-
- Ricordiamo. Giovanotti
nerboruti, esaltati, pieni di incoscienza e
ardimento, con una gran voglia di saltare,
urlare, emergere in qualche modo - qualsiasi
modo - alla vita, alla violenza della vita, si
trovavano a Napoli luccicante del mare
d'autunno. Nelle orecchie avevano la voce
stentorea e potente del loro capo, negli occhi i
suoi pugni sui fianchi, le gambe divaricate, lo
sguardo di vuoto e nero metallo. "O ci daranno
il governo o lo prenderemo calando su Roma -
gridava il capo - ormai si tratta di giorni,
forse di ore!": grida, sventolio di bandiere,
pugnali, fucili, mani, fazzoletti. Il sole
fissava, immobile. La piazza ruggiva: voleva
Roma, voleva l'Italia, voleva il mondo intero.
Cinque giorni dopo aveva Roma e l'Italia. Poi
avrebbe cercato di prendersi anche qualche fetta
di mondo. Era il 1922. Cosa li aspettava - ai
giovanotti -, cosa ci aspettava, noi tutti,
generazioni presenti e future, è scritto
nei testi di storia e nelle cicatrici fumanti
d'Italia. Fascismo: parola corvina, lunga notte
di paura. Notte senza fine, pensava Pier Paolo
Pasolini.
-
- È difficile,
forse impossibile, parlare di Pasolini, anche
solo di Pasolini poeta, senza andare a sbattere,
più prima che poi, contro il fascismo.
Per lui fu come un'ossessione perenne, prima
sotto la forma del fascismo storico e poi in
quella, più velenosa e strisciante, di
categoria eterna che riassume in sé il
conformismo, il disprezzo per il diverso,
l'appiattimento intellettuale, il bla-bla
politicante.
- Tanto vale farlo
subito, allora. Tanto più che la
coincidenza tra le date è, se non
simbolica, almeno suggestiva. Pasolini era nato
a Bologna proprio in quel fatidico 1922, "anno
immerso nel secolo", come dirà più
tardi in un verso. Bologna, e per estensione
l'Appennino tosco-emiliano, Casarsa in Friuli e
Roma sono i tre luoghi della crescita
intellettuale, della memoria struggente e della
sfida di Pasolini critico, poeta e intellettuale
"corsaro". Ultimo maledetto nel cercare scampo
alla vita nella poesia, nel cercare di mettere
tutto - passione, amore, odio, vita, morte - nei
suoi versi. Nel restare ucciso, infine, per mano
di un Narciso - di quelli tante volte cantati e
amati - proprio dal sistema contro il quale si
era scontrato, da sempre. Perché, tra le
altre cose, Pasolini era un personaggio scomodo:
spietatamente lucido, intelligente e diverso. E
perciò solitario.
- Di Pasolini resta
molto. Gli scritti, tanti, di tutti i generi:
poesie, romanzi, sceneggiature, interventi
critici, articoli, saggi. Tutti concepiti sotto
il segno della passione viscerale, uniti dal
medesimo orgoglio intellettuale e, nonostante le
inevitabili e necessarie differenze di stile,
concentrati intorno ad alcuni nodi tematici
fondamentali. Che, come vedremo, sono allo
stesso tempo individuali-privati e
universali-storici, testimoni di un contrasto
mai sanato tra la condizione esistenziale del
poeta e la sua necessità di farsi
portavoce di un gruppo sociale, individuato
diversamente nelle varie fasi della sua
produzione ma sempre collocato al più
basso gradino della scala sociale, tra i miseri,
i diseredati, gli esclusi dalla storia dei
grandi e dei potenti.
- Ah, il popolo.
Cos'è il popolo? Chi è il popolo?
