- Milano, 1995.
Università degli Studi, da tutti detta Statale.
In un'aula un signore di mezza età dal-l'aria
mite &endash; occhiali, pochi capelli, folta barba
bianca - picchietta con una matita il bordo di una
scrivania. Il ticchettio diventa ritmico, armonioso.
Il signore comincia a parlare seguendo quel ritmo: le
parole salgono e scendono, corrono e si interrompono;
si fanno corrente di fiume che accarezza le anse,
sosta nelle pozze, corre verso il mare. Pochi
capiscono il significato delle parole: il signore
è inglese, il pubblico italiano. Tutti,
però, si lasciano trasportare da quella voce e
da quel ticchettio. Il silenzio è assoluto.
Occhi e orecchie sono puntati sul mite signore. Alla
fine, passa qualche secondo prima che inizi
l'applauso.
- Allen Ginsberg ha appena
finito di recitare una sua poesia.
- La folla accorsa per
vedere il mito che incarna la Beat generation, a un
certo punto, ha dimenticato la celebrità e gli
scandali &endash; ciò che rende un uomo, quando
diventa personaggio pubblico, un'icona &endash; per
addentrarsi su un sentiero troppo spesso accidentato e
irto, che qui, per un momento, è parso una
strada maestra. Quello che dall'ascolto della parte
più profonda di sé porta alla nascita di
una strana cosa che permette di comunicare con gli
altri di più e meglio di quanto non si sia
fatto prima: la poesia. In occasione di uno dei primi
reading di Ginsberg Lawrence Ferlinghetti, poeta ed
editore di cui ci ricapiterà di parlare, aveva
detto: «La poesia che ha fatto tanto rumore qui
è molto diversa dalla 'poesia per la poesia',
la poesia della tecnica, la poesia per poeti e
professori. Potrebbe essere definita poesia della
strada. Perché il suo intento è di tirar
fuori il poeta dal suo interiore sacrario estetico
dove per troppo tempo è rimasto a contemplare
il proprio complicato ombelico». Questo per dire
che la poesia di Ginsberg &endash; oltre che specchio
di un tempo e documento sociologico, caratteristiche
per le quali è stata sovrabbondantemente
studiata, in tempi recenti, e prima ancora respinta o
al contrario velocemente issata come bandiera
sull'albero maestro della protesta giovanile &endash;
è prima di tutto proprio questo: poesia. Aria
fresca nelle polverose stanze della letteratura,
finestra aperta verso un possibile orizzonte, scoperta
di nuovi serbatoi di pensieri, fatti e sensazioni che
è possibile comunicare. Parleremo più
avanti, naturalmente, della vita di Ginsberg, dei suoi
pellegrinaggi, dei suoi amori, dei suoi arresti, dei
suoi successi: ma tutto ciò, che rappresenta
una sia pure interessante e in qualche misura
necessaria appendice all'attività letteraria,
non sposta di una virgola il fatto che, sopra ogni
altra cosa, Ginsberg è stato poeta in ogni
fibra del suo essere, e della poesia ha fatto qualcosa
di nuovo. O antico, che è un po' lo
stesso.
-
- «Ci sono ritmi
precisi che potrebbero venire analizzati come
corrispondenti a ritmi classici greci, o alla prosodia
sanscrita». Così Ginsberg, parlando della
sua poesia, in un'intervista del 1966. Basterebbe
questo per comprendere come i suoi testi non fossero
improvvisati e approssimativi, ma al contrario frutto
di scelte meditate, di una cultura profonda, di un
gusto raffinato; e al contempo come la sua ricerca si
fosse indirizzata verso la riconquista delle origini
stesse del discorso poetico. In ciò
incoraggiato e quasi obbligato dalle particolari
circostanze individuali e dal contesto sociale e
culturale in cui era cresciuto. E a questo punto non
possiamo che introdurre qualcuno tra i molti dati
biografici ormai entrati nella
leggenda.
