- I
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- "Tenga" mi disse quell'omone dall'aria truce,
senza accennare il benché minimo sorriso e mi
schiaffò in mano qualcosa, capii solo la parola
"urina" e mi vidi tra le dita un bicchiere di plastica
e una provetta. "La riempia" continuò "vada di
là" disse senza indicarmi il posto dove sarei
dovuta andare. Il suo accento siciliano era
sfacciatamente marcato. Quel tono repentino unito a
quel grugno mi procurava un malessere freddo, un senso
di inadeguatezza e uno scoramento grande che io
lì per lì fui costretta a scacciare
presa com'ero a interpretare quei mugugni strani,
quelle parole non parole dette a labbra strette, di
chi è abituato a dire sempre le stesse cose e
ha perso, se mai l'avesse avuto, quel soffio
d'umanità che Dio nella sua magnanimità
ha donato a tutti. Cercai affannosamente di ragionare:
avrei dovuto sicuramente riempire quella provetta,
sarei dovuta andare in bagno... Cinsi la mia bambina
per la vita, l'avvolsi con le mie braccia protettive e
l'aiutai a camminare.
- "Dove devo andare?" dissi ostentando un tono
sicuro, cercando di far uscire la voce alta e chiara.
"Di là" disse quel vocione. 'Non si spreca
certo in parole' pensai cercando il bagno. "Di qua,
vero?" la mia voce forte pretendeva una risposta.
"Sì" disse quella voce. Aprii la porta
titubante. Sì, era proprio il bagno. Diedi
un'occhiata intorno e per un attimo il mio scoramento
si fece risentire. Non si poteva certo dire che
curassero scrupolosamente l'igiene in quel posto.
C'era un lavandino sporco, un bidet sporco, un water
sporco, a terra era bagnato, 'pipì',
pensai.
- "Adesso come faccio, come?" quello squallore si
stava impadronendo di me. No, non potevo permettere
questo, la mia bambina aveva bisogno d'aiuto e in quel
posto avrebbero potuto aiutarla. Dovevo chiudere quei
canali, dovevo, non avevo altra scelta. La mia
sensibilità di essere umano civilizzato andava
dimenticata, andava presa con forza e chiusa a chiave.
È sorprendente come l'uomo in certi momenti
sappia dare fondo a tutte le sue risorse; la
capacità che ha l'essere vivente di adattarsi
ha del miracoloso. Non saprei dire come riuscii a fare
tutto ciò che mi era stato chiesto di fare,
fatto è che ci riuscii. Riempii quella
provetta; le mie mani si erano sporcate di urina.
'Poco importa' pensai 'in fondo è la
pipì della mia bambina'. Uscii da quel bagno
ripromettendomi di disinfettarmi le mani, stando
attenta a non toccarmi il viso. "Venga di qua". Ancora
quella voce, ancora quell'omone. Dovevo entrare in
un'altra stanza, la mia bambina doveva fare il
prelievo e io non avevo avuto ancora il coraggio di
dirglielo. "Che dobbiamo fare adesso, mamma?" La
vocina sottile della mia bellissima figlia mi distolse
dai miei pensieri. Dovevo dirglielo ma come, come?
Prevedevo la sua reazione, sapevo già cosa
avrebbe fatto, aveva sempre avuto terrore degli aghi.
Avrebbe urlato, avrebbe pianto. Avrei dovuto
dirglielo, ma dalla mia bocca non usciva alcun suono.
La condussi nell'altra camera senza parlare, senza
rispondere alle sue domande. "Dove dobbiamo andare,
mamma? Che dobbiamo fare?" voleva una risposta e io
non riuscivo a dargliela. "Vieni, siediti, scopri il
braccio" dissi come in trance. Eh sì, ero
stanca, ero proprio stanca, i miei riflessi erano
lenti se mi comportavo in quel modo. Non avevo saputo
prepararla e adesso lei aveva capito. "Perché
devo scoprirmi il braccio?" disse piangendo
"perché, mamma?" I suoi singhiozzi si sentivano
adesso per tutto il reparto, anche lei era stanca come
me, stanca e tremendamente spaventata. "Vedrai, non
è niente, fanno in un attimo, non te ne
accorgerai nemmeno, te lo giuro". "Se fa così
non ci sbrigheremo mai". Ancora quel vocione, quel
vocione che mi perseguitava. "È solo una
bambina" ribattei subito risentita. La mia faccia dai
lineamenti naturalmente dolci doveva aver assunto un
che di minaccioso se quell'uomo strano che avrebbe
dovuto essere un infermiere, cambiò
immediatamente tono, farfugliò qualcosa di
incomprensibile, qualcosa che somigliava vagamente a
delle scuse e finalmente ci lasciò in pace.