Pasolini se lo chiese per tutta una vita. Lui,
il borghese figlio di borghesi, di antica
famiglia ravennate - ma il padre aveva
sperperato tutto il patrimonio, e perciò
si era arruolato, povero in canna, per l'impresa
di Libia - era dolorosamente consapevole di
essere per sempre escluso dalla massa dei poveri
(eccolo qui, il popolo) in cui, prima che una
"classe" nel senso politico del termine,
riconosceva una forma di vita innocente,
incontaminata e pura. Da qui sono nate le sue
prime poesie. Perché va anche detto che
Pasolini, variamente definito "provocatore
ideologico" piuttosto che "coscienza critica
della cultura italiana" - tutto vero,
naturalmente - volle essere e fu prima di tutto
poeta. Come accadde, lo raccontò lui
stesso, rifacendosi a un episodio accaduto
quando aveva sette anni. "È stata mia
madre che mi ha mostrato come la poesia possa
essere materialmente scritta, e non solo letta a
scuola. Misteriosamente, un bel giorno, mia
madre infatti mi presentò un sonetto,
composto da lei, in cui esprimeva il suo amore
per me (non so per quali costrizioni di rima la
poesia finiva con le parole 'di bene te ne
voglio un sacco'). Qualche giorno dopo scrissi i
miei primi versi: dove si parlava di rosignolo e
di verzura. Credo che non avrei saputo
distinguere allora un rosignolo da un
fringuello, come del resto un pioppo da un olmo.
Fatto sta che ho cominciato come rigidamente
selettivo ed eletto". Pasolini non era certo
tipo da usare le parole a caso. Selettivo ed
eletto, dunque. Indubbiamente, lo è
sempre stato. E poi, la madre, cui era legato da
un "disperato amore" (sono sempre parole sue):
"Parma, un viale, e il riso di mia madre"
è il primo verso di una poesia. Col
padre, invece, le cose non andavano proprio
così. Presenza intermittente per molti
anni a causa delle lunghe campagne militari,
impersonava gli occhi del figlio il più
cieco conformismo, la totale mancanza di
naturalezza e spontaneità (doti che
invece riconosceva e amava nella madre). E il
fossato sarebbe col tempo diventato incolmabile,
anche se il padre "gongolava" per i successi
scolastici del figlio e per la sua evidente e
precoce vocazione letteraria.
-
- La prima raccolta,
Poesie a Casarsa, uscì a spese di
Pasolini nel 1942, a Bologna, città dove
la famiglia era tornata dopo molti anni di
traslochi continui legati ai trasferimenti di
caserma in caserma dell'ufficiale Carlo Alberto
Pasolini. Lì Pier Paolo frequentò
l'università, laureandosi in lettere con
una tesi su Pascoli (in cui riconosceva un
maestro soprattutto per le scelte linguistiche,
fondamentali per entrambi) e divenne amico di
Roberto Roversi e Francesco Leonetti. Con loro
visse la grande stagione dell'ermetismo,
fondando nel 1941 una rivista dal significativo
titolo Eredi. Nel 1942, dunque, aveva appena
vent'anni. Le poesie pubblicate erano state
scritte nei tre anni precedenti, a Casarsa ma
più spesso lontano da lì. Casarsa
era il paese della madre, e ogni estate Pasolini
ci andava a passare l'estate nella "povera
villeggiatura presso parenti che il magro
stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva".
Questo come notazione storico-geografica. Nella
poesia Casarsa diventò il luogo della
purezza, della gioventù bella e
accesamente sensuale, del mondo come doveva
essere prima che iniziasse la Storia: un mondo
deve la natura e l'uomo potevano ancora essere
tutt'uno. In quest'ottica, la scelta del
dialetto come lingua d'elezione si imponeva da
sola. Fu una scelta emotiva, prima che
intellettuale. In seguito Pasolini si accorse
che poteva e doveva essere anche un rifiuto
della cultura nazional-fascista che imponeva
l'abbandono di idiomi e particolarismi locali in
ossequio alle direttive del centro. Ma
all'inizio fu, appunto, la scoperta emozionante
dell'esistenza di una lingua che possedeva
riserve intatte di gusto, sapienza,
liricità, di contro alla lingua nazionale
impoverita, sfruttata ed esausta. "Su quel
poggiolo (a Casarsa) stavo disegnando oppure
scrivendo quando risuonò la parola
rosada. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre
la strada.[º] La parola "rosada"
pronunciata in quella mattinata di sole non era
che una punta espressiva della sua
vivacità orale. Certamente quella parola,
in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si
stende al di qua e al di là del
Tagliamento, non era mai stata scritta. Era
stata sempre e solamente un suono. Qualunque
cosa quella mattina io stessi facendo,
dipingendo o scrivendo, certo m'interruppi
subito. E scrissi subito dei versi, in quella
parlata friulana della destra del Tagliamento,
che fino a quel momento era stata solo un
insieme di suoni: cominciai per prima cosa col
rendere grafica la parola
rosada".