- Allen Ginsberg, come dice
il cognome, era ebreo. Era inoltre omosessuale a
abbastanza anarchico (nel senso di insofferente di
ogni forma di autorità imposta). Detta
così sembra una barzelletta: qualcuno
starà pensando che gli mancava solo di essere
nero. In realtà questa sommaria carta
d'identità dà già parecchie
indicazioni: sia sulla poesia (che talvolta si
avvicina molto al salmodiare ebraico, e non a caso uno
dei testi più importanti e noti si intitola
Kaddish, parola che sta a indicare un tipo di
antichissima preghiera ebraica) che sulla sua vita:
l'omosessualità dichiarata nei testi e nei
gesti, la protesta contro ogni tipo di ideologia lo
portarono a vivere sempre un po' emarginato, anche
quando finiva sulle prime pagine di tutti i giornali.
Se poi si aggiunge che tutto ciò avveniva
nell'America degli anni Cinquanta si capisce come
rivendicare la propria diversità fosse
già di per sé un atto
rivoluzionario.
- La rivoluzione, o almeno
una certa idea di essa, Ginsberg l'aveva conosciuta
sin da piccolo. Sua madre Naomi, di origine russa, era
un'attiva filocomunista che portava il figlio alle
riunioni della piccola sezione di partito di Newark,
nel New Jersey, la cittadina ora sobborgo di New York
dove il poeta era nato nel 1926. Il padre, anche lui
poeta ma di stampo assolutamente tradizionale,
insegnava letteratura nelle scuole. Una famiglia di
media borghesia, dunque, e una provincia quieta e
conformista fecero da sfondo ai primi anni del giovane
Ginsberg. Il quale sognava di diventare avvocato del
lavoro e di battersi in difesa degli operai: con
quest'idea approdò nel 1943 alla Columbia
University di New York, munito di borsa studio. Era
stato infatti fino ad allora uno studente modello, ma
non lo sarebbe stato ancora per molto. Per vari
motivi: uno era la scoperta che la giurisprudenza
«è la scienza della bugia che diventa
potere» (e poi parliamoci chiaro, avrebbe
confidato all'amico Jack Kerouac, «è un
grande rompimento di palle»); un'altro era la
frequentazione di un gruppo di amici tra cui lo stesso
Kerouac e William Seward Burroughs: giovani e geniali
artisti che della cultura accademica non sapevano che
farsene. Anzi, lo sapevano benissimo: volevano
disfarsene. Così Ginsberg si trovò a
scrivere sulla finestra della sua camera
all'università «Butler è senza
coglioni» (Butler era il presidente della
Columbia), e questo era già un fatto
gravissimo, e poi ospitò Kerouac &endash; a
quel tempo persona non grata nel campus a causa di un
suo precedente indiretto coinvolgimento in un caso di
omicidio tra omosessuali &endash; nella stessa stanza.
Risultato: espulsione per un anno. Ma Ginsberg, allora
diciannovenne, non ne fece una tragedia. Tanto quello
che lui cercava, nei libri e poi nelle strade, non
l'avrebbe certo trovato nelle asfittiche aule
universitarie (che frequentò ancora,
saltuariamente, fino al 1949, anno della
laurea).
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Un' immagine
della famosa serata del 1956 in cui
Ginsberg lesse per la prima volta Howl.
Lui è di spalle; al centro Kerouac.
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L'anno dell'espulsione, a
cavallo tra 1945 e 1946, fu molto intenso. L'amicizia
con Kerouac divenne sempre più profonda.
«Credo che la spiritualità fosse il nostro
primo pensiero &endash; dirà più tardi
Ginsberg &endash; perché avevamo sperimentato
un qualche genere di visione che ci aveva spinto oltre
la nozione dell'arte intesa come una carriera
qualsiasi o un modo per arricchire. Improvvisamente ci
eravamo accorti che l'arte aveva un'influenza sulla
gente, che aveva delle conseguenze, e che avrebbe
potuto aiutare ad essere consapevoli e tolleranti.
L'esserci resi conto di ciò ci aveva aperto un
mondo di possibilità». Entrambi poco
più che adolescenti, erano irresistibilmente
attratti da Burroughs, di una decina d'anni più
anziano. Vale la pena di spendere due parole su questo
personaggio: dopo aver molto studiato &endash; ad
Harvard, Vienna e alla Columbia &endash; aveva
rifiutato il suo rispettabile passato per vivere nelle
zone più pericolose della città convinto
che solo la discesa negli inferi, nel ventre della
società, gli avrebbe permesso di afferrare
l'esperienza umana in tutte le sua sfaccettature.
