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- Energia
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- «Mi spiace, ma non si può
entrare, è proprietà
privata».
- Il cane si era avvicinato alla macchina dei
due sconosciuti con la testa che radeva il suolo e
con il posteriore freneticamente agitato da uno
scodinzolare iperbolico; aveva annusato
timidamente, a distanza, la presenza inconsueta che
aveva di fronte, ed era tornato verso di te, sempre
con il muso rivolto alla terra, la coda: una frusta
e gli occhi pieni d'ingenuo timore: un vero cane da
guardia! non che ne avesse la colpa! Forse era che
non gli avevi mai dato un nome. Del resto, doveva
fare la guardia ad un posto, che solo qualche
curioso, passando, prendeva in considerazione, e
che nessuno fino allora, dopo tutti quegli anni,
aveva più minacciato e quindi, a che cosa
doveva fare la guardia?
- Qualche volta una coppietta si presentava,
un uomo e una donna, un ragazzo e una ragazza,
chiedendo di entrare, la domenica o il sabato,
quando non c'erano gli operai in giro, forse per
farlo immersi in uno scenario diverso. Alla tua
negazione avevano sempre reagito come quella che
avevi appena mandato via, cioè sorridendo,
ringraziando, girando la macchina con disinvoltura,
salutando dal finestrino con simpatia il cane
più che te.
- Il tuo ruolo, del resto, non era diverso da
quello del tuo cane: fare il guardiano ad un posto
che non interessava a nessuno, che molti
consideravano spoglio e lugubre. Se l'animale aveva
il fiuto, tu avevi i monitor: ce n'erano nove nella
tua cabina, raggruppati su una consolle, che
riportavano le immagini delle rispettive telecamere
a circuito chiuso disposte in vari punti della
grande struttura: sei intorno al recinto, tre
dentro, nei punti più delicati.
- Erano undici anni che lavoravi in quella
struttura, e mai niente di insolito era apparso sul
video di quegli schermi incolore.
- Durante la settimana le immagini che li
animavano erano sempre pedissequamente le stesse:
gli operai arrivavano sempre alla stessa ora, poi
arrivavano gli ingegneri, gli amministrativi,
ognuno attraversava il suo corridoio, ognuno
leggeva il suo giornale, ognuno prendeva il suo
posto nella sua postazione.
- Non ti stancava tanto dover alzare la sbarra
per le macchine dei dipendenti, quanto il dover
timbrare ogni volta il cartellino: un peso immane,
un vero castigo divino, subìto il quale
tutto poteva andare avanti nel modo consueto, e
bene o male, le cose si facevano, si salutavano le
persone che ti salutavano, si premeva il bottone
del cancello, si riceveva una telefonata, fino al
momento di dover tornare un'altra volta alla
macchina del timbro, questa volta con meno peso
nello stomaco. Il problema era che le immagini in
bianco e nero dei monitor continuavano a passarti
davanti agli occhi, anche quando eri andato
lontano, a casa, lontano. C'erano ore in cui non
cessavano di animare il tuo orizzonte mentale ed
era una vera tortura... già, era peggio
della timbratura d'entrata!
- Con i colleghi che ti sostituivano non avevi
mai parlato molto. Di Antonio sapevi che era
più anziano di te, lo avevi sempre saputo
perché si vedeva dai capelli bianchi e dalle
rughe sul volto. Avevi saputo che era sposato
perché avevi visto la fede sull'anulare
sinistro. Sapevi che aveva due figli maschi
perché te ne parlava sempre, quando vi
davate il cambio, raccontandoti di come crescevano,
di quante ne facevano, di sua moglie che era sempre
stanca di star loro dietro. Tifavate per la stessa
squadra di calcio, e ciò costituiva un
notevole elemento di complicità e sintonia,
soprattutto il lunedì. Il problema era
più con Walter: troppo sbruffone, sempre con
il sesso nella testa, sempre pronto a tenere la
pistola in evidenza... Ma per il cambio non ci
voleva che pochi minuti.