-
- Poesie a Casarsa
uscì nel totale silenzio della critica,
salvo che per una - ma illustrissima - voce:
quella di Gianfranco Contini, che recensì
il volumetto sul Corriere di Lugano proprio per
le resistenze del regime a dare notorietà
a un poeta dialettale. Ciò nonostante, fu
per Pasolini un momento di felicità
completa: "Chi potrà mai descrivere la
mia gioia? - ricordava - Ho saltato e ballato
per i portici di Bologna; e quanto alla
soddisfazione mondana cui si può aspirare
scrivendo versi, quella di quel giorno di
Bologna è stata esaustiva: ormai posso
benissimo farne per sempre a meno". Che
differenza con quanto avverrà dopo,
quando ogni prova pubblica di Pasolini
sarà accompagnata da un coro di
recensioni, premi, applausi, insulti, denunce,
processi. Il volumetto, dunque, nasce
così, come un gioiellino prezioso e
nascosto. Prezioso perché tale è
la lingua scelta: dialetto, sì, ma
raffinato e coltivato come "lingua pura per
poesia". Non a caso nella prima pagina si
leggevano alcuni versi di Peire Vidal, poeta
provenzale. Il richiamo a quella lirica ci
fornisce un'indicazione importantissima sulle
scelte dell'autore: Pasolini non è
lontano dalla sua terra (anche se molti di
questi versi furono effettivamente scritti a
Bologna o altrove, quando più forte si
faceva sentire la nostalgia) ma si sente
ugualmente esule, tagliato fuori dalla
possibilità di attingervi direttamente,
di goderla in prima persona come i giovanetti
(ideali proiezioni di se stesso) che si muovono
leggiadri tra fontane e prati; lui, malato di
un'altra civiltà e di un'altra
sensibilità colta, sensuale e decadente.
Il sentimento di pienezza e felicità che
deriva dalla contemplazione della propria terra
è quindi minato alla radice, e
perciò le soavi e tenere immagini di cui
sono fatte le liriche si concludono spesso con
un richiamo alla morte. Il Friuli è
evidentemente una terra mitica e il dialetto
l'unica chiave possibile per tentare di
recuperare quel mito che ha tuttavia in
sé, fin dall'inizio, i germi della
decadenza e della morte. Come se Pasolini
proiettasse sulla terra di sua madre la madre
stessa, e vivesse per Casarsa lo stesso genere
di amore disperato per lei e per la sua infanzia
felice. Ma finita, passata per
sempre.