Dalla sua libreria spuntavano i volumi di Rimbaud,
Baudelaire e Blake. Dalle sue labbra pendevano
Ginsberg e Kerouac, ansiosi di essere introdotti nelle
stanze segrete che portano alla visione della
«Realtà Suprema» (parole di
Ginsberg). Stanze che, in quel periodo, erano dense
del fumo della marijuana, agitate dai fantasmi degli
allucinogeni, pervase dai respiri di amori
irregolari.
- Fu allora che Ginsberg
accettò la propria omosessualità.
Secondo una sua testimonianza, l'iniziazione avvenne
per opera di Kerouac, all'aria aperta. Ma tra loro non
iniziò mai una vera relazione, sebbene Ginsberg
fosse davvero innamorato. Poi, verso la fine del 1946,
arrivò a New York un giovanotto di nome Neal
Cassidy che col suo vitalismo misto a una vera
ingordigia intellettuale affascinò sia Kerouac
(che ne fece il protagonista del romanzo On the Road)
che Ginsberg. Per lui fu anzi un vero colpo di
fulmine. Un amore disperato, però:
perché Cassady era eterosessuale (per quanto
non si rifiutasse ai gay), aveva già una moglie
e svariate altre donne. Per qualche mese, tuttavia, i
tre viaggiarono molto, separatamente ma più
spesso insieme, vivendo ai margini o fuori della
legalità per arrangiare un po' di soldi. A un
certo punto Ginsberg decise di imbarcarsi come
ufficiale di bordo su una nave per guadagnare qualcosa
con l'obbiettivo di trovarsi dopo qualche mese con
Cassady; che però, al suo ritorno alla fine del
1947, si era risposato.
-
- «Nel 1948 durante
l'estate abitavo a East Harlem. Quella settimana avevo
vissuto in uno stato molto solitario, una specie di
scura notte della mente forse perché tutti
quelli che conoscevo erano partiti, Burroughs era in
Messico, Jack era a Long Island e relativamente
isolato. Soprattutto c'era che avevo fatto l'amore con
Neal Cassady e alla fine avevo ricevuto una sua
lettera che diceva che era tutto finito, basta.
Probabilmente era diventato troppo per lui, in parte
perché era a 4500 chilometri di distanza e
aveva 6000 ragazze sull'altro lato del continente a
tenerlo occupato e poi qui c'era il mio solitario
grido di disperazione da New York. E mi stavo anche
laureando da scuola e non avevo nessun posto dove
andare e difficoltà a trovare un lavoro.
Sicché in definitiva per me non c'era altro da
fare che mangiare legumi e vivere a Harlem.
Così, in quello stato di irreparabilità,
o conclusione come di non avere una Nuova Visione
né una Realtà Suprema e niente altro che
il mondo davanti a me e di non sapere che cosa
farne
c'era uno strano equilibrio di tensione in
tutte le direzioni. E subito dopo esser venuto, in
quest'occasione, con un libro di Blake in grembo
&endash; non stavo neanche leggendo, avevo l'occhio
posato sulla pagina del Girasole, e d'improvviso
apparve &endash; la poesia che avevo letto un mucchio
di volte e d'improvviso capii che la poesia parlava di
me. Ah, Girasole! / Stanco del tempo, / Che conti i
gradini del sole; / Cercando quel dolce clima dorato,
/ dove si compie il cammino del viaggiatore. Ora
cominciai a capirla, la poesia, mentre la guardavo, e
d'improvviso contemporaneamente al capirla udii una
voce molto profonda, terrena, grave nella stanza, che
ritenni immediatamente la voce di Blake. L'apparizione
della voce mi destò profondamente alla
comprensione della poesia, perché la voce era
così completamente tenera e bella
antica.
Come la voce dell'Antico Giorno. Era come se Dio
avesse una voce umana, con tutta l'infinita tenerezza
e gravità mortale di un Creatore vivente che
parla a suo figlio. Guardando il cielo attraverso la
finestra mi parve di vedere le profondità
dell'universo, semplicemente guardando il cielo
antico. E questo era il luogo molto antico di cui
Blake stava parlando, il dolce clima dorato, era
questa esistenza! Questo era il momento per il quale
ero nato. Questa iniziazione. Questa visione di questa
consapevolezza di essere vivo in me stesso, me stesso
vivo nel Creatore. E il secondo pensiero fu di non
dimenticare mai, non rinnegare mai, non negare mai,
non perdermi mentalmente aggirandomi in altri mondi
dello spirito o mondi americani o mondi di impieghi o
mondi di pubblicità o mondi di guerra o mondi
terreni. Lo spirito dell'universo era ciò che
io ero nato per capire».
