- Al
supermercato
-
Era il pomeriggio ormai inoltrato di
una giornata gelida ma tersa nonché luminosa e
bellissima: avrebbe infuso energia e gioia di vivere a
pacchi a chiunque. Io invece ero furiosa. Con le mani
affondate nelle tasche del piumino e lo sguardo
ostinatamente abbassato per impedire a tutta quella
luce di penetrare nel mio umore nero a dargli un po'
di sollievo, mi stavo dirigendo con passo sostenuto al
supermercato. Avevo affrontato il disordine e lo
sporco della mia casa per tutta la mattina e una buona
parte del pomeriggio, avevo lottato con polvere e
ragni annidati nelle travi del soffitto. Questi ultimi
li avevo aspirati con l'aspirapolvere e il timore che
fossero ancora vivi e potessero, non appena ripresi
dallo shock, uscire attraverso il tubo e riprendere il
loro posto in salotto, magari incattiviti dalla mia
guerra contro di loro, non mi abbandonava. Ma non era
questo il punto. Avevo lavato verdure, travasato il
vino dalla damigiana nelle bottiglie, preparato il
pranzo, apparecchiato, sparecchiato. Avevo aiutato mio
figlio Luca a fare una ricerca per la scuola
sull'inquinamento atmosferico (argomento per il quale
nutrivo il più totale disinteresse) e
più o meno contemporaneamente avevo cambiato le
lenzuola di tutti i letti della casa. Mi ero data
parecchio da fare e alla fine avrei potuto optare per
una cosa molto semplice come mettermi in poltrona a
sfogliare un giornale, o imbambolarmi davanti alla
tivù e crogiolarmi nel meritato riposo senza
neanche l'ombra di un senso di colpa. Non capita mica
tutti i giorni! E invece no. Esausta mi ero seduta
davanti al computer e vi avevo trascritto dal mio
block notes uno dei miei racconti. Poi lo avevo
riletto più volte, lo avevo corretto, vi avevo
aggiunto dei pezzi e tagliato ciò che non mi
piaceva. Insomma lo avevo limato, accarezzato,
guardato con amore ed un velo di apprensione, quindi
lo avevo riletto ancora ed alla fine mi era proprio
piaciuto e lo avevo stampato. A quel punto lo avevo
tra le mani sotto forma di fogli freschi di stampa sui
quali a stento mi trattenevo dal lasciare cadere
alcune gocce di acqua di colonia. Una sensazione
indefinibile, una specie di prurito interno mi fece
alzare dalla sedia: era orgoglio.
- Ero fiera di
ciò che avevo prodotto, delle mie parole, di
tutto ciò che avevo trasferito su quei fogli
che tenevo in mano, e una volta tanto volevo
condividere la mia soddisfazione con qualcuno. Volevo
sentirmi dire: "Brava, continua così, ce la
farai!".
- Ed a quel punto
avevo fatto il secondo errore: ero entrata leggera in
salotto con la mia creatura tra le mani decisa a farla
conoscere a Nick. Nick era mio marito e stava disteso
sul divano avvolto in una soffice coperta scozzese,
come fosse un bozzolo.
- Sonnecchiava ed io,
terzo errore, lo svegliai, delicatamente, ma lo
svegliai. Aprì due occhi colmi di malumore ed
io, piena di comprensione, aspettai con calma che si
sintonizzasse su di me e su ciò che volevo da
lui. -Nick, vorrei farti vedere una cosa, non appena
sarai bello sveglio- gli dissi con un tono pieno di
consapevolezza. -Ma io non voglio essere bello
sveglio- Mi rispose spiazzandomi completamente e
richiudendo gli occhi, questa volta ermeticamente.
Cominciai a percepire della delusione, ma non mi
arresi. Pensai giustamente di avere solo sbagliato il
momento e appesantita dalla mortificazione me ne
ritornai priva di leggerezza e strascicando i piedi
nello studio.
- Rilessi ancora il
mio racconto, poi ancora. Più lo rileggevo e
più mi appariva splendido. A Nick sarebbe
piaciuto per forza. Sarebbe stato fiero di me e dopo
averlo letto mi avrebbe guardata con occhi diversi.