- Con i turni non avevi mai avuto problemi:
una settimana il giorno, un'altra la sera e la
terza di notte, a rotazione.
- Ed era appunto la notte che meno ti pesava
stare in quella cabina, di fronte a quei monitor.
Dover guardare quei video disanimati, quando tutto
intorno era buio, era meno pesante. La notte era
meno inquietante ricordare continuamente tutta la
vita che ti aveva portato fin lì, ed eri ben
giovane! In un posto che non ti apparteneva,
perché eri nato in un luogo di tutt'altra
natura, fra gente di tutt'altra sembianza, che ti
guardava e che guardavi in modo completamente
diverso. Eri arrivato a Vercelli a vent'anni, e non
ti eri più mosso da lì... anzi,
dovevi tenerti ben stretto quel posto, fin troppo
richiesto da chi di posti non ne aveva
nessuno.
- La notte, fra le stelle, nel buio, i due
grandi semiconi della fabbrica parevano più
piccoli e meno inquietanti. Allora li guardavi di
tanto in tanto, e ti era facile ricordare di
quando, nove anni prima, avessero dato tanta paura
a tante, ma tante persone.
- Doveva essere una fabbrica del nucleare,
all'origine, quando ancora stavano ultimando il
progetto, ma la gente non ne volle sapere. Il
nucleare era il veleno, e gli ambientalisti avevano
ben dato battaglia a quella grande struttura. Ti
piaceva ricordare i cortei, le maschere antigas sui
visi di quelle persone, incatenate con tanti
cartelli a tracolla, con teschi disegnati e scritte
allarmanti. C'era stata la polizia, la stampa, ti
avevano anche ripreso. Eri molto più
giovane, allora e ti sentivi importante,
perché importante quel posto lo era. Ti
avevano dato anche un cane, un lupo, per fare la
guardia. Ma poi, su quei monitor, mai niente, mai
un manifestante, mai un intruso. Il cane non aveva
mai dovuto fare la guardia, anche se era da
guardia.
- Gli imprenditori avevano ceduto: l'opinione
pubblica era sovrana e al velenoso nucleare si era
sostituito la più familiare energia
elettrica. Non più disordini, non più
pericolo, non più importanza, non più
stampa... niente!
- Ora, di notte, quelle grandi bocche ad
imbuto rivolte verso le stelle non erano che
innocue altezze, adornate di punti luminosi, quasi
fosse sempre, per loro, Natale. Viste da lontano ti
parevano diverse. All'alba, quando andavi,
percorrevi una strada drittissima per arrivare al
tuo posto: nella grande pianura, fra le risaie, non
c'erano che loro, e da una parte, più in
là, ma di molto, le alpi, dall'altra, ma
ancora più in là, c'era l'alba. Non
erano belle, quelle enormi bocche di ferro, ma ti
davano da vivere, e non potevi che osservarle
diventare pian piano più grandi, mentre
tenevi il volante: se c'erano loro, c'eri anche tu.
Se potevi sposarti, se potevi andare in vacanza dai
tuoi, se potevi comprarti un nuovo vestito, pagarti
una donna - e di nere lì intorno ce n'erano
tante - lo dovevi a quelle due grandi bocche, non
potevi non dirlo.
- La domenica, invece, era tutto più
cupo. Anche col sole, non era mai bello. I monitor
erano sempre più vuoti. Anche i rari
turnisti dei reparti all'interno, che comparivano e
scomparivano di mezz'ora in mezz'ora, vestiti
sempre con le tute e i berretti, erano più
brutti che nelle ore notturne. Se sopra c'erano le
stelle ti apparivano creature mansuete, miti uomini
intenti al lavoro. Se c'era la luce intensa e rude
del fine settimana erano scontrose figure che
odiavi, e non ne capivi il motivo.
