- La soffitta
-
- Ecco, la porta di casa si chiude alle mie
spalle, con un colpo secco che mi fa trasalire. Col
cuore gonfio, giro la chiave un'ultima volta:
addio, guscio di noce, addio, forse per sempre.
Stringo forte al petto la mia bambina addormentata,
cercando di nascondere quelle lacrime che mio
marito, che pure mi ama teneramente, non capirebbe.
Già: lui, di solito piuttosto draconiano nei
suoi giudizi, mi ripeterebbe per l'ennesima volta
che sono infantilmente attaccata alle
cose.
- Cose?! La casa dove sono nata e cresciuta,
il cortile dove ho giocato da bambina, il quartiere
dove sono sempre vissuta sarebbero davvero 'solo
delle cose'? Oppure, ogni giorno, un po' di
briciole di quella vita che nasce e si dipana
intorno alle cose cadono non viste, rotolano e si
nascondono, e poi sbucano fuori all'improvviso,
animandole di vita propria? Perché nel
cortile deserto si rincorrono ancora le voci di
quei ragazzi che, ormai grandi, giocano il gioco
della vita? Perché, anche se è
inverno, sulla pelle sento il calore delle prime
giornate di sole, quando le mamme finalmente ci
liberavano dalla pruriginosa tortura delle maglie
di lana e ci rivestivano di panni leggeri e
colorati, con gli immancabili sandaletti ad
occhiali?
- Ricordi e sensazioni sono rimasti impigliati
in ogni angolo di quel paese dentro la città
che è il quartiere. E adesso che devo
lasciarlo, mi si affollano intorno a salutarmi.
Rivedo i compagni di giochi, le mamme che ci
chiamavano dalle finestre per la merenda, gli
animati bisticci e le immediate riconciliazioni,
l'ultima gomma americana divisa fra tutti, lo
scambio dei Topolino unti di patatine. E, come
colonna sonora, sento ancora le risate, le 'conte',
i campanelli delle biciclette, il borbottio dei
vicini... Come tutto sembra lontano, perso per
sempre!
- I bagagli sono tutti sistemati, domani i
mobili ci seguiranno. Salgo in macchina rassegnata,
senza più guardarmi intorno e mi
rappalluccio nel cappotto: all'improvviso sento
tanto freddo, ma è un freddo che nessun
indumento riuscirà a mitigare, un freddo che
viene da dentro, dal profondo della mia
tristezza.
- Certo, la mansarda dove vivevamo era un po'
piccola, ma tanto luminosa e con una terrazza
bellissima. Quando ero piccola lì c'erano i
lavatoi condominiali e la mia mamma, abitando al
piano terreno e non avendo nemmeno un piccolissimo
balconcino, ogni giorno saliva in terrazza a
stendere i panni e spesso portava anche me e la mia
sorellina.
- Quando nel 1986, le proprietarie del palazzo
vendettero lavatoi e terrazza ad un loro
conoscente, che per lavoro aveva bisogno di un
piedà-terre a Roma, ero molto dispiaciuta
che un estraneo si appropriasse di un pezzo della
mia infanzia. Questi vi fece costruire una
casettina per metà vetro e per metà
muratura e guarda alle volte il caso,
incaricò proprio mio padre, falegname, per
la creazione degli infissi, delle porte e dei
controsoffitti; così ogni tanto salivo a far
compagnia a papà e a curiosare un
po'.
- I lavori andavano avanti ed io fantasticavo
di come sarebbe stato bello abitare lì, con
tutte quelle finestre: certo, il panorama non era
poi la fine del mondo, con quella fioritura di
antenne sui tetti, ma era decisamente molto meglio
delle finestre della mia casa, che davano sulla
strada, da cui non mi affacciavo quasi mai, per non
sembrare una vecchia pettegola a spiare
gente.
- Fortuna volle che il nuovo proprietario non
fosse più trasferito a Roma e che mettesse
in vendita la mansardina. Mio padre, pur con una
buona dose di sacrifici, decise di comprarla per
me, che ero già al secondo anno di
università, perché avessi uno spazio
tutto mio per studiare e dormire in pace, senza
dover più dividere la camera con mia
sorella.
- Così, io che non avevo avuto mai
nemmeno un angoletto mio, io che studiavo sul
tavolo della camera da pranzo e che spesso ero
costretta a pellegrinare qui e là con i miei
libri, io che ogni volta che volevo sentire un po'
di musica classica sollevavo le vive proteste di
madre e sorella, io, proprio io, avevo una casetta
tutta per me, col suo bagno piccolino, la sua brava
cucina, una bella stanza e la terrazza.
