
-
- Diritto di
vivere
-
- Dormiva
davanti alla Chiesa, da mesi, anni forse. E chi lo
poteva dire con sicurezza? Avanti a quella chiesa
consacrata ma, quasi sempre chiusa, andavano a dormire
tanti barboni o esseri sbandati, che non avevano casa,
famiglia ricordi, nulla: tutto cancellato, come quando
si passa una spugna su di un tavolo macchiato e di
ogni macchia sparisce tutto, come se non ci fosse mai
stata. A parlargli era un'impresa, perché non
rispondevano o si ritraevano impauriti o seccati o
diffidenti. Non chiedevano nulla, non volevano nulla.
Volevano essere soli e basta. Non si facevano neppure
aiutare e se qualcuno offriva loro qualcosa, gli
giravano le spalle. Spesso puzzavano di vino, oltre al
tanfo che avevano addosso, quanto si, ma era naturale,
quasi. La solitudine non ti riempie le giornate
sempre, e tante volte non basta più. Quel
barbone però, era ormai fisso, da anni. Si era
ritagliato il suo posto tra la porta e il primo
gradino che portava alla chiesa. Con lui non c'era
ritagliato il suo posto tra la porta e il primo
gradino che portava alla chiesa. Con lui non c'era mai
nessuno. Anche gli altri barboni erano andati via e
avevano preferito altri posti o non gradivano la sua
compagnia, chi sa. Di notte dormiva sotto i cartoni,
di giorno stava steso a dormicchiare, sempre al
medesimo posto oppure si faceva la sua
«passeggiata» come diceva il giornalaio che
era all'angolo, di fronte al semaforo. La passeggiata
suddetta consisteva in pochi passi, tra la chiesa e
l'edicola dove, una volta giunto, si fermava un attimo
e ritornava indietro. Infine si appollaiava su un
gradino della chiesa e guardava la gente o le macchine
che scorrevano senza posa, fra gli scatti del
semaforo: rosso, verde, verde, rosso. forse non vedeva
niente o forse lo incuriosiva tutto quel traffico che
pareva un fiume che scorre al mare. Ma la sua
espressione era sempre la stessa, anche perché
era difficile che si riuscisse a vedere qualcosa della
sua faccia, tra la barba e il cespuglio di capelli,
grigi, neri e marroni come se avessero voluto
scegliere, nella varietà delle tinte, anch'essi
la libertà. Nessuno sapeva chi fosse e da dove
venisse, niente di niente. Non parlava, non dava
confidenza ad alcuno, non chiedeva nulla. La sera, al
massimo, andava a rovistare nel cassonetto dove
finivano i rifiuti della pizzeria che era di fronte
alla Chiesa. Così, per pietà e per
dargli un pasto decente o quasi, don Gennaro il
pizzaiolo, diceva ai camerieri di lasciare, nel
suddetto cassonetto, un cartone con una pizza intera,
in maniera che almeno si sfamasse un poco, soprattutto
d'inverno, quando il vento taglia la faccia e si
respira aria di neve. Ogni mattina, davanti a lui
passava don Peppino, col suo carrettino-negozio,
ovvero una specie di carriola su cui conservava tutta
la sua mercanzia: pettini, lacci di scarpe, cinture,
spazzole, bastoncini per grattarsi le spalle e altro.
Si tirava dietro la carriola ambulante e andava ad
esporre la sua merce qualche vicolo più avanti,
tra una rientranza di un muro perimetrale di palazzi
diversi e tra un negozio di biancheria e uno di
vestiti. Passava sempre alla stessa ora, con ogni
tempo, in ogni stagione, uguale da anni: un volto
senza età, quasi senza espressione. Anch'egli
parlava poco e dava poca confidenza, persino ai
clienti, ma lo consideravano quasi come un orologio e
dicevano - Sono le sette, è passato don Peppino
- Sull'ora non si sbagliava mai, quasi l'avesse
stampata nella testa. E neppure si assentava mai come
se fosse refrattario ad ogni malattia e perfino
all'età. Era don Peppino dei «lacci di
scarpe» e basta. Col tempo aveva fatto tutt'uno
con i palazzi e la strada e nessuno ci badava
più: una cosa fra le cose. Ma se fosse mancato
se ne sarebbero accorti tutti, come quando cade un
palazzo e ci si accorge che esiste o esisteva ancora.