Aspettai paziente il suo risveglio spontaneo che
avvenne circa un'ora più tardi e non appena me
ne accorsi sentendo accendersi la tivù gli
piombai addosso con i miei fogli in mano. -
Perché mi svegli quando dormo? Ero stanco,
avevo bisogno di riposare, mi sono alzato all'alba
stamattina - Mi disse non appena mi vide. - Scusa, ma
ero così ansiosa di farti leggere il mio ultimo
racconto che non ho resistito. Comunque adesso lo vuoi
leggere?- Gli dissi al colmo dell'impazienza. Il fatto
è che alla tivù stavano trasmettendo un
programma sul campionato di calcio e lui non era
proprio impaziente come me all'idea di leggerlo. Ma si
sforzò, devo riconoscerlo, uscì dal
bozzolo e prese in mano i fogli che gli porgevo.
Osservai la sua testa che si chinava su di loro e
rimasi a guardare il suo profilo attento, e mi
innamorai ancora una volta delle sue labbra carnose e
del modo con cui a tratti allontanava il foglio per
mettere meglio a fuoco le mie parole. Spensi la
tivù perché quel sottofondo calcistico
non aveva proprio niente a che vedere con la mia
storia, né con me in generale e continuai ad
osservarlo cercando di cogliere fra gli impercettibili
movimenti del suo volto un segno di apprezzamento. Mi
parve quasi di vederne qualcuno, ma forse mi
sbagliavo, forse era la mia voglia di vederli che me
li faceva vedere. Tant'è che quando ebbe finito
mi restituì i fogli e accese la tivù. O
accese la tivù e me li porse? Peccato che non
me lo ricordo perché la cosa avrebbe la sua
importanza, credo. Comunque ricordo che fece
contemporaneamente un piccolo sorrisetto e disse:
"Si...carino, ma...non è che hai scritto
qualcosa di nuovo...è una storia che ti
è uscita così... tutta d'un fiato, hai
seguito un impeto nello scriverla, non è forse
così?".
- E allora? Cosa si
aspettava ? Una rivelazione? E l'impeto? C'è
forse qualcosa di sbagliato a scrivere seguendo un
impulso?
- Non ricordo nemmeno
cosa gli avevo risposto, ricordo solo di essere
tornata nello studio, questa volta facendo dei veri e
propri solchi sul pavimento sotto il peso di tutta la
mia delusione.
- Avevo riletto
ancora una volta il mio racconto e mi era parso meno
bello di prima. Quindi lo avevo riposto tristemente
nel cassetto sotto il computer, insieme agli altri. Se
quello, che mi era sembrato splendido, ora mi appariva
così, così, cosa mi sarebbero sembrati
gli altri qualora avessi deciso di rileggerli! Evitai
di infliggermi quest'altra batosta e non lo feci.
Guardai l'ora, erano passate tre ore da quando mi ero
messa davanti al computer a fare la scrittrice e per
cena non c'era niente. I bambini avevano fame. Nick
aveva fame, anch'io avevo fame. Dovevo andare a fare
la spesa, non c'era mica nient'altro da
fare.
- Ed eccomi per
strada, con le mani chiuse a pugno affondate
esageratamente nelle tasche del mio piumino nero, un
colore perfetto per avvolgere tutta quella
frustrazione, diretta, appunto, al supermercato.
Giunsi in breve a destinazione, prelevai un carrello e
mi lasciai trasportare lungo gli scaffali stracolmi di
ogni cosa.
- Cercavo di
concentrarmi sulla lista della spesa ma la mia mente
vagava immersa in altri spazi. L'indifferenza di Nick
riguardo alla mia attività di scrittrice
sommersa aveva prodotto in me un crollo istantaneo
delle mie sicurezze. Osservando tutti quei tipi di
pasta e cercando disperatamente dei motivi validi per
scegliere un tipo di formato anziché un altro
ero assalita da un senso di sfiducia totale. In fondo
avevo scritto si diversi racconti, attingendo un po'
dalle mie esperienze e un po' da fatti accaduti a
persone di mia conoscenza, ma dovevo riconoscere che
ora mi trovavo al punto che mi pareva di non avere
più niente da dire, da raccontare. Il pozzo (o
si trattava di una pozzanghera?) pareva essersi
prosciugato. Per di più avevo preso la pessima
abitudine di confrontarmi pericolosamente con gli
autori che leggevo e per quanto riguardava John Fante,
il mio preferito, il più amato, mi confrontavo
anche con la sua vita, dal momento che stavo leggendo
la sua biografia: "che parallelismo desolante" pensai
scaraventando una scatoletta di tonno nel carrello. Da
una parte, la sua, c'erano l'America, una vita
difficile e a tratti dissoluta, contatti con razze
differenti e persone estremamente interessanti, anche
se non tutte necessariamente positive; dall'altra, la
mia, c'erano un piccolo paese che mi avrebbe accolta
come le braccia di una madre pietosa fino alla morte,
una vita senza intoppi di alcun tipo, ed un contorno
di persone che erano sempre le stesse e non cambiavano
mai. Quali spunti avrebbe potuto offrirmi una simile
realtà? D'accordo, c'era la mia
interiorità, ma la scrittura non può
attingere solo da essa, ha bisogno di ben altro per
sciogliersi e avvincere. Quindi che fare? Chiesero i
miei occhi alla signora dietro il bancone dei salumi
mentre la mia voce le ordinava due etti di prosciutto.