- Domenica: una coppia che arriva chiedendo di
entrare per 'guardare'. Il cane pauroso. Il collega
che prima o poi arriverà... ovvero, alla
fine del turno, e lo saluterai con le stesse
parole, più o meno, di tutti i giorni
dell'anno. I monitor da continuare a tenere
sott'occhio.
- Ti sarebbe tanto piaciuto poter leggere, in
quelle ore da niente. Ma non si poteva. Dovevi
tenere sotto controllo tutta quella struttura.
Fosse almeno pericolosa! Interessasse davvero a
qualcuno! Niente. Dovevi guardarla costantemente,
dai monitor, solo motivi davvero importanti
potevano giustificarti in caso di assenza. Un
giornale, un libro, non erano ammessi. Ti sarebbe
tanto piaciuto leggere quell'antico poema, la
storia di quell'eroe, di suo padre, della
città distrutta dopo l'inganno con un
cavallo di legno... Enea, il tuo nome ti era sempre
piaciuto, e mai avevi capito come avessero pensato,
i tuoi, a darti quel nome.
- Il video in bianco e nero, i monitor, sempre
accesi, ventiquattro ore su ventiquattro. Mai una
volta, mai una, che si fossero rotti. 'Quando
avrò finito - pensavi - passerò da
Pamela? È il suo giorno di turno'.
- No! Non era proprio un bel vivere! C'era
tanto entusiasmo, una volta, quando c'era ancora
lei, che ti chiamava da giù, che ti parlava
in dialetto, poi in perfetto italiano, lei che
studiava, che non aveva cessato di credere in una
vita migliore. Eravate ragazzi, avevate votato da
poco. Lei ci credeva. Era bello con lei, forse
proprio perché ci credeva. Andare via dal
paese era già un primo passo: tu al nord, al
lavoro, in un posto tanto importante! lei per la
città più vicina, per
l'università, per conseguire la
laurea.
- E tanto era stato. Tu con il lavoro. Lei
china sui libri. Vedersi d'estate, nei periodi di
festa, ed era sempre più bello, fino a
quando... Lei aveva la laurea, un lavoro oneroso,
non certo dei monitor da guardare per
niente.
- Tante volte ci avevi pensato. Tante volte
avevi osato immaginare come sarebbe stato tutto se
non ci fossi più stato. Il funerale. Le
lacrime amare di tua madre, quelle di lei, forse,
se avesse capito...
- Ne valeva la pena? Se aspettavi la sera,
magari finiva, quell'assurdo pensiero. Se fosse
stata la notte! Ma era solo domenica! Avresti
staccato il servizio con quei video al posto degli
occhi, per vedere del niente, fin nel letto, nei
sogni. Era solo domenica. Il pensiero esisteva.
Cosa c'era per darti valore. La divisa? La pistola?
Il tuo cane? Pamela? O i nove monitor? Era tutta
lì la tua vita?
- Lentamente, titubante, estraesti la pistola.
Guardavi ancora sui video. Se eri deciso nel farlo
potevi anche spostare lo sguardo, quello era di
certo un motivo importante... o come avrebbe detto
il tuo principale: 'plausibile'. Non c'era proprio
nessuno lì intorno, eccetto le nere, dietro
qualche anfratto, su qualche bidone, con le
macchine, poche del resto, che sfrecciavano lungo
la statale della bassa padana. Non ti avrebbe visto
nessuno. Qualcuno - il collega - ti avrebbe
trovato. Una sola, avresti voluto, ti avrebbe
capito.
- Il giorno era ancora presente. Potevi
aspettare la sera, la luce più tenue ti
avrebbe aiutato, o forse ti avrebbe convinto che
non era poi così giusto, che non era poi il
caso... Valeva la pena di essere pianto? Qualcosa,
qualcuno, avrebbe potuto persuaderti, avresti
potuto credere che non era poi il caso. Avresti
anche potuto lasciare due righe: qualcuno c'era che
ti voleva del bene, tua madre... Ma se non ci fossi
più stato, non avresti più visto
nessuno, e per tua madre una lettera non sarebbe
stata di certo una consolazione.