-
- L'8 settembre 1943
Pasolini, militare da appena una settimana,
rifiutò di consegnare le armi ai tedeschi
e scappò insieme alla madre e al fratello
(il padre era prigioniero di guerra in Africa) a
Casarsa, dove rimase fino alla fine della guerra
e oltre. A chi, in seguito, gli
rimproverò di non aver fatto nient'altro
che questo contro il fascismo, rispondeva che
anzi, la sua partecipazione alla Resistenza era
stata tale da farlo finire in camera di
sicurezza; dopo di che era vissuto nascosto e
terrorizzato all'idea di finire uncinato (fine
riservata ai giovani del litorale adriatico
renitenti alla leva o antifascisti). Ciò
nonostante, non poteva restare inattivo almeno
dal punto di vista della cultura. Insieme ad
alcuni amici pubblicò il quaderno
Stroligut di ca' de l'aga (L'indovino di qua
dell'acqua, cioè della sponda destra del
Tagliamento) dove la poetica dialettale viene
approfondita diventando, ora sì, anche
strumento di opposizione al regime e
rivendicazione di dignità di lingua: le
traduzioni in italiano sono abolite (mentre
erano incluse nelle Poesie a Casarsa) e grandi
poeti stranieri (come Verlaine e Wordsworth)
vengono tradotti in friulano. Dopo la guerra
quest'esperienza confluì nell'Academiuta
di Lenga Furlana, un gruppo di studio che
affiancava alle iniziative di tipo culturale
(incluse lezioni private gratuite ai figli dei
contadini poveri che avevano smesso di andare a
scuola) anche precise richieste politiche in
merito all'autonomia del Friuli nell'ambito
della neonata repubblica. Intanto due morti
avevano segnato la vita di Pasolini: quella
della nonna materna, le cui fasi dall'agonia
alla sepoltura Pasolini accompagnò con
una serie di brevi componimenti in italiano
(Guardaci timidamente / dal cielo / come quando
nel buio / di questa casa, / sconfortata sedevi)
e, poco dopo, quella del fratello partigiano,
ucciso nel noto eccidio di Porzus, vicino al
confine jugoslavo, in cui i partigiani di Tito,
che intendevano allora annettersi il Friuli,
massacrarono la brigata Osoppo.
-
- Pasolini si stava
dunque "storicizzando". La sua poesia, da questo
momento, non fu più solo di disperato
amore per il Friuli e la sua bella
gioventù, non fu più solo
rimpianto accorato. Vi entrò il popolo,
questa nuova forza, vergine e potente, che
sarebbe potuta irrompere nella storia con
violenza inaudita e benedetta. C'era, doveva
esserci, una possibilità di riscatto per
il popolo, all'ombra delle belle bandiere (gli
stracci rossi) che allora venivano sventolate;
Cristo l'aveva promesso: "Piegatevi, gente
cristiana, / a sentire un filo di voce, / fra
tutto questo silenzio, / che scende dalla
croce". Sono queste le componenti del "populismo
evangelico" che animerà Pasolini. Una
religione-passione, simboleggiata dalla figura
del Cristo povero e sofferente e nutrita di
simboli arcani, tratti dalla religione pagana e
contadina dei suoi friulani ("Verrà il
vero Cristo, operaio") in aperto contrasto con
la religione-autorità, fortemente
compromessa coi fascismi di tutti i tempi, e
l'attesa della riscossa da parte del popolo,
serbatoio di verità. La "scoperta di
Marx" è del 1947, contemporanea a una
vicenda reale. "L'ho detto tante volte, in tante
interviste: ciò che mi ha spinto a essere
comunista è stata una lotta di braccianti
friulani contro i latifondisti, subito dopo la
guerra (I giorni del lodo De Gasperi doveva
essere il titolo del mio primo romanzo,
pubblicato poi nel 1962 con il titolo Il sogno
di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi
Marx e Gramsci". Il sogno era per l'appunto la
speranza di rinnovamento e giustizia sociale che
si sentiva fortissima in Italia, dopo la guerra.
Pasolini si impegnò in prima persona, con
la passione di sempre, perché quel sogno
diventasse realtà. Dopo l'iscrizione al
PCI divenne segretario di sezione, e da quella
posizione condusse le molte battaglie
dell'epoca: quelle per le elezioni del 1946 e
per il referendum istituzionale del 1948; quelle
antidemocristiane e anticlericali; quelle per
l'autonomia del Friuli. Pio XII scomunicava i
comunisti e lui affiggeva tatzebao contro i
preti sotto il loggiato della piazza di Casarsa.
L'intellettuale, pensava Pasolini, aveva il
dovere di creare una nuova cultura, una cultura
che voleva "trasformare la preistoria in storia,
la natura in coscienza" per usare le sue stesse
parole. Utopiche, certamente. Come tutte le
belle speranze dei bei momenti in cui sembra che
tutto possa accadere fuorché una
mutazione gattopardesca delle cose, delle
persone, delle istituzioni.