Don Peppino parlava poco ma, passando nel suo tragitto
quotidiano davanti alla chiesa di via Costantinopoli,
salutava stranamente il barbone. - Salute barbò
- gli diceva e non si capiva se alludesse allo stato
sociale di lui o all'immagine che offriva, somigliante
ad un cane barbone, tutto arruffato e sporco. E
stranamente, a lui rispondeva il barbone, dicendo -
salute
buon giorno
- Qualche volta, che
non aveva voglia o era più turbato del solito o
bisognoso di solitudine, gli volgeva le spalle
borbottando - Diritto alla vita, diritto alla
vita
- Le prime volte don Peppino, era rimasto
come interdetto, poi si era fatto una ragione. Chi sa
che aveva passato, qual poveretto, per dire
così o forse erano solo brandelli di ricordi
che affioravano nella sua mente, chi sa, ma erano
fatti suoi. Però quella frase gli frullava nel
cervello, quando la udiva e gli restava dentro, come
qualcosa che somigliava ad un disagio o ad una pena o
semplicemente che non si riusciva a capire. Del resto
tutta la vita stessa non si capiva bene e una frase in
più o in meno non aggiungeva o toglieva niente.
- Don Peppino,
lo conoscete? Ma con voi parla? - gli chiedevano il
pizzaiolo o l'edicolante, talvolta, facendo segno al
barbone. - Don Peppino scuoteva la testa, quasi
scontroso: quel saluto era un fatto tra lui e il
barbone, altri non ci dovevano entrare. Gli pareva, se
aveva fatto chiacchiere o pettegolezzi, di tradire la
sua fiducia. - Perciò tirava diritto con il suo
carrettino e non ascoltava nessuno. Però ci
pensava, mentre incartava i pettinini e i lacci di
scarpe ai suoi clienti. - Una volta o l'altra mi fermo
- si diceva - e - gli dico qualche cosa, forse mi
risponde -; Ma poi non si decideva mai e lasciava
andare e continuava a tirare diritto con il suo
carrettino sbilenco, sotto la pioggia e le raffiche di
vento, se era di inverno, sotto il sole cocente, se
era di estate. Gli bastava che egli fosse lì,
sotto i suoi cartoni, a sognare chi sa che cosa, nel
suo mondo che si era scelto da anni. Non lo smuoveva
neppure l'odore acre di colla e di solventi che usciva
dal negozio di restauratore di mobili, che era accanto
alla Chiesa e tanto meno il rumore arrogante del
clacson della auto e dei motorini che sfrecciavano
lungo l'incrocio o ruggivano nell'attesa che cambiasse
il rosso del semaforo. Al massimo, quando la via
appariva più tranquilla, verso notte, o
nell'ora sonnolenta del pomeriggio, prima
dell'apertura dei negozi, riprendeva ad andare su e
giù sul marciapiede, piano piano, fermandosi a
guardare le figurine dei pastori o gli orologi antichi
che si intravedevano dalla saracinesca traforata del
negozio di antiquariato che veniva dopo quello dei
restauri. Guardava un poco le porcellane dipinte, gli
orologi che battevano le ore con il pendolo, le
bambolotte di carta pesta e poi riprendeva a
camminare: con lo sguardo che scivolava sulle cose,
senza vederle. Poi si sedeva sui gradini, come un orso
polare, tutto peli, che gli si arruffavano ovunque,
come una massa uniforme e senza senso.
- Una volta, il
garzone del pizzaiolo gli aveva offerto un bicchiere
di vino, ma tenendosi alla lontana, perché non
si poteva mai sapere e aveva detto ridendo, rivolto
agli altri - Questo capisce solo il vino - Volete
vedere? - Il vino, questi qui, lo capiscono tutti!