-
- La prima reazione di
Ginsberg a questa esperienza mistica fu di correre a
raccontare a una stupefatta vicina di casa di aver
appena «visto Dio». Possiamo immaginare il
dito della vicina di casa che rotea accanto alla
tempia: un drogato omosessuale che parla di Dio,
figuriamoci. Comunque quest'esperienza, divenuta
leggendaria e riportata in innumerevoli brevi o lunghe
biografie, cambiò la vita di Ginsberg.
Cominciò a tenere un diario nel quale annotava
incontri, spostamenti e pensieri; dopo poco, avrebbe
cominciato a lavorare seriamente alla poesia. Il che
avvenne in circostanze solo apparentemente
sfavorevoli: nel 1949, infatti, fu indirettamente
coinvolto in un traffico di merce rubata e
finì, anziché in prigione, in un
istituto psichiatrico dove conobbe il poeta Carl
Solomon, che lo avvicinò ai testi surrealisti e
più tardi l'avrebbe introdotto nell'editoria.
Dopo un soggiorno in casa del padre Ginsberg
tornò a New York e ricominciò a
frequentare Kerouac e gli altri del gruppo beat. Nel
frattempo aveva iniziato una corrispondenza con
William Carlos Williams, uno dei maggiori poeti
americani del Novecento, che più tardi
conoscerà. Proprio con un incontro tra i due si
apre il Diario beat di Ginsberg, raccolta di
annotazioni scritte tra il 1952 e il
1962.
- Perché beat?, ci
si potrebbe domandare a questo punto. La genesi della
parola è curiosa e merita una breve
digressione. Tra gli amici di Ginsberg figurava anche
Herbert Hunke, scrittore, giocatore d'azzardo e
tossicomane. Una delle sue espressioni favorite era
«man, I'm beat», ragazzi, sono fatto,
cioè stanco, sfinito. I possibili significati
della parola beat affascinarono Kerouac, al quale
sembrò di potervi leggere il sentimento comune
di tutte le persone sconfitte o relegate ai margini
della società: così la citò in un
suo libro del 1950 (The Town and the City). Un paio
d'anni dopo un cronista pubblicò sul New York
Times un articolo intitolato This is the Beat
Generation: da quel momento beat divenne un'etichetta
appiccicata a proposito o a sproposito su chiunque
facesse uso di droghe o portasse i capelli lunghi.
Potenza della stampa. E pensare che beat, secondo
Kerouac, stava a indicare «una stanchezza verso
tutte le convenzioni del mondo».
-
- A New York Ginsberg
frequentava il bar San Remo, un posto dove si suonava
jazz e si incontravano artisti. Lì
incontrò il «maledettissimo» poeta
inglese Dylan Thomas un anno prima della sua morte e
Gregory Corso, un giovane del Greenwich Village che
scriveva poesie e aveva sempre vissuto per la strada.
«Non so se Jack e Allen conoscessero molti
malviventi all'epoca» racconta Corso.
«Conoscevano me, e io ero stato in prigione, e
conoscevano Hunke, ma noi più che altro eravamo
poeti e scrittori. Ci era solo capitato di finire in
prigione». Durante le serate passate ad ascoltare
i voli d'uccello del sax di Charlie Parker e il ritmo
della musica bop e a discutere di letteratura prendeva
forma una poetica comune, un obbiettivo comune: quello
di registrare la parlata americana autentica per
riprodurla senza consapevoli interventi letterari,
come un flusso continuo di energia e respiro.
Già il poeta Williams aveva agito in questo
senso, e prima ancora Whitman, e in mezzo a loro Ezra
Pound. Tutti avevano percepito l'aria di muffa che
veniva dalla lirica americana, legata mani e piedi a
un meccanico conteggio di accenti tonici regolari nel
verso (il ritmo sing-song, diceva Ginsberg) e ormai
incapace di registrare le emozioni e le variazioni di
velocità e musicalità della parlata.