- Nell'inverno del '49,
scrisse Pasolini, "fuggii con mia madre a Roma,
come in un romanzo. Il periodo friulano era
finito". Perché questa fuga a rotta di
collo, come un braccato, come un delinquente,
proprio in un periodo così pieno di
speranza? Alcune biografie tacciono, ma i fatti
sono ormai risaputi. Pasolini era diventato, per
la legge, esattamente questo: un delinquente. In
un paese come il nostro, dove il comune senso
del pudore, con tutti i suoi necessari corollari
di ipocriti silenzi e altrettanto ipocrite
denunce a gran voce, ha sempre vinto tutte le
sue battaglie e affossato tutte le sue vittime,
forse non poteva finire altrimenti che
così. Pasolini insegnava allora nella
scuola media di un paese vicino a Casarsa.
Nell'ottobre del 1949 venne accusato di
"corruzione di minorenni e atti osceni in luogo
pubblico". Pochi, forse nessuno, sapevano allora
della sua omosessualità. Fu una vera
bomba, probabilmente montata ad arte e
strategicamente strumentalizzata dalla stampa
cattolica locale. Fatto sta che il poeta si
trovò insultato, accusato, minacciato,
espulso dal PCI "per indegnità morale e
politica" e, naturalmente, processato; processi
dai quali uscì prosciolto, nel 1950 per
l'accusa di corruzione di minorenne, e nel 1952
per quella di atti osceni in luogo pubblico (per
insufficienza di prove). A Roma Pasolini
abitò dapprima nel "ghetto" vicino al
Portico d'Ottavia e in seguito a Rebibbia,
vicino al carcere, nelle borgate lungo la
Tiburtina. "Per due anni - raccontava - fui un
disoccupato disperato, di quelli che finiscono
suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola
privata a Ciampino per ventisettemila lire al
mese". Di affitto ne pagava tredici. Furono anni
"di lavoro accanito, di pura lotta". E in casa
l'atmosfera non era certo serena, specie dopo il
ritorno del padre. "E mio padre sempre là
- continuava il poeta - in attesa, solo nella
povera cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la
faccia contro i pugni, immobile, cattivo,
dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano
con la grandezza che hanno i corpi morti". Quel
periodo di "pura lotta" cominciò a
sciogliersi, all'inizio degli anni Cinquanta,
grazie all'aiuto di alcuni amici. Il poeta
dialettale Vittorio Clemente gli trovò il
posto a scuola; lo scrittore Giorgio Bassani gli
presentò registi di Cinecittà come
Soldati, Fellini, Flaiano coi quali Pasolini
collaborò alla preparazione di numerosi
film (per La donna del fiume di Soldati scrisse
la sceneggiatura, così come per Il
prigioniero della montagna, insieme a Bassani;
Fellini lo volle come filologo per curare le
battute in romanesco delle Notti di Cabiria).
Nel 1955 Pasolini fondò a Bologna, con
Leonetti e Roversi (dell'antico gruppo di Eredi)
una nuova rivista letteraria, Officina. Il ruolo
di Officina come luogo di confronto e dibattito
sui compiti della letteratura e degli
intellettuali, come occasione di verifica
ideologica (in un momento delicatissimo per il
PCI quale fu quello seguito all'indimenticabile
1956), è noto. Alla rivista
collaborò, entrando poi nel comitato di
redazione, anche Franco Fortini, tanto per fare
un nome. Più o meno nello stesso periodo
furono pubblicate le poesie e le prose scritte
da Pasolini dopo la guerra, dunque in parte
risalenti ancora agli anni di Casarsa. Ragazzi
di vita, il romanzo sulla periferia romana e i
suoi abitanti, uscì nel 1955. Accusa di
oscenità, nuovo processo. Riesplodeva il
"caso" Pasolini. Non si sarebbe chiuso che
vent'anni dopo, con la sua
morte.