-
- Lui l'aveva
guardato un momento, con quello sguardo che scivolava
sulle cose senza vederle e poi aveva allontanato la
mano che gli porgeva il bicchiere, senza parlare.
Aveva girato le spalle ed era ritornato alla sua tana,
sotto i cartoni che si era tirato sino agli occhi,
quasi non volesse vedere nessuno.
- - Lasciatelo
stare, aveva detto don Peppino, che andava a
conservare il suo carretto con la mercanzia, nel
bugigattolo del portiere di un palazzo, che richiedeva
«l'affitto» anche se era un buco che
riusciva a contenere soltanto il carrettino, essendo,
nell'antichità, quello che si diceva «un
luogo di decenza» ovvero uno sversatoio multiuso
con un foro al centro, ora coperto da un'asse di
legno. Il cosiddetto «luogo» era
condominiale ma il portiere lo «affittava»
con buona pace di tutti, anche perché non
serviva più, neppure ai topi, ora che il buco
era stato otturato.
- - Lasciatelo
stare - Vuole stare quieto - Chi sa che ha passato
-
- - Tutti li
abbiamo passati i nostri guai - aveva osservato il
garzone - Questo era vero, ma lui ne aveva passato
qualcuno in più, forse. La dose non era mai
uguale, comunque. E la sopportazione neppure. Ma
questo don Peppino non lo disse - Sarebbe stato troppo
lungo e non era il caso di andare oltre. E poi ognuno
aveva le idee sue, che non era disposto a cambiare,
almeno non sempre, per non dire mai.
- Anche don
Aurelio, il vice parroco della Chiesa, tante volte
aveva tentato di parlare con il barbone, detto anche
«pelliccia» perché, appunto
somigliava ad un orso arruffato. Ma non ci era stato
nulla da fare. Alle domande del prete non aveva
risposto, come del resto faceva sempre con tutti e
aveva rifiutato perfino il cibo o qualche indumento
che questi gli offriva. Voleva star solo e basta e
vivere in quella «tana» che considerava
ormai la sua casa, almeno per il momento, tra la porta
della Chiesa e i gradini che portavano alla stessa.
Altro non chiedeva. Solo da don Peppino, una volta,
aveva accettato una sigaretta ed era stato tutto. Se
l'era gustata seduto sul gradino che dava sulla
strada, piano piano, quasi con golosità,
aspirando larghe boccate di fumo. E a don Peppino che
lo guardava incoraggiante, aveva detto, con una voce
rauca, perché non avvezza più a parlare,
- Diritto, diritto alla via; - Poi aveva scosso la
testa e se ne era risalito in alto, sdraiandosi
davanti alla porta e tirandosi i cartoni sino gli
occhi.
- Non ci perdete
più tempo - diceva l'edicolante a don Peppino,
mentre esponeva i giornali: Non capisce niente
E
poi vuole stare solo - Don Peppino se ne andava non
persuaso, con le sue idee in testa che però non
diceva a nessuno. Tanto non lo avrebbero capito, come
non capivano quel povero cristo, che qualcosa voleva
pure dire con quella frase, chi sa. Forse era un modo
suo per chiedere aiuto o conforto o fare una denunzia
agli uomini e alla vita stesa, che certamente non
dovevano essere stati tanto teneri con lui, altrimenti
non si sarebbe estraniato così, li avrebbe
cercati, semplicemente, anche per litigare soltanto,
come facevano solitamente gli uomini.
