Recensioni
di Donatella Dolcini

Jayasi Malik Muhammad
IL POEMA DELLA DONNA DI LOTO (PADMÂVAT)
(a cura di G. Milanetti, Letteratura universale Marsilio)
Venezia, Marsilio Editori, 1995
 
Singh Khushwant,
QUEL TRENO PER IL PAKISTAN
(trad. it. di M. T. Marenco, glossario di M. Restelli)
Venezia, Marsilio, 1996
 
Stefano Piano (a cura di),
ENCICLOPEDIA DELLO YOGA
Torino, Promolibri, 1996

 
 
 
 
Jayasi Malik Muhammad
IL POEMA DELLA DONNA DI LOTO (PADMÂVAT)
(a cura di G. Milanetti, Letteratura universale Marsilio)
Venezia, Marsilio Editori, 1995
 
La sintesi di cultura che venne a formarsi sul suolo indiano quando gli apporti islamici smisero di presentarsi in veste pesantemente vessatoria nei confronti del mondo indù e si sedimentarono su quest'ultimo provocandone un rinnovamento spesso proficuo, si offre sotto una molteplicità di aspetti di fascino infinito: dai palazzi alle miniature, dalla musica alla poesia. Per non parlare del campo in cui più marcata ha sempre lasciato la sua impronta lo spirito indiano, ossia la religione: è diventato ormai un inconfutabile assioma che in India tutto si basi sulla religiosità, una religiosità fatta specialmente di misticismo e di quella sorta di abbandono ora fiducioso ora rassegnato ad un Essere superiore che in qualche modo, a volte, si finisce, in Occidente, per assimilare ad un atteggiamento fatalistico. E che questa sia davvero una caratteristica fissa del genio indiano viene ampiamente dimostrato in tutti i contesti, compreso quello appunto dell'incontro e del rimescolamento di elementi indù e musulmani nella "nuova" India dei secoli medievali.
Il poema di Jayasi, qui in prima traduzione italiana (in precedenza ne esisteva solo un'altra versione in lingua occidentale - inglese - eseguita nell'arco di ben trentatre anni - 1911/1944 - nella parte iniziale da G. A. Grierson e S. Dvivedi, poi da A. G. Shirreff, ma su una serie di edizioni critiche rivelatisi nel tempo non del tutto affidabili), si pone come splendido esempio proprio di questa avvenuta compenetrazione e rielaborazione. Jayasi, soprannome derivato al poeta dalla sua origine geografica (Jayas - U. P.), visse tra la fine del XVI e gli anni '40 del XVII secolo, e, secondo quanto ricavato da cenni autobiografici contenuti nelle sue opere, oltre che da un rigoroso sfrondamento delle leggende correnti sul suo conto, fu "un contadino padre di famiglia" che, colpito da più sventure, si diede a vita ascetica, seguendo un suo profondo cammino interiore (fu conosciuto con l'epiteto di "ricercatore della verità") di tipo sufico. Vale qui la pena di ricordare, a chiarimento del nostro precedente assunto, che si dovette proprio al sufismo una penetrazione anche pacifica dell'Islam nel sub-continente indiano: attirati dalla perifericità e dall'esiguità degli iniziali insediamenti musulmani in India (Multan e Mansura), alcuni gruppi di sufi, al tempo particolarmente invisi all'ortodossia islamica a causa del misticismo da essi fervidamente praticato, si stabilirono in quei centri di Sindh e Panjab, in cui l'atmosfera altrettanto mistica del locale Induismo permetteva loro una vita religiosa indisturbata. L'incontro delle due correnti sfociò in una facile accettazione dell'Islam da parte di una buona fetta della popolazione del posto, allettata alla conversione anche dall'inesistenza delle caste in seno al modello sociale musulmano. In seguito, il sufismo rinvenne terreno favorevole un po' ovunque in tutto il Paese ed anche negli strati più alti della società - il caso più eclatante è sicuramente quello del grande imperatore mugal Akbar (1556-1608) -, e fu la concausa dello sviluppo di quelle "sette" (sampradây) di fede sincretistica, profondamente rinnovatrici dell'Induismo fino anche al punto di originarne "rami" indipendenti, quali il Sikhismo.
Jayasi, dunque, essendo sì musulmano, ma nel contempo non riuscendo ad annullare la sua originaria appartenenza al mondo culturale indiano, finisce per creare opere di estrema paradigmaticità da questo punto di vista, prima fra tutte proprio il Padmâvat. Il poema, infatti, trae spunto dalla vicenda amorosa del sovrano di Chittor, Ratan'sen, che, avendo sentito decantare la sublime bellezza di Padmini, principessa di Simhal (Sri Lanka), decide di abbandonare regno e famiglia e di affrontare un terribile viaggio per terra e per mare per conoscere la fanciulla ed offrirle il suo cuore e la sua vita stessa. Dopo essere riuscito in forza del suo amore a superare tutte le difficoltà e ad impalmare la principessa, il re torna con la sposa a Chittor; qui, però, non lo attendono pace e felicità, ma l'esiziale compito di ricacciare l'offensiva del sultano di Delhi contro il suo regno. Sconfitti nonostante il loro valore, i Râj'put in ottemperanza al codice d'onore del guerriero vinto, compiono il terribile rito del jauhar: gli uomini vanno incontro alla morte sul campo della battaglia finale, le donne si immolano su un unico, grande rogo.