Questa poesia muta, nel senso di non comunicativa, era
quella insegnata nelle scuole e nelle
università; l'altra poesia andava invece a
ripescare e sperimentare antichi stili poetici, da
quelli greci a quelli cinesi o persiani o trobadorici,
per trovare una nuova misura, misura fondata sulla
lunghezza delle vocali &endash; un ritmo più
sottile, dunque, per il quale occorre un orecchio
molto molto allenato &endash; e la propria forza
espressiva. «Se l'accento diventa automatico e
meccanico anche il ritmo diventa automatico-meccanico
e perciò le emozioni sono automatiche
meccaniche e l'intelletto è automatico e
meccanico perché ci si limita a riempire un
modulo predisposto in anticipo, come modulo
burocratico»: il superamento della tradizione
ufficiale, secondo queste dichiarazioni di Ginsberg,
partiva quindi dal rifiuto di una comunicazione
preconfezionata, sintetica come la plastica (qualcosa
di simile, diceva Ginsberg, era avvenuto in Italia con
Ungaretti. Anche lui aveva spezzato il verso
tradizionale per liberare la forza della parola). La
ricerca di nuove modalità di costruzione del
verso non era, è ovvio, un puro gioco
accademico. Poggiava su solide basi di ricerca, oserei
dire scientifiche, che allo studio teso e accurato
della poesia antica e moderna univano il costante
tentativo di affinare sensibilità acustica e
potenza intuitiva (di cui l'uso delle droghe, dapprima
smodato e poi sempre più rarefatto); e insieme
c'era la rabbia e l'insofferenza verso l'America degli
anni Cinquanta puritana e conformista, l'America del
maccartismo, della provincia polverosa: un verso di
Gregory Corso recita «questa poesia d'oggi
è una triste necessità
umana».
-
- E a un certo punto tutto
ciò esplose. Dopo New York Ginsberg era partito
in autostop per il Messico e lo Yucatan, aveva
nuovamente visto Neal Cassady ed era stato cacciato
dalla di lui moglie che li aveva colti in flagrante
adulterio; si era infine stabilito a San Francisco.
Lì conobbe, nel 1954, il poeta Peter Orlovsky
che sarebbe diventato il suo compagno per la vita;
lì iniziò a frequentare circoli dove si
tenevano letture di poesia e, come sempre, si suonava
jazz. C'era un posto che gli era particolarmente
congeniale: una libreria, la prima al mondo dove si
vendevano paperback (tascabili economici) aperta poco
tempo prima da Lawrence Ferlinghetti sulla Columbus
Avenue col nome di City Lights Books. Lì,
nell'ottobre del 1955, Ginsberg lesse per la prima
volta Howl (Urlo), con Kerouac che batteva colpi su
una bottiglia di vino e lo incitava gridando
«Vai! Vai!» per dare alla serata l'atmosfera
di un evento musicale piuttosto che quella di un
formale ritrovo letterario. La recitazione di Ginsberg
elettrizzò il pubblico: tutti sentivano la sua
passione, l'impeto torrenziale della sua poesia, la
forza ribelle che covava in ognuno di loro trasferita
e accresciuta dai versi di Howl. Il giorno dopo
Ferlinghetti gli inviò un telegramma con queste
parole «Ti saluto all'inizio di una grande
carriera. Quando mi dai il
manoscritto?»
- Era, in effetti, l'inizio
di una grande carriera che avrebbe portato Ginsberg a
leggere le sue poesie in tutto il mondo e a essere in
tutto il mondo acclamato per i più vari motivi
e inseguito da fan e fotografi. Nell'immediato,
comunque, la pubblicazione di Howl nei tipi della
Pocket Poets per City Light creò un grosso
scandalo che si aprì con il clamoroso arresto
di Ferlinghetti e si concluse con un processo nel
quale il giudice, dimostrando rara lungimiranza,
asserì che quando si deve decidere se un testo
è osceno o no bisogna stare attenti a non
dimenticare il motto Honny soit qui mal y pense
(cioè prima di guardare l'oscenità degli
altri stiamo attenti a quella che si nasconde in noi).