- Dio, che sogno poter respirare l'aria
tiepida del dolce inverno romano! Che primordiale
benessere, d'estate, innaffiare i fiori a piedi
nudi, sul mattonato quasi bollente, profumato di
sole! Quante nottate passate sui libri, mentre
intorno a me piano piano vedevo spegnersi tutte le
finestre! E potermi poi finalmente addormentare
guardando le stelle, cullata dalla musica di
Mozart.
- Quello stesso anno ebbi un'altra fortuna, la
più grande: conobbi quello che poi sarebbe
diventato mio marito, e fu amore a prima vista. Mi
scoprii anche carina, io che ero sempre stata una
ragazza del tipo 'però è simpatica',
espressione agrodolce che sottintende l'antifona
'non è una gran bellezza'. Capii finalmente
che non ero affatto più brutta delle altre,
ma che semplicemente mi ero sempre sentita tale.
Sapere che qualcuno mi trovava non solo simpatica e
intelligente, ma anche piacevole d'aspetto, mi fece
guarire dalla 'sindrome del brutto anatroccolo' ed
acquistare un minimo di sicurezza.
- Quattro anni dopo eccomi uscire dalla casa
dei miei genitori con un bellissimo abito bianco,
proprio quello delle favole, e rientrare sei piani
più su, dopo la luna di miele. La
mansardina, che noi chiamiamo scherzando 'la
soffitta', diventa così il nostro nido, fra
le risate per gli improbabili manicaretti e le
tenere effusioni di innamorati, fra le bollette da
pagare e le piccole cose di tutti i giorni. Gli
amici vengono volentieri a trovarci, specie
d'estate, quando si può pranzare in terrazza
e tutti ci sentiamo felici per quel ritaglio di
cielo che abbiamo a disposizione.
- Ancora due anni e siamo in trepidante attesa
della cicogna. I miei genitori non si tengono
più dalla contentezza, mio marito mi ricopre
d'attenzioni più del solito. Fa un po' caldo
d'estate in soffitta, col pancione, ma c'è
sempre la terrazza dove poter respirare.
- Finalmente, eccoci di ritorno dalla clinica
con il più tenero dei fagotti: una
bellissima bimba, con gli occhioni grandi e
vellutati, il visetto simpatico con due guanciotte
da mangiarsele di baci. Il nido adesso è
veramente tale e da bravi apprendisti genitori ci
affanniamo attorno al nostro piccolo cucciolo
d'uomo: seni gonfi di latte, pannolini da cambiare,
ciucciotti, pappe, bagnetti, borotalco...
- I mesi passano veloci e già si sente
balbettare 'mamma', ancora un po' e le parole
sgorgano ogni giorno più numerose e spedite,
si tentano i primi traballanti passi sul terrazzo.
Fra passeggino, seggiolone, box e lettino, la
soffitta ci va un po' stretta, ma in compenso la
bimba cresce serena, perché mi ha
costantemente a portata di mano, proprio grazie
alle piccole dimensioni della casa.
- I ricordi d'infanzia si sovrappongono al
presente: la mia bambina mi trotterella dietro
mentre stendo i panni, mi passa le mollette tutta
orgogliosa di avermi 'aiutato', come io stessa
facevo trent'anni prima con la mia mamma. Anche
d'inverno il clima mite di Roma ci permette, quasi
ogni giorno, spensierate ore di giochi sul
terrazzo, inseguendo una palla o colorate bolle di
sapone. Nell'aria gli allegri gridolini della bimba
si mescolano a quelli degli uccelli ed il rumore
dei suoi piccoli passi saltellanti risuona lieto
sopra il grès.
- Arriva il terzo compleanno ed ecco che il
marito propone di trasferirci in un paese vicino
Roma, in una casa più grande, dove la
bambina possa crescere e giocare più
liberamente. Tanto, dice lui, anche i miei genitori
si sono trasferiti al paese d'origine, dopo che
papà è andato in pensione, quindi non
lascio nessuno. Mi si stringe il cuore e, pur non
troppo convinta, cedo per il 'bene' della bambina:
avrà una sua cameretta, potrà
muoversi di più e diventare più
indipendente.
- Così impacchetto le carabattole,
faccio il bagaglio e, sospirando, mi accingo a
lasciare il palazzo dove ho vissuto per oltre
trent'anni. È vero, non lascio nessun
familiare, ma tanti amici sì. Persone con
cui ho condiviso tante emozioni, tante speranze. E
tante 'cose': il sapore della mia infanzia, le
impronte della mia vita, la dolcezza della mia
città. Salpo da questo porto con la speranza
di tornare, perché so bene che per me in un
paese estraneo non c'è passato e quindi
nemmeno futuro. Sono come una rondine, costretta ad
andar lontano per necessità, ma con la
promessa a me stessa di ritornare un giorno al
vecchio nido, sotto il tetto.
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