Passammo una buona mezzora a cercare di calmare nostra
figlia, ma ogni tentativo, ogni rassicurazione
risultava vana, sia io che mio marito eravamo ormai
allo stremo quando decidemmo nostro malgrado di
cambiare tattica. "Lo devi fare e basta". Il mio tono
adesso era cambiato, aveva assunto una gradazione
aspra. Scoprii il suo braccio e chiamai l'infermiera:
"sbrighiamoci" le dissi decisa "tanto non riusciremo a
calmarla mai". "Avanti, piccola, vedrai che non ti
faccio niente" disse questa usando un tono
rassicurante. Era una donna sulla cinquantina, aveva
un fare sbrigativo, un piglio vivace. Non potei fare a
meno di notare le sue braccia, le sue dita: erano
pieni di monili d'oro. Portava i capelli legati e il
suo viso, piccolo e ossuto, era incorniciato da due
grossi, enormi orecchini vistosi, sfacciati come non
mai. 'Che strana donna' pensai un po' preoccupata del
fatto che proprio lei avrebbe dovuto fare il prelievo
alla mia bambina. 'L'abito non fa il monaco' cercai di
rassicurarmi. "Come ti chiami?" quell'infermiera
cercava di distrarla. "Lucia" risposi al posto di mia
figlia che continuava a piangere ininterrottamente.
"Stai calma, tesoro non sentirai niente è solo
un pizzico, puoi starne certa, mio marito si rivolse
alla nostra bambina e intanto mi guardò negli
occhi: ormai eravamo decisi, il prelievo andava fatto
subito. Mio marito afferrò il braccio della
bambina, lo immobilizzò mentre io avvolsi il
suo viso, lo strinsi al petto mentre l'infermiera
affondò quell'ago tanto odiato. "Hai visto? Non
ti ha fatto niente" dissi rivolgendomi alla mia
piccola. Le asciugai le lacrime, la ricomposi,
l'abbracciai "brava!" le disse mio marito baciandola
sulle guance ancora bagnate "andiamo al bar"
proseguì volgendosi verso di me. "Sì,
andiamo al bar" risposi alleggerita "andiamo al
bar".
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- II
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- Forse mi resi veramente conto di quello che
stava accadendo, di quello che avrebbe dovuto accadere
quando vidi mio marito uscire da quella porta. Io e
mia figlia eravamo rimaste sole, sole col nostro
fardello da portare sulle spalle. Sapevo che il grosso
di quella battaglia spettava a me. Non è
soprattutto la mamma che si occupa dei suoi figli? Non
è forse la mamma che li segue costantemente
ventiquattrore su ventiquattro? Hanno un bel dire
quelli che si riempiono la bocca coi paroloni parlando
di emancipazione femminile, parlando di uguali diritti
e uguali doveri, parlando di mammo, coniando questo
brutto, orripilante nuovo termine. Fatto sta che da
che mondo è mondo la cosa più naturale
è che la madre si deve sacrificare per i suoi
figli, deve rinunciare, se la vita lo richiede, a
tutto per loro, deve mettere se stessa e le sue
aspirazioni un gradino sotto della famiglia e dei suoi
bisogni. E l'uomo? Che cosa spetta all'uomo? Ebbene
qualsiasi cosa egli faccia per la famiglia viene
riconosciuto ed enfatizzato, mentre tutto ciò
che una donna fa per la famiglia rientra nella
normalità, nessuno mai ti dirà
'brava'.
- Ma che vado farneticando? Vero è che
tanto, troppo c'è ancora da fare ma noi donne
di fine secolo non dobbiamo permettere che passati
soprusi vengano vissuti come se facessero ancora parte
del presente... E poi non lascerei la mia bambina per
nessuna cosa al mondo. Per staccarmi dal mio tesoro ci
vorrebbero cento, ma che dico mille guerrieri armati;
e lo stesso avrebbero un gran bel da fare a tentare di
scollarmi da lei.
- Verificato questo, sempre che ce ne fosse stato
bisogno, lascio il corridoio tenendo per mano il mio
piccolo tesoro, con ancora impressa nell'iride
l'immagine un po' sfocata del viso di mio marito, quel
viso che allontanandosi per un attimo mi aveva fatto
rabbia, quel viso che adesso nei miei occhi recuperava
e rivelava la sua vera natura: un volto dai lineamenti
comprensivi e dolci, un volto pieno d'amore. Rivedo la
sua mano forte alzata a mo' di saluto, e mi dirigo in
quella che sarebbe dovuta diventare la nostra camera
per un numero non ben precisato di giorni, per un
numero indeterminato di ore, per un numero indefinito
e infinito di minuti e secondi.
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