Naturalmente, una prima lettura di superficie della storia, che, per quanto affascinante, resta comunque fine a se stessa nell'area della tradizione letterararia di genere cavalleresco e curtense, va integrata da un'interpretazione di livello più profondo, quella che, stando al profilo "storico" del poeta, doveva certo presentarsi di ben maggior peso per lui. In questa nuova ottica, il re diviene simbolo dell'anima umana, che, passata per una serie di esperienze mondane falsamente soddisfacenti (il regno, la fama, la ricchezza, l'amore, la famiglia), quando comprende l'infinita superiorità della completa realizzazione spirituale (la splendida principessa d'oltremare), non esita a rinunciare a tutto, a lottare contro mille ostacoli, a sacrificare la sua stessa vita pur di ottenerla. Non dissimile l'abbandono da parte del principe Gautama dell'ovattata vita di corte per andare in cerca, tentativo dopo tentativo, della meta suprema: il liberatorio nirvâna. (D'altro canto, sotto tutte le latitudini l'uomo anela ad una felicità, che, se vuole davvero essere definitiva e completa, non può non esigere il rifiuto del soddisfacimento di bisogni e desideri soggetti all'inevitabile usura del tempo e delle circostanze. Così, per esempio, le parabole di Matteo, 13-44: "Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova, ... va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo." O anche "è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra").
Di nuovo nella scia della tradizione locale, induista e, volendo, buddhista, va infine interpretato il tema del ritorno e della morte gloriosa che lo conclude, metafora della capacità dell'uomo che ha completato la propria realizzazione spirituale di continuare a vivere immerso nel mondo, ma senza subirne ormai il fascino e quindi il legame, pur operando fino all'esaurimento delle proprie forze per il bene di chi gli sta attorno.
Ma ciò che dal punto di vista sincretistico colpisce particolarmente nell'opera di Jayasi sta piuttosto nel modo in cui l'Autore tratta la materia narrativa, maneggiandola ora da indù ora da musulmano con estrema disinvoltura, senza preoccuparsi troppo di infarcire lo stile di orpelli retorici, topoi, richiami mitologici e riminiscenze di sanscritica ascendenza, anche dove più forte dovrebbe risuonare la sua parola di conclamato musulmano. Basti come esempio la "lauda" che costituisce il primo canto del Padmâvat, ad esaltazione sì della gloria di Allah creatore, della grandezza di Sher Shah, mecenate del poeta, della santità di Saiyad Asraf, suo maestro spirituale, ma ricalcata senza dubbio anche su infiniti modelli dell'India antica e di quel tempo, a partire dalla descrizione apofatica con cui si cerca di rendere l'immagine di Dio, all'attribuzione di un'ascendenza solare a Sher Shah, all'equiparazione della funzione del maestro a quella del nocchiero. Per non parlare della continua menzione di figure del pantheon e del mito induista, come Bali e Vikrama e Karna, che, pur riconosciuti come dotati di grandi virtù, non possono certo reggere il confronto con il signore di Delhi. Tali esempi si possono incontrare praticamente in ogni pagina dei cinquantotto canti del poema, tanto che crediamo non troppo lontano dal vero affermare che quasi la metà dell'opera testimonia dell'effettiva appartenenza del suo Autore alla sfera culturale induista.
Il fenomeno, del resto, si riscontra in misura ancor più massiccia nello stile linguistico di Jayasi. L'âvadhî, la forma di hindî usata nel Padmâvat, durante tutti i secoli del Medio Evo indiano godette di grandissima fortuna letteraria, innalzata alle maggiori vette dell'arte da poeti quali il sommo Tul'si Das (1532-1623) e lo stesso Jayasi. In tali mani essa divenne uno strumento prezioso e raffinato, in cui alla ricca eredità del sanscrito si aggiungevano la "moderna" vitalità e la maggior "internazionalità" di un linguaggio in costante evoluzione, attento alle esigenze sempre nuove di tempi e circostanze. Di qui una smisurata varietà specialmente lessicale, come il lettore italiano può subito cogliere anche nella traduzione nella nostra lingua, che, ben adeguandosi all'originale, appare, è il caso di dirlo, come un rutilante e fantasmagorico caleidoscopio specialmente di similitudini, aggettivi, epiteti ecc., tanto più colmi di magiche suggestioni nella loro forza descrittiva, quanto più lontani dagli stilemi, pur ricchi ma certo per noi più banali, della nostra tradizione.
Sotto tale profilo il lavoro del Milanetti è senza dubbio altamente encomiabile, tenuto anche conto dell'oscurità di interpretazione di alcuni passaggi, a causa sia della caratteristica predilezione del poetare indiano per una duplice e perfino triplice lettura di uno stesso verso, sia della non sempre accurata trasmissione del testo nel tempo. Così il Milanetti, nonostante si sia avvalso di tutte le edizioni critiche finora messe a punto (minuziosamente elencate ed illustrate nella ben documentata "Nota sulla traduzione"), ha trovato opportuno apportare più di cinquanta emendamenti personali (anch'essi indicati in una loro tabella), aggiungendo al merito di un'accurata e brillante traduzione quello di un'attenta e sagace revisione dell'originale.
Da segnalare, infine, la ricchezza del materiale esplicativo, di fondamentale importanza per la comprensione di un'opera tanto complessa e variegata da non presentarsi di facile fruibilità neppure per un lettore di media preparazione indologica (e non ce ne sono molti in Italia); materiale esplicativo suddiviso nei sette sottocapitoli dell' "Introduzione", nelle circa trenta pagine di note, nei due "Glossari" (nomi storici, geografici e mitologici, e nomi botanici), oltre che in una nota su trascrizione e pronuncia e nell'esauriente bibliografia.
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Singh Khushwant,
QUEL TRENO PER IL PAKISTAN
(trad. it. di M. T. Marenco, glossario di M. Restelli)
Venezia, Marsilio, 1996
 