-
- Le Poesie a Casarsa,
più altre in dialetto, furono riunite nel
volume La meglio gioventù e pubblicate
nel 1954. Poi ci fu un'inversione cronologica.
Nel 1957, infatti, usciva Le ceneri di Gramsci,
poesie composte tra il '51 e il '56, e solo nel
1958 (per una serie di motivazioni editoriali e
di stesura) L'usignolo della Chiesa cattolica,
scritto molto prima, tra il 1943 e il 1949.
Queste due raccolte costituiscono uno snodo
fondamentale nella poetica pasoliniana, e
pertanto è necessario tenere ben presente
le date di composizione e non quelle di
pubblicazione. Nell'Usignolo, infatti, vive
ancora il mondo friulano arcaico e mitizzato cui
si accennava prima, percepito dal poeta con
tutti i suoi accesi sensi e al contempo con
tutta la sua inquietudine esistenziale; e
insieme si trova un cristianesimo primitivo e,
per la Chiesa, sacrilego, nel quale Cristo
è prima di tutto sofferenza della carne,
sangue e patimento. Un Cristo eretico, diverso,
il cui martirio fa nascere una domanda
ineludibile: "Perché Cristo fu esposto in
croce?" Perché "esibire la sua morte?"
Bisogna esporsi, dunque. È questo
l'insegnamento di quell'uomo dal "corpo di
giovinetta", insanguinato e inchiodato al suo
albero di dolore. E questo è il
significato del crocefisso: "sacrificare ogni
giorno il dono / rinunciare ogni giorno al
perdono / sporgersi ingenui sull'abisso" e
tremare "d'intelletto e passione nel gioco / del
cuore arso dal suo fuoco / per testimoniare lo
scandalo".
- La vibrazione di
questi versi è fortissima, ed è
facile immaginare come la cognizione della
sofferenza sulla gogna, col corpo esposto al
ludibrio, fosse vissuta in tutta la sua
drammaticità dal poeta. Dio è
sempre più lontano, e sembra non
ascoltare la voce di questo Cristo che chiede,
invoca perdono. La religione, sia pure quella
della tradizione contadina, che aveva animato
secoli di feste paesane e liturgie nelle povere
chiesette friulane, nelle ingenue e sante
preghiere dei poveri, non basta più a
Pasolini. La Storia rimette in gioco il popolo,
e questa volta sembra dargli una
possibilità nuova, concreta. Il marxismo,
ora, è la speranza. "Pasolini - scrive
Luigi Martellini - percorre razionalmente i
sentieri periferici che lo portano
istintivamente, e passionalmente, verso la
ricerca della giustizia". È questo il
passaggio fondamentale che avviene con Le ceneri
di Gramsci. Passaggio contraddittorio - e
Pasolini ne è tanto consapevole che
parla, in un verso, di "scandalo del
contraddirmi" - tra intelletto e passione, tra
razionale e irrazionale, tra necessità di
capire la realtà (quella nuova
realtà delle borgate e del
sottoproletariato romano in cui Pasolini si
trova a vivere) e adesione emotiva a un ideale
di riscatto che non può essere spiegato
razionalmente. È la parte centrale delle
Ceneri: "lo scandalo di contraddirmi,
dell'essere / con te e contro di te; con te nel
cuore / in luce, contro te nelle buie viscere" -
Pasolini qui si rivolge direttamente a Gramsci;
e più avanti: "attratto da una vita
proletaria / a te anteriore, è per me
religione / la sua allegria, non la millenaria /
sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza".
Ma anche il marxismo, nella sua applicazione
pratica, nella prassi militante dei suoi
dirigenti, rivela presto l'incapacità di
conoscere la millenaria vita proletaria del
popolo; e ciò diventa ancor più
evidente per Pasolini dopo i fatti del 1956,
anno in cui scrive tre poemetti. Il popolo
è stato tradito dai "compagni di strada"
che chiedono "il mistico rigore di un'azione /
sempre pari all'idea"; mentre "è
all'errore / che io vi spingo, al religioso /
errore"; e ancora, rivolgendosi ai dirigenti del
PCI: "avete, accecati dal fare, servito / il
popolo non nel suo cuore / ma nella sua
bandiera: dimentichi / che deve in ogni
istituzione / sanguinare, perché non
torni mito, / continuo il dolore della
creazione".