Il difensore di Ferlinghetti disse davanti ai giurati:
«Il tema della poesia è annunciato nel
primo verso. I versi successivi della prima parte
tentano di creare l'impressione di una specie di
incubo nel quale le persone rappresentate dall'autore
come 'le più belle menti della mia generazione'
si aggirano come dannati nell'inferno. Questo è
raggiunto in una serie di immagini che potrebbero
venire definite surrealiste, una specie di
allucinazione. La seconda parte della poesia è
invece una denuncia di quegli elementi della
società moderna che secondo l'autore
distruggono le migliori qualità della natura
umana e le menti migliori. Questi elementi sono
soprattutto il materialismo, il conformismo e la
meccanizzazione tesa verso la guerra. La terza parte
è la rappresentazione specifica di ciò
che l'autore considera una condizione generale. La
quarta parte, la nota, è un commento
all'atteggiamento espresso in Howl e intende dire che,
nonostante tutta la depravazione rivelata in Howl,
nonostante tutta la disperazione, le sconfitte, la
vita è essenzialmente santa e così deve
essere vissuta». Sintetico, lapidario ed
efficace. Assai più degli esperti dispiegati
dall'accusa che erano: una maestrina privata di
dizione secondo la quale a leggere quella roba le era
parso di trovarsi in una fogna e un assistente
universitario un po' stranito di trovarsi in mezzo a
un tale can-can. Alla fine, a molti parve chiaro che
il vero atto di oscenità l'aveva commesso la
polizia sequestrando il libro.

|
- BobDylan e Allen Ginsberg nel
1975. Amici e compagni di lotte, si erano
conosciuti quando Dylan era poco
più di un adolescente.
- Fu Ginsberg a prestargli i primi
libri di Rimbaud
|
-
- Mentre si svolgeva questo
processo, mentre molti intellettuali si schieravano
con Ginsberg, mentre Howl diventava un best-seller
alle cui letture pubbliche si affollavano migliaia di
giovani, l'autore se ne andò a Tangeri a
trovare Burroughs e Kerouac. Da lontano guardava il
putiferio scatenato dalla sua poesia e ne era un po'
sorpreso e un po' impaurito. Com'è ovvio in chi
si vede improvvisamente letto e citato in ogni luogo e
non capisce bene se è diventato una moda anche
lui, o se qualcuno ha davvero letto i suoi versi. In
ogni caso, lui andò per la sua strada. Una
strada ancora molto lunga e assai poco rettilinea,
almeno in termini spaziali. Negli anni successivi fu
in India e si stabilì in un villaggio a
quattrocento chilometri da Calcutta, nel cuore della
giungla. Visse in capanne di paglia, fece yoga coi
santoni e fumò l'erba nelle pipe sacre, conobbe
giovani poeti indiani incoraggiandoli a stendere un
manifesto della loro poesia; poi andò in
Giappone, in Russia, nell'Europa occidentale: un po'
ovunque, sempre col fido Orlowsky a fianco. A Praga,
nel 1965, fu incoronato Re di Maggio dagli studenti:
l'onore a cui teneva di più. Intanto continuava
a scrivere le sue poesie, lavorando sul verso lungo
«basato su un tipo particolare di respiro
eccitato, solo con l'anima che ho io. Che è lo
stesso in Howl come in Kaddish come nel salmodiare o
cantare i mantra». Kaddish, la raccolta
successiva a Howl, fu scritta in parte a Parigi e in
parte a New York e secondo alcuni rappresenta la punta
massima della sua poesia: è una sorta di grande
canto funebre per la madre Naomi, morta nel 1956 in
manicomio, oltre che «un'appassionata
commemorazione dei luoghi e dei personaggi del
marxismo americano degli anni Trenta, rappresentati al
di fuori di un qualsiasi schema ideologico" (sono
parole di Fernanda Pivano, grande amica di Ginsberg,
profonda conoscitrice della cultura americana e
importatrice dei temi e della poesia beat in Italia).
Ginsberg tornò in America all'inizio degli anni
Sessanta, in coincidenza con l'inizio della guerra del
Vietnam. Pacifista convinto, il poeta diede voce alla
protesta giovanile antiguerrafondaia e
trasformò le sue poesie in canzoni insieme a
Bob Dylan, amico e compagno di battaglie politiche.