- La notte,
specialmente in inverno, la vita doveva essere ben
dura, però, e per il freddo e per la solitudine
e la paura di aggressione di ogni sorta perché
di notte iniziava un'altra vita, che apriva una
parentesi del tutto diversa dalla precedente e tra
l'una e l'altra cadeva come un sipario, a dividerle,
tanto che neppure le strade parevano le stesse e si
riempivano di ombre anche se c'erano ancora le luci ad
illuminarle. Ma d'estate non andava meglio,
tutt'altro: d'estate si usciva di più e la
violenza era sempre la stessa, forse anche più
aggressiva. Pure, barbone o «pelliccia» lo
lasciavano stare, prima perché puzzava troppo e
poi perché non aveva niente, assolutamente,
solo gli stracci da troglodita, sempre gli stessi, che
indossava chi sa da quanto tempo. Perfino le donne,
quelle che giravano la notte, lo lasciavano stare o
gli offrivano le sigarette, quando lo trovavano
sveglio. Ma lui si schermiva e le scansava e le
fissava con quello sguardo che scivolava sulle cose
senza vederle e diceva anche a loro ma a bassa voce la
frase che diceva a don Peppino - Diritto alla
vita
- e le più giovani, allora
scoppiavano a ridere - Ma è pazzo? dicevano ed
era peggio di un insulto gridato in faccia. Qualcuna
più anziana faceva spallucce - Lasciatelo stare
- Non vi ha fatto niente - È un povero diavolo
- Poi sciamavano tutte verso le macchine da dove
provenivano i richiami e barbone rimaneva lì, a
pensare, sul poggiolo dell'ultimo gradino della Chiesa
e fissava la strada vuota, in pace. Nell'aria rimaneva
il profumo insolente delle donne, che però
sembrava fargli compagnia.
- Talvolta
passava la barbona che dormiva sotto i portici della
galleria che si apriva alle spalle della Chiesa. Era
un barbona vecchia o vecchissima: l'età non si
capiva perché gli stenti e la vita randagia
potevano anche averle dati tutti quegli anni, come un
marchio precoce ed incancellabile. Girava con un
sacchetto di plastica appeso ad un braccio, una gonna
variopinta a fiori e i capelli bianchi che diventavano
di oro alle punte, un oro sporco però, come una
tintura mal fatta. Anche lui non parlava, camminava
per ore, percorrendo tutta la città,
instancabile, col sacchetto di plastica al braccio e
la gonna variopinta che le danzava attorno alle gambe.
Lei e «pelliccia» si ignoravano, come tutti
i barboni, del resto: vite parallele, che scorrevano
simili soltanto all'apparenza ma che erano lontane
anni luce, mondi separati per sempre.
- Negli ultimi
tempi la notte erano accaduti e accadevano episodi
sempre più inquietanti, spesso sfrecciavano
come impazzite macchine di teppisti o balordi o di chi
sa che cosa, che passavano con il loro carico umano
vociante, che volevano litigare o divertirsi o dar
fastidio alla gente, comunque. Assaltavano anche quei
pochi bar o i ritrovi che trovavano ancora aperti,
più per il gusto di distruggere e seminare
terrore che per denaro. Naturalmente tenevano anche a
questo perché poi era immancabile lo scasso
alla biglietteria, alla cassa, alle macchinette
distributrici e a qualunque cosa potesse contenere
denaro. Ora l'edicolante chiudeva prima, la sera, e i
camerieri e i lavoranti della pizzeria stavano sul chi
vive e guardavano spesso la strada, pronti ad
intervenire o a chiamare qualche volante in
perlustrazione. Le macchine correvano come animali
impazziti e sgommavano nel silenzio della notte, con
il loro carico umano che spesso finiva per schiantarsi
da qualche parte e bruciare la vita in un fumo che
durava poco, troppo poco, anche se era il fumo di una
vita giovane, che aveva sognato chi sa che
cosa.
- Qualcuna di
esse, talvolta, si fermava al semaforo ma non per
rispettare il rosso che indicava, che quello che
semplicemente ignorato, bensì per dare fastidio
a barbone, che dormiva sotto i suoi cartoni oppure si
aggirava come uno spettro attorno alla Chiesa,
inseguendo i suoi incubi notturni.