Supplicare l'immaginazione? Quella dea sussiegosa che
così raramente mi concedeva i suoi favori? A
dire il vero a me non aveva mai regalato niente e io
le mie storie avevo sempre dovuto scriverle col
sangue, ispirata solo dalla mia sofferenza e dalla mia
felicità, sai Nick? Una bella fatica davvero.
Certo a quel punto avrei potuto provocare degli
eventi, delle situazioni in cui calarmi per conoscerle
e raccontarle. Che so, creare l'occasione di un
viaggio possibilmente più avventuroso di un
soggiorno alle terme, fingere di innamorarmi di
qualcuno e catturarlo per vedere com'è il sesso
senza amore, e raccontarlo, oppure organizzare una
serata a tema in un'osteria della mia città,
per esempio sulla letteratura americana, e raccontarne
poi il fiasco, il ritorno a casa la sera ubriaca con
un'altra sconfitta da sopportare, nonché
l'affiorare di pensieri suicidi. La mia immaginazione
era imprigionata nella vita dolce che conducevo e nel
torpore che l'avvolgeva. Ci sarebbe voluto uno
scossone per liberarla, ma non vedevo alcuna nube
all'orizzonte. Scavalcai il mio orgoglio e le chiesi
ancora una volta aiuto. Mi pareva di vederla, di
fronte a me, avvolta nei suoi abiti svolazzanti, in
controluce. Aveva le mani sui fianchi, mi guardava e
scuoteva la testa: "Non ce n'è per te" mi
diceva ricacciandomi all'istante in un mondo senza
picchi. E allora io presi l'involucro contenente
l'affettato che mi stava porgendo la commessa e le
risposi: "Ed io farò a meno di te, come hanno
fatto molti scrittori che ho amato, anzi, ti
dirò una cosa, finora gli scrittori che ho
amato di più sono proprio quelli che se ne sono
fottuti di te e delle tue menzogne ed hanno riempito
pagine e pagine solcandole con le loro verità,
spesso crude e spietate. Farò a meno di te,
proprio come il mio amato John Fante, che per tutta la
vita ha snobbato i tuoi favori, anche se avrebbero
potuto riempirgli le tasche d'oro se indirizzati verso
sceneggiature hollywoodiane, e questo per rincorrere
il sogno di scrivere un grande libro, il suo libro,
una storia vera. L'immaginazione girò i tacchi
e si allontanò lasciandomi ancora una volta
sola nel mio mondo opaco. Ripresi per un attimo
padronanza di me per optare una scelta sui tipi di
formaggi. Il loro odore mi dette la nausea e mi
ricondusse all'istante ai miei pensieri negativi, che
ora si stavano soffermando sul mio modo di scrivere,
sul mio stile. Anche quello non mi soddisfaceva
più di tanto: lo trovavo così semplice e
immediato. Anche un bambino sarebbe stato in grado di
capire il senso delle mie parole. Mi girai sconsolata
in cerca dei biscotti per la colazione dell'indomani e
quasi contemporaneamente sentii la leggera pressione
di un braccio che si posava sulle mie spalle spigolose
avvolgendole e regalandomi all'istante un senso di
protezione. Sollevai appena la testa in cerca di quel
volto e mi ritrovai faccia a faccia con William
Saroyan che iniziò a parlarmi attraverso le
pagine di un suo libro: "vivere è continuare a
cercare, è credere in sogni impossibili. Non ti
affliggere per la tua scrittura semplice e per tutto
ciò che non conosci e che non puoi raccontare.