Dylan fu il primo cantautore a unire il linguaggio e
le idee dei beat alla forza di penetrazione della
musica rock; a sua volta influenzò altri
cantanti come John Lennon e Paul McCartney; i quali,
specie Lennon, avevano già cominciato ad
avvicinarsi individualmente e per strade proprie alla
letteratura beat. C'è anzi un aneddoto che vale
la pena di raccontare: nel giugno del 1960 i Beatles,
che allora si chiamavano Beetles, avevano accompagnato
con le loro musiche la recitazione di versi di un
poeta londinese; su suggerimento di questi mutarono il
nome del gruppo, adottando il termine beat e
portandolo poi in giro per tutto il mondo. E se poi
vogliamo citare solo uno degli altri cantanti rock
vicini e affini ai beat, facciamolo il nome di Jim
Morrison, che forse i lettori ricorderanno. Anche lui
leggeva ogni libro beat che gli capitasse tra le
mani.
-
- Il movimento beat
cominciò a frantumarsi e a perdere l'iniziale
energia intorno alla metà degli anni Settanta.
Esattamente come Ginsberg aveva predetto nel 1973 con
La caduta dell'America, impressionante poema della
storia contemporanea improntato a un cupo pessimismo
scaturito dall'ammissione di impotenza di fronte alla
violenza di una società sempre più
chiusa e di un potere sempre più ostile. Anche
per questo i suoi lavori successivi furono influenzati
soprattutto dalla mistica orientale e volti a una
cammino più introspettivo. Molte cose erano
cambiate anche nella vita privata di Ginsberg: alla
fine degli anni Sessanta erano morti sia Cassady (cui
dedicò l'epitaffio «puro spirito,
adesso») che Kerouac. In onore di questi Ginsberg
fondò la Scuola di Poetica disincarnata di Jack
Kerouac, presso l'Università Buddhista di
Naropa, nel Colorado; in occasione del 25°
anniversario della pubblicazione di On The Road, nel
1982, allestì una grande celebrazione pagato in
larga misura di tasca sua. Neppure gli ambienti
ufficiali, a un certo momento, poterono più
ignorare la sua fama. Così venne accolto, negli
anni Settanta, nell'Accademia americana di Arti e
Lettere, e riuscì poi a farvi entrare anche
altri amici suoi, tra cui Burroughs. E questo fu solo
uno dei tanti riconoscimenti. Nel 1985, poi, aveva
fatto stampare le fotografie scattate nel corso di
tanti anni agli amici, organizzando negli anni
successivi una serie di mostre che documentavano la
leggendaria epoca beat: di fondamentale importanza,
quindi, anche dal punto di vista storico. E tanto era
piaciuta a Ginsberg questa sua nuova attività
che, in anni recenti, non si definiva più poeta
ma fotografo. Anche se scriveva ancora poesia &endash;
Saluti cosmopoliti, l'ultimo volume pubblicato,
è del 1995 &endash; teneva pubbliche letture e
incideva le sue recitazioni su dischi. E continuava le
sue sperimentazioni linguistiche, la sua caccia
all'autenticità espressiva, le sue meditazioni
mistiche iniziate molto prima che tutto ciò
andasse di moda.
-
- Allen Ginsberg è
morto il 5 aprile del 1997, poco più di un anno
fa. Due settimane prima gli avevano diagnosticato un
cancro al fegato che, comunque, non gli avrebbe
lasciato che pochi mesi di vita, se non fosse
subentrato l'infarto. È morto come un vecchio
patriarca, nel suo letto, circondato dagli amici. Fino
a pochi giorni prima agli studenti del college di
Brooklin dove insegnava aveva ripetuto: «la
poesia è la sola arma che abbiamo». Lui
l'ha usata, quell'arma, per tutta la vita; e nemmeno
la voracità della stampa e la famelica
ingordigia dei mass media sono riuscite a
spuntargliela. Nei giorni successivi alla sua morte i
giornali di tutto il mondo si sono riempiti di
testimonianze e articoli di amici o estimatori della
sua poesia. In Italia, ovviamente, grande spazio hanno
avuto gli interventi di Fernanda Pivano che tra
l'altro ha scritto, riferendosi ai versi del poeta,
che erano «polemici senza astio». Lettura
precisa dell'opera di un poeta che della formula
«peace and love» aveva fatto la chiave di
volta di tutta la sua esperienza poetica e personale.
Così, idealmente, chiniamo il capo di fronte al
suo ricordo: nel saluto indiano a lui tanto
caro.
-
- Olivia
Trioschi
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