- Lo chiamavano
sacco di «immondezza» e ridevano oppure gli
offrivano le sigarette ma solo per scherno, per vedere
se era buono ad afferrarle in aria, come si fa con i
cani, quando gli si getta qualcosa o facevano la
proposta di «dagli fuoco», tanto per
divertirsi un poco, se la notte era noiosa. Ma infine
lo lasciavano stare o perché si annunciava la
sirena di una volante che li metteva subito in fuga o
perché non c'era gusto a tormentarlo,
così svaporato e taciturno, senza reazione
alcuna. E poi puzzava troppo e faceva senso perfino a
guardarlo, una miseria totale di uomo, buono soltanto
per il camion della spazzatura che triturava i rifiuti
e faceva piazza pulita di essi.
- Una volta
però, o anzi più volte, si erano
avvicinati anche i «volontari» della notte,
quelli che raccattavano per la strada i rifiuti come
lui e li trattavano come persone normali e gli
offrivano un pasto o un panino, specialmente
d'inverno, o una coperta per ripararsi dal freddo. Li
chiamavano per nome, se essi lo ricordavano e lo
dicevano, oppure non chiedevano nulla, se mostravano
che non volevano dare confidenze, neppure a quelli che
volevano aiutarli. Ma Barbone non si apriva neppure
con loro e rifiutava ogni cosa e girava loro le spalle
e correva a rintanarsi sotto i suoi cartoni.
Così, gli lasciavano il panino o la vaschetta
con il pasto sui gradini dell Chiesa o accanto ai
cartoni dove era rintanato.
- Una notte
accadde un fatto che rivoltò tutto il
quartiere: avevano sparato ad un uomo, che era morto
lì, proprio davanti alla Chiesa, ucciso si
diceva, da una banda rivale per la spartizione dei
«traffici» della zona o per uno
«sgarro» commesso. Era caduto proprio
davanti a quella Chiesa antica che forse, in tanti
secoli o anni, pur avendo assistito a tanti e analoghi
delitti, un omicidio così non l'aveva visto
mai. Perché i sicari, a quel morto, gli avevano
quasi staccata la testa, con quelle pistole a
silenziatore, che non facevano rumore ma che
frantumavano la vita. Naturalmente nessuno aveva
sentito nulla, nessuno aveva visto nulla: testimoni:
zero, del resto la fine di quell'uomo nessuno la
voleva fare. E poi, erano fatti «loro», che
si erano liquidati «in famiglia» e «in
famiglia» dovevano rimanere. Erano venute le
forze dell'ordine, in numero cospicuo, a presidiare la
zona e a fare indagini, oltre che, a raccogliere i
rilevamenti del caso, ma non erano approdate ad
alcunché. È vero che era notte e a
quell'ora, presumibilmente, tutti dormivano ma
qualcosa, qualcuno, avrebbe potuto o dovuto pure
vedere o udire. E invece niente: come se il morto si
fosse sparato da solo.
- Napoli e il
rione parevano ormai diventati un deserto, quella
notte, un deserto senza alcuna forma di vita vivente.
Anche il pizzaiolo, che faceva a quell'ora le pulizie
nel locale, assieme ai suoi lavoranti, ma, come aveva
specificato, nell'interno del negozio, nel locale
più riparato, aveva sentito o visto nulla e
nulla poteva dire. Se qualcuno era morto requie
all'anima sua, ma egli non sapeva niente. Dei
possibili passanti non si era presentato nessuno e
nessuno, del resto, si aspettava che si presentassero.
L'unico possibile testimone poteva essere Barbone ma
non era il caso di farci alcun affidamento. Lo
interrogarono, comunque, per scrupolo di coscienza e
per dovere di servizio, non che sperassero alcun che.
E infatti Barbone non capiva, non rispondeva e tanto
meno sapeva nulla o mostrava di sapere nulla: tremava
tutto e non si riusciva neppure a parlargli. Le forze
dell'ordine lo atterrivano del tutto, almeno
così si pensò e lo resero più
sfasato ancora, completamente fuori di
sé.
- Cercò
perfino di interrogarlo il Commissario, sui gradini
della Chiesa, rassicurandolo e trattandolo con
pazienza e dicendogli che non doveva temere nulla.
