prigioniera della libertà. E
c'è stata quella carezza sul seno, quella presa
sicura che mi ha fatto urlare di assenso.
- Infine ti ho avuto
dentro. Ho potuto sentirti sempre di più,
sempre più vivo e non sapevo, non credevo
nulla. Non ero io. Pregavo. Tutto si assommava.
- Infine sono esplosi
tutti quei frammenti di me, che non potevo più
raccattare e non potevo neppure più fare sforzi
in quella direzione. Ho preso a scuotermi, a urlare
parole che dimenticavo appena pronunciate.
- Ho conosciuto
appieno la pretesa di vedere nella vita nient'altro
che un'offerta. Di me ad ogni cosa e di ogni cosa a
me. Tutto si è concentrato in un punto. Tutto
si era chiuso intorno a me ed io dovevo solo vivere
dentro quel tutto chiuso, attingere senza sapere,
sconfitta, vittoriosa solo per un attimo.
- Mentre il viaggio
continuava. Silenzio sopra la voce del
mare.
-
-
-
- Mi proiettavo nella
sostanza vergine,
- incisa in beati
bagliori di conoscenza.
- Silenziose
avvisaglie di mondi,
- di città del
mare celate vissute.
- Non c'era ostacolo
di tremori
- nel vuoto privo di
presentimenti a venire.
- E come avrei potuto
io
- restare quella di
una volta,
- se simili spiragli
- accecavano la
consuetudine?
- Edotta ero, ma non
felice,
- sull'orlo della
vita vera.
- Era stata una ninfa
dal nome fasullo,
- bugiardo sogno di
notti adolescenti,
- a promettermi una
forza rara.
- Ma io sono quella
che ha camminato,
- varcando risoluta
l'altrove di zinco,
- per guardare fili
di lune argentate
- e stelle affacciate
su altri universi.
- Io sono quella che
ha corso
- per le praterie
spente,
- svelando i
nascondigli delle primavere,
- con un sorriso e la
mano che cercava
- una definitiva
assoluzione.
- Io sono comunque la
viaggiatrice
- e inesausta
conservo i trascorsi del bene.
- Vedo coste diafane
lambite da gocce,
- nettari verdi e
bianchi
- che colano odorosi
lungo tendaggi d'aria fine.
- Vedo albori di
assenzio
- sulle pareti
brillanti di rugiada celeste,
- le forme che si
allungano e si sfanno,
- balenìo di
sorrisi di bimbe malate.
- Percorro il parco
incorruttibile
- delle muse di un
tempo,
- nel coro sospeso di
gioie primordiali.
- E mi riconosco
immutata
- dalle fatiche
temperate dalla sete,
- pronta ad
inoltrarmi in contrade di nebbia,
- a viaggiare ancora
ancora metèca.
- Metèca
sempre.
-
-
-
-
- Ora ricordo tutto e
non ricordo nulla. Sono figlia ma anche madre, essendo
amata amo, amando. Sono giovane e tanto vecchia, sana
e malata. Ho i capelli grigi, le mani rugose eppure ho
la pelle di una giovane gravida. Non ho più
intralci. Me ne sono andata ed ho capito dove tendevo,
quali erano i miei veri scopi. Era così che mi
stavo preparando all'accesso, era quella l'impronta
del vecchio mio essere, tutto quel forzarmi a credere
senza costruire, mai. Piccola cosa.
- Non c'era modo di
comprendere davvero, non mentre si costeggiavano i
boschi trasparenti, i monti dai foschi altopiani. Non
c'era modo di inoltrarsi in una dirittura d'arrivo,
sgravati dal corale compianto, per quanto menzognero.
E che dire del limite, del disertare del pensiero,
oppresso dal pattume delle regole? Non sia mai detto
che la conoscenza arrivi prevedibile, piana,
consapevole. Ci vuole tempo, ci vuole
tempo.
-
-
- Credo che sul mio
viso fosse evidente una certa inquietudine, ma non era
paura o diffidenza. Era semplicemente l'appassionato,
apprensivo ricongiungimento con qualcosa di molto
familiare.
- Sono scesi dalla
nave uno per volta, tranquillamente, come se fosse
scontato. Li ho rivisti tutti, il pittore, la
baronessina, i cavalier serventi. Ognuno di loro
portava nei gesti la sicurezza pacata di essere
arrivato dove doveva arrivare. Non c'era sorpresa, non
c'era smania di possesso, ma un'accettazione solerte e
muta.
- Anch'io sono scesa
senza parlare, badando persino di non fare rumore
calcando il legno della passerella, stringendomi in
uno scialle logoro. Sono stata tra gli ultimi ad
abbandonare la nave.
- Ci siamo quindi
sparpagliati sulla riva deserta. Eravamo immersi in
una nebbia perlacea con promesse non del tutto
mantenute di sfumature di verde, le più
svariate. In quel vapore ciascuno finì con lo
scomparire alla vista degli altri.
- Mi sono ritrovata
sola. Come di consueto, del resto. I miei passi
risuonavano in un silenzio assoluto.
- Sono qui, ora.
- Mi sono avventurata
in quella costa tiepida, vedevo la nebbia diradarsi
oltre le mie lacrime di gioia e la luce rimaneva
impigliata in filamenti sottili, che si
assottigliavano sempre più.
- Potevo avvertire la
lontananza tremenda che la traversata aveva consumato,
qualcosa laggiù in basso, oltre l'oceano, un
agitarsi greve, in un miscuglio di colori sporchi.
Sentivo anche che le mie madri mi avrebbero accolto da
qualche parte con sorrisi di nuovo intatti, in istanti
perfetti. Si trattava solo di attendere.
- Ho camminato molto.
La nebbia infine è scomparsa ed ho potuto
guardare le nubi spostarsi in un cielo follemente
azzurro, ma per nulla stucchevole. Mi sono avvicinata
a quello che vedevo. In effetti l'avevo desiderato e
proprio quello mi era apparso.
- Un vasto fiume
tranquillo.
- Lungo le rive si
susseguivano alberi intrecciati e c'erano canne al
vento, mosse senza tregua, in un dialogo vorticoso con
i misteriosi messaggeri dell'aria. Il mare attendeva e
pareva già lontano. Nutriente, il vento ha
sciolto le mie ultime resistenze. Lì appresso
ho scorto una minuscola baia, con una nicchia d'erba
delicata al cospetto dell'acqua.
- Mi sono seduta su
quel tappeto soffice, con alle spalle le canne, di
fronte il fiume ed all'orizzonte la calma definitiva
delle montagne.
- E sono stata pronta
a creare.
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