Il tesoro delle lettere:
un intaglio di draghi



La scoperta di un antico maestro

di
Itala Vivan

 

Vorrei aver fissato subito sulla pagina il fulgore che si sprigionò sotto i miei occhi un anno fa, la prima volta che percorsi la versione italiana del testo di Liu Xie Il tesoro delle lettere: un intaglio di draghi. Quel che mi si aprì dinanzi fu uno scrigno colmo di gioie sfavillanti, sino allora celate dal coperchio intarsiato da una lingua a me sconosciuta, che prescriveva l'ingresso da distanze impercorribili. Il lavoro di traduzione di Alessandra Lavagnino, di cui posso appena intravedere l'appassionata dedizione attraverso l'eleganza e la precisione della veste italiana, aveva perforato e come dissolto l'impenetrabilità del coperchio, dandomi accesso a un autentico tesoro.

Tale è il compito del traduttore: lavoro arduo e per sua stessa natura 'impossibile', perennemente perfettibile e inevitabilmente approssimativo, eppure così sapiente e sottile, così indispensabile.

Oggi, a oltre un anno di distanza da quelle prime abbacinate perlustrazioni nel libro di Liu Xie, riapro con emozione il volume custodito da un drago inquartato in copertina, ed ecco ancora riprovo quella prima sensazione: una sorta di tremore segreto, un battito più rapido del cuore e, insieme, un convergere dell'attenzione verso il piacere della scoperta e della riscoperta.

Per prima cosa, il wen.

 

Grandissimo è il potere del wen! È nato con il cielo e con la terra. In che modo? [Dapprima] il nero e il giallo mescolarono i propri colori, poi il quadrato e il rotondo distinsero le loro forme; il sole e la luna, due dischi di giada preziosa comparvero sospesi alla volta celeste, i monti e i fiumi, splendenti come broccato, si distribuirono ordinati sulla superficie della terra. Tutto ciò costituisce il wen del Dao (p. 28).

 

Scopro che "il wen della parola è l'essenza dell'universo" (p. 29), e il wen al centro del mondo umano è la scrittura, il segno grafico che governa lo svolgersi della storia della società cinese; e racchiude in sé il bello e il buono, l'estetica e l'etica. Il potere e le vicende della storia si iscrivono nelle leggi del wen, che articola la cultura umana lungo binari di complessa bellezza rituale legati a modelli canonici.

 

Quando si descrive l'animo umano, o si disegnano figure di oggetti, il pensiero cesella «impronte di uccello» e le parole si intessono con «reti da pesca» a tale splendore diamo il nome di «bellezza» (p. 218).

 

Mentre l'antico maestro parla di bellezza, la stessa bellezza mi appare già incorporata nel suo significare, e si dispiega con incedere lento, graduale, misurato e insieme colmo di emozione. Come posso io, lettore remoto di Lu Xie, cogliere quella segreta malìa, se della lingua originale non vedo più i segni, i caratteri antichi, ma leggo invece parole italiane? Cosa mi ha trasmesso la traduzione di Alessandra Lavagnino, come ha potuto ricostruire o ricreare il sortilegio cinese di sapienza millenaria? Eppure nel capitolo iniziale mi sembra di ritrovare il shi, il canto-parole in cui poesia, musica e danza si legano insieme, il complesso nodo che tante volte mi incanta in certa poesia africana ove la danza è performativa anziché mimata nel segno o riprodotta nel ritmo, mentre la musica è arte e tecnica alleata.

Ma l'arte non è mimesi in Cina, come deduco dall'insegnamento dell'antico maestro; essa è piuttosto vicina all'enigmaticità del rito racchiusa nei trigrammi che già da tempo mi hanno incantato nel Libro dei mutamenti.

E qui rammento, ora, la subitanea e inattesa scoperta nella città cinese di Xian, dove, in una selva di stele di scuro basalto, trovai appunto scolpito il testo del Libro dei mutamenti che tanto mi aveva intrigato sin dagli anni giovanili. Quella pietrificazione del segno, quella normativa che così fortemente, e materialmente, si poneva a base del potere culturale e sociale, mi sconvolse, nella tappa a Xian durante il mio primo viaggio in Cina. Questo antico sapere struttura il potere politico e costruisce la storia, scrivendola, e regolandone la forma.

 

La vita scorre dentro strette sponde,
senza sponde è sole il sapere.
Difficile è inseguire tutte le cose,
facile riuscire seguendo la [propria] natura.
Fermo come roccia di sorgente,
rifletto sul senso della scrittura.
Se la scrittura scaturisce dal cuore
allora il mio cuore ha trovato un rifugio. (p. 327)

 

Così si conclude Il tesoro delle lettere, con un emblema che suggella il capitolo ove è tracciato il disegno dell'opera. Riscopro qui la bellezza velata dell'emblema europeo cinque e seicentesco, gioco di rifrazioni e di sensi ove echi incantati indicano vie eccellenti. Resa muta dallo stupore raccolgo il guanto della sfida, il confronto con la mia cultura d'origine, la mano mozza che autonoma verga il segno. Abbacinata dal suo splendore, richiudo l'antico scrigno cinese, affidandone i segreti al drago danzante attorto in copertina.

 



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