Ciò che è importante è il
respiro, il ritmo di una storia, e sappi, ma sono
certo che lo sai già, che ogni cosa può
essere raccontata se si è capaci di guardarla,
e di vederla. Ad esempio," continuò pacatamente
"tu hai letto il mio libro "In bicicletta per Beverly
Hills"...ebbene riguardo a quel libro se io avessi
cercato un buon inizio non lo avrei cominciato mai, e
se mi fossi impuntato nel trovare a tutti i costi una
fine...non lo avrei finito mai." Sentii il suo braccio
stringermi le spalle, come a volermi rassicurare ed io
gli appoggiai la testa appena sotto il mento e chiusi
gli occhi lasciandomi cullare. Quindi non ero pazza se
continuavo ad inseguire sogni impossibili, e comunque
non lo ero più di un tale che molti anni prima
era pure stato insignito del premio Pulitzer. Beh, se
non altro ero in ottima compagnia. O forse ero pazza,
chissà, ma ero felice perché avevo degli
amici, anche se erano amici che non conoscevo, e molti
non li avrei conosciuti mai poiché erano morti,
proprio come William che ora aveva tolto il suo
braccio dalle mie spalle e si stava allontanando da me
per andare chissà dove. Ma che importanza
aveva, lo avrei ritrovato non appena ne avessi sentito
il bisogno, mi bastava aprire un libro. I miei amici.
Li avevo conosciuti tutti attraverso i libri che
leggevo. Erano fatti di carta. Non potevo vederli ma
solo immaginarli. Potevano essere dei personaggi che
avevo amato, oppure certi autori, come William, o
John, o tanti altri che mi avevano conquistata con le
loro pagine che sembravano scritte per me. Ma erano
quasi tutti morti, tutti tranne uno col quale circa un
anno prima avevo imbastito una relazione epistolare
telematica; ma lui era così lontano, giusto
dall'altra parte del mondo: in fondo era come se fosse
morto, eppure quel tanto reale sufficiente a deludermi
un pochino e a non soddisfarmi completamente. Certo
leggevo anche libri scritti da autori vivi e vegeti e
geograficamente vicini, ma di nessuno di questi mi ero
mai infatuata. Che fosse una coincidenza? Dovevo
cercare ancora? Ma no, in fondo non mi attiravano un
granché. Li osservavo, alcuni all'apice del
successo, che concedevano interviste a quello o a
quell'altro giornale, partecipavano a talk show e
pubblicavano un libro dopo l'altro. No, erano troppo
distanti da me, troppo bravi troppo sicuri e non me li
sentivo amici. Forse dovevo cercare fra gli scrittori
sconosciuti? Ma come, se erano appunto sconosciuti e
magari non avevano ancora pubblicato un bel niente.
Eppure chissà quanti ce n'erano, lontano o
vicino a me. E quali pagine meravigliose avevano
scritto o stavano scrivendo proprio in quel momento
mentre io stavo facendo la fila alla cassa del
supermercato. Magari stavano soffrendo e a stento
riuscivano ad arrivare a fine mese coi miseri guadagni
di un lavoro che odiavano. Si perdevano. Soffrivano e
dal loro dolore e dalla loro rabbia stavano nascendo
pagine memorabili, stupende, che nessuno avrebbe letto
mai. Anche questi erano i miei amici e anche loro non
li avrei conosciuti mai. Però: ne avevo di
amici, vivi, morti, veri, inventati, esistiti, mai
esistiti. E' solo che non avrei mai potuto andare a
trovarli! O bere con loro un bicchiere di vino. Ma
potevo parlare con loro, magari in silenzio, per non
essere internata, e se chiudevo gli occhi potevo anche
sentire quello che mi dicevano: ed erano cose che mi
scaldavano il cuore, sempre. Arrivai alla cassa,
finalmente; pagai e uscii nel gelo di quella giornata
che ormai stava per finire. In ciascuna mano avevo una
pesante borsa di plastica e tra i denti il portamonete
in cui speravo ardentemente di averci ficcato le
chiavi della macchina: le perdevo sempre. Per forza,
avevo sempre la testa da un'altra parte, avrebbe detto
Nick. Nick, appunto, a cui non sarebbero mai piaciute
le mie storie perché non parlavano di niente,
non svelavano segreti e non avevano trame intriganti.
A casa preparai una bella cenetta e più tardi,
quando tutti si furono posizionati davanti alla
tivù io quatta, quatta scivolai nello studio e
mi posizionai davanti al computer. Avevo in mente
un'altra storia, ancora una storia delle mie, per
nulla avvincente, senza una vero inizio e con una fine
che ancora non conoscevo.
- Cominciai a far
scivolare le mie dita sui tasti: "Era il pomeriggio
ormai inoltrato di una giornata gelida ma tersa
nonché luminosa e bellissima: avrebbe infuso
energia e gioia di vivere a pacchi a
chiunque
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