-
- Negli anni Sessanta
Pasolini scrive ancora poesie, molte, che
confluiranno nelle raccolte La religione del mio
tempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e
organizzar (l'ultima, nel 1971). In esse giunge
a compimento la crisi poetica di Pasolini, che
comincia a preferire nuove forme espressive (il
cinema, com'è noto. Il primo film,
Accattone, è del 1961).
- Lo dichiara
apertamente nel 1967: "non scrivo più
poesie da due o tre anni. Questo non me lo sarei
mai aspettato. Perché non scrivo
più? Perché ho perduto il
destinatario. Non vedo più con chi
dialogare usando quella sincerità
addirittura crudele che è tipica della
poesia. Ho creduto per tanti anni che un
destinatario delle mie 'confessioni' esistesse.
Mi sono dunque accorto che non esiste".
- Cos'era accaduto? La
Storia era andata avanti, era penetrata nel
sottoproletariato: gli aveva portato la
televisione, le lotterie, i rotocalchi; gli
aveva innestato bisogni fasulli, appiattendo
quell'allegria fuori dal tempo in cui Pasolini
riconosceva e identificava la propria religione.
Il popolo era stato "organizzato", imborghesito
a furia di elettrodomestici e automobili. "Altre
mode / altri idoli, / la massa, non il popolo,
la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo
ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni
schermo / a ogni video / si abbevera, orda pura
che irrompe / con pura avidità, informe /
desiderio di partecipare alla festa. / E
s'assesta là dove il Nuovo Capitale
vuole".
- Anche il miraggio
dell'Africa, unica alternativa al disfacimento
di cui si sentiva circondato, svanì ben
presto. Il vero nemico, invincibile, è la
borghesia antropofaga; ed è contro questo
Leviatano del XX secolo che si batte negli
ultimi anni della sua vita con sempre più
numerosi interventi su giornali e riviste, con
articoli di denuncia e pubbliche dichiarazioni,
con prese di posizione apertamente polemiche:
all'indomani degli scontri a Valle Giulia,
preambolo del 1968, scrive rivolgendosi agli
studenti: "I ragazzi poliziotti / che voi per
sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale) / di figli di papà, avete
bastonato / appartengono all'altra classe
sociale. A Valle Giulia, ieri, si è avuto
così un frammento / di lotta di classe: e
voi, amici (benché dalla parte / della
ragione), eravate i ricchi, / mentre i
poliziotti (che erano dalla parte del torto)
erano i poveri. Bella vittoria, dunque, / la
vostra!". La poesia di Pasolini è ora
quasi prosa; ma si tratta ancora una volta di
una scelta precisa: lontani i tempi delle
sperimentazioni e delle infinite libertà
espressive date dal dialetto, si impone
l'urgente necessità di entrare, a partire
dal linguaggio, nella realtà storica, per
denunciarne, con ogni mezzo, il nuovo fascismo.
Comincia la stagione di Pasolini intellettuale
"corsaro", pubblico accusatore dei guasti della
classe al potere, nella quale individua, facendo
nomi e cognomi, i responsabili dello sfascio
delle istituzioni e del paese intero. Stagione
breve, tragicamente interrotta in una notte di
novembre del 1975. In quella notte, alla
periferia di Roma, Pasolini fu esposto, pesto e
sanguinante, sulla sua croce. "Storia di froci",
dissero.
-
- Ricordiamo. Ragazzi e
ragazze, uomini e donne, uniti dal silenzio,
guardano passare una bara, alta sulle loro
teste. Alcuni sollevano il pugno chiuso, altri
abbassano la testa. Il popolo, qualsiasi cosa
sia, saluta il suo disperato
amante.
-
- Olivia
Trioschi
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