- Era il caso. Non ti bastava più
niente in quella vita da niente. Via i monitor. Via
le nere. Via tutta la gente che non voleva avere a
che fare con una guardia giurata ignorante, per
giunta di 'giù', tutta quella marmaglia che
incontravi alla mensa, che non ti invitava a sedere
come facevano fra loro e non ti
consideravano.
- Via il padrone di casa, il fetuso: mezzo
stipendio per due camere e un bagno; via
quell'inquilino di merda con il quale non potevi
far altro se non litigare... l'ignorante che non ti
lasciava sentire un programma di musica se non in
sordina, e via anche sua moglie malata, la sua
emicrania, solo una scusa per dirti che dovevi
abbassare il volume, anche se era la musica
classica. Via i viaggi nel treno affollato senza
posti a sedere, fra cento persone che come te
tornavano per le feste o l'estate, carichi di
valigie consunte, di buste di plastica, di fatiche
e di sonno come te... via la stanchezza, il sonno,
il dialetto mai perso, i calzini rammendati, la
divisa scucita, la solitudine del quartiere
più ad est, il rumore della
circonvallazione. Via il calcio, il tg, la porno
rivista, le seghe, la televisione, l'energia
elettrica, quel posto ed i due semiconi illuminati
come se fossero in festa... mi avete dato lavoro e
vi ringrazio per questo, ma non ho più
bisogno di voi! Pensando, cedendo al ricordo,
arrivava la sera. Più fioca la luce. Ormai
quasi il buio.
- Non restava che un gesto, tirare via la
sicura, assicurarsi che non si fosse inceppato il
grilletto, decidersi fra la tempia o la bocca... la
tempia. Non guardavi più, ormai, a quei nove
shcermi incolore.
- Era quasi il momento... però, con la
coda dell'occhio... sul terzo in basso a
sinistra... un'ombra... sul video che riprendeva la
zona esterna del recinto, la parte più
vicina, potevi correrci senza salire sull'auto...
poi niente, tutto era tornato ad essere quello di
sempre: le immagini solite, non a colori, sui video
a sei pollici.
- Avevi messo giù la pistola, e
guardavi. Cos'era stato? Uno scherzo degli occhi,
un'interferenza nel circuito, un cavo mal messo? O
forse soltanto la voglia, profonda, di non lasciare
quel 'niente' che erano i tuoi anni a
venire?
- Ancora. Quell'ombra tornava su un video
diverso: il quinto, la zona est, più
distante dalla tua postazione. Un'ombra che si
arrampica al recinto, diventa una sagoma umana,
salta all'interno, poi lancia qualcosa: una corda.
Un'altra, anche lei arrampicata a fatica, poi
salta, e una terza, anche lei che si tira, poi
salta e ritira la corda.
- Cosa stava accadendo? Cosa c'era da fare?
Non era quello il momento, non sarebbe stato
neanche creduto per quello che era. Ti avrebbero
visto vittima di quelle ombre, ucciso da chi stava
entrando, e non era quello ciò che volevi
che fosse, non quello ciò che doveva
accadere.
- C'era poco da fare. Infilare la pistola al
suo posto, attivare l'allarme: le tre sagome erano
già su di un altro monitor: il secondo che
inquadrava l'interno, sulla prima porta che
immetteva ai comandi. Prendesti le chiavi, la radio
trasmittente, salisti sull'auto. Anche il cane ora
correva con te, senza scodinzolare, ma ringhiando
come avesse intuito il pericolo e l'intruso da
ricacciare di fuori. Arrivasti sul posto, e vedesti
quei tre, a pochi passi, spalancare una porta e
fuggire veloci per girare nell'angolo. L'allarme
suonava, ed i carabinieri sarebbero arrivati in
pochi minuti dalla stazione vicina.
- «Altolà! chi va là!»
e girasti anche tu l'angolo. Esplodesti il primo
colpo nel vuoto, verso il cielo di un giorno di
festa.
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