Volevano sapere da lui soltanto se avesse visto
qualcosa, o qualcuno che sparava al morto. Ma egli
taceva, rinserrandosi tra i suoi stracci come un
animale ferito e fuggendo a rintanarsi in qualche
angolo, balbettando la solita frase che però
ora gli usciva smozzicata e monca «La vita
la vita» sembrava che soltanto quel brandello di
parole gli rimanesse nel cervello e che ogni altra
cosa, seppure ci fosse mai stata, gli fosse
sfuggita.
- Lo lasciarono
stare anche se il commissario rimase pensoso, forse
perché sentiva pena per lui o perché
inseguiva un suo pensiero lontano, che non lo
persuadeva.
- Barbone era
diventato più selvatico ancora e non rispondeva
neppure più al saluto di don
Peppino.
- Spesso spariva
pure per qualche giorno e poi riappariva e riprendeva
il suo posto, davanti alla Chiesa, ma era sempre
scorbutico e come malinconico. Socievole non era mai
stato e tanto meno allegro, ma ora appariva più
scontroso, diffidente, come se avesse paura di tutto e
di tutti. Ora ogni suono di clacson lo metteva in
agitazione e sembrava un animale braccato, sempre
pronto a scappare, in vista del
pericolo.
- Poi una
mattina d'inverno, di quelle che sanno di aria di neve
e che sembrano tagliare la faccia per via del vento,
fu trovato morto, sotto i cartoni. Non se ne accorsero
subito perché credevano che dormisse, come
sempre. Ma poiché non si muoveva da ore, cosa
inusitata per lui che, comunque, usciva almeno per
sgranchirsi le gambe, specialmente se faceva freddo,
andarono a vedere che cosa gli fosse successo e
perché non si muoveva.
- Pareva
intatto, come se fosse passato dal sonno alla morte
senza accorgersene. Ma quando lo rivoltarono, gli
ritrovarono un foro nel polmone e una macchia di
sangue rappreso sulla schiena. Gli avevano sparato,
chi sa chi e chi sa quando. Poi lo avevano trascinato
sui gradini della Chiesa e coperto sotto gli stracci e
i cartoni, per dare ad intendere che dormisse. Si
rivoltò in un momento tutto il quartiere:
accorse l'edicolante, il pizzaiolo; accorsero i
negozianti, tutti quelli che lo conoscevano e lo
vedevano sempre lì, da anni. Accorse don
Peppino che chiuse in anticipo il «suo
negozio» e volle aspettare la
«Volante», che era stata avvertita ma si era
impantanata nel traffico, che sembrava impazzito per
via del morto che qualcuno, pietosamente, aveva
coperto con un telo ovvero con una tovaglia dei tavoli
della pizzeria.
- Accorse pure
don Aurelio che benedisse la salma e recitò le
preghiere dei morti, con accanto don Peppino che
rispondeva con il capo chino e si teneva il berretto
di lana tra le mani. Gli altri seguivano la cerimonia
distrattamente e gli automobilisti di passaggio, fermi
nel traffico, si sporgevano a chiedere «Ma che
è stato?» - «Hanno sparato ad
uno
» -
- le risposte si
perdevano nel suono assordante dei clacson, che
parevano impazienti di riprendere la corsa, come gli
uomini: c'era il lavoro che attendeva, c'erano gli
impegni, la famiglia, i divertimenti, la vita insomma
e un morto qualsiasi, un morto, comunque, non poteva
certo fermare tutta una città: era
un'indecenza! Solo a Napoli accadevano simili
sconcezze! Qualcuno gridava, altri litigavano in quel
traffico che pareva un animale cieco, sfrenato e senza
meta.
- Solo don
Aurelio e don Peppino pregavano, recitavano le
preghiere dei morti, quietamente. Poi rimase solo don
Peppino: gli altri tornarono a lavorare e don Aurelio
corse in Chiesa a dire la Messa.
- Don Peppino
stava ritto avanti al cadavere, con il berretto in
mano e la testa sul petto: gli faceva compagnia. Non
se la sentiva di lasciare solo, li, con un cane,
mentre le macchine avevano ripreso a correre,
indifferenti, e il semaforo smistava il traffico, come
sempre. Sentì, dalla sirena, che era arrivata
finalmente la Volante. Tutti i curiosi furono
allontanati; furono interrogati i possibili testimoni
ma anche questa volta, come del resto la prima,
nessuno aveva visto niente. Lo avevano trovato morto
sotto i cartoni e basta. Arrivò pure il furgone
che avrebbe dovuto caricare il cadavere e portarlo
all'obitorio, dopo gli opportuni
accertamenti.
- Sul selciato,
quando lo rimossero, restò una piccola macchia
scura che qualcuno ricoprì con la
segatura.
- Tolsero i
cartoni davanti alla Chiesa e don Aurelio fece pulire
i gradini: il traffico riprese a scorrere normalmente
e la vita pure.
- Don Peppino
ritornò a casa, piano piano. Non se la sentiva
di riprendere il lavoro per quel giorno, e poi, ormai
la giornata era perduta e, a quell'ora, e con il
freddo che faceva, clienti ne sarebbero venuti
veramente pochi, per non dire nessuno. Un'acqua gelata
cadeva dal cielo: - «È neve
squagliata!» - osservò qualcuno ritandosi
il bavero fino agli occhi. Già, era neve
squagliata, una neve che cancellava ogni cosa, anche
la macchia che ricopriva il selciato, davanti alla
Chiesa, anche Barbone di cui nessuno si sarebbe
ricordato più tra qualche tempo. Don Peppino
camminava rasente al muro, col berretto calato sugli
occhi, scansando i passanti, che avevano fretta e lo
urtavano nella corsa, senza neppure accorgersene o
scusarsi. Nessuno lo aspettava, a casa. Si sarebbe
preparato un po' di brodo o di latte caldo: aveva
freddo, un freddo che gli penetrava sino alle ossa. Si
sentì solo, più solo del solito.
L'indomani non avrebbe rivisto Barbone al solito
posto, non lo avrebbe rivisto mai più.
«Diritto alla Vita» diceva.
- Si, ma a quale
vita? Chi sa quale vita intendeva o sognava o fuggiva
e, pure quel sogno o quell'illusione o quel desiderio,
gli avevano spento. Oppure lo avevano liberato da un
peso, Chi sa.
- Solo ora,
forse, conosceva la pace, finalmente.
- Chi sa se
forse domani non avrebbe trovato un altro barbone: il
posto vuoto lo avrebbe occupato qualche altro come
lui. Non lo lasciavano mai vuoto per troppo tempo.
Forse il nuovo Barbone sarebbe stato più
socievole dell'altro. Chi sa.
- Don Peppino
sollevò gli occhi al cielo che si era
rasserenato, come ripulito dal vento che aveva
spezzato via le nuvole: domani, forse, ci sarebbe
stato il sereno, lo sapeva almeno. Con l'acqua, con la
pioggia, tutto si complicava e si sentiva di
più la malinconia.
- «Addio
Barbone» - pensò - . Era un saluto, come
glielo rivolgeva la mattina e lui neppure rispondeva
oppure gli faceva un cenno, come per fargli capire che
lo aveva sentito. Si sentì più consolato
e disse anche egli, tra sé, quella frase che
poteva non poter dir nulla o dire tutto, chi sa. -
Diritto alla vita, diritto a vivere -. Perché
la vita non si sceglie di vivere. Si vive e
basta.
- Guardò
di nuovo il cielo così azzurro e terso e si
sentì quasi intenerito, finché gli occhi
si riempirono di lacrime, che gli solcarono la faccia,
lentamente.
- Piangeva per
sé, per Barbone, per la vita, per quella
solitudine infinita che ognuno si porta dentro come
una compagnia che si condivide sino alla
morte.
-
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