Quando nel 1905 il Bengala venne suddiviso in due distinte aree amministrative, i musulmani indiani - da decenni ormai dimentichi del buon regime di convivenza che nei secoli della loro predominanza politica erano riusciti nel complesso ad attuare nel subcontinente, e che la colonizzazione britannica aveva avuto buon gioco a scalzare con la pratica del "divide et impera" - si trovarono inaspettatamente davanti la soluzione del problema. Il troncone orientale dell'ex Bengala unito risultò, infatti, popolato da una maggioranza islamica, di contro a quello occidentale in prevalenza indù, fornendo in tal modo una valida indicazione sulla meta ultima cui indirizzare le rivendicazioni politiche dell'ala islamica. Non a caso l'anno successivo venne fondata la Muslim League, che non tardò troppo ad inserire nel suo programma la richiesta di uno stato musulmano da far sorgere sulle rovine del vecchio impero britannico indiano: il Pakistan. È noto che Gandhi ed il suo gruppo - Nehru, Patel ecc. - lottarono con tutte le loro forze contro lo smembramento del Paese, ma neppure il digiuno "sino alla morte" attuato dal Mahatma a Calcutta ancora nel fatidico agosto 1947 fece mutare il corso degli eventi: rispettivamente il 14 ed il 15 di quel mese nacquero i due stati indipendenti del Pakistan - islamico ed a maggioranza musulmana - e dell'Unione Indiana - laico ed a maggioranza indù. La tragedia che si abbatté sugli abitanti delle aree spartite nei nuovi confini raggiunse proporzioni bibliche: dieci milioni di profughi in esodo inverso gli uni rispetto agli altri, almeno un milione di morti, per non parlare delle vittime di ruberie, stupri, violenze di ogni sorta.
Questo romanzo di Khushwant Singh (n. 1915), una delle figure carismatiche della cultura indiana di questo secolo grazie alla sua vasta opera di storico (History of the Sikhs), saggista, romanziere, giornalista, politico (le sue decise prese di posizione contro gli estremismi a base religiosa - egli è un sikh - gli hanno valso una condanna a morte, che lo costringe da anni a vivere sotto scorta), descrive il tragico esodo attraverso l'esperienza all'inizio marginale, ma via via in drammatico crescendo, che ne fa il piccolo paese di Mano Majra, ormai di frontiera, ma fino al giorno prima quasi per nulla sfiorato dalle vicende della politica. Legame di questo villaggio - dal punto di vista letterario parente non troppo lontano del Malgudi dei romanzi di Narayan, tanto per portare un esempio preso dalla letteratura indoinglese "classica" - con il resto del mondo (a est il Pakistan, a ovest l'Unione Indiana) sono i treni che si fermano nella sua stazioncina, treni che ormai non passano più regolarmente a cadenzare i ritmi giornalieri degli abitanti, ma treni che adesso trasportano folle di disgraziati e mucchi di cadaveri. La trama si suddivide in una serie di storie minute, che fanno di Quel treno... un romanzo corale e un affresco così pieno di vitalità e di efficacia drammatica da non aver nulla da invidiare all'immediatezza degli attuali e purtroppo quotidiani resoconti televisivi delle immani tragedie che l'odio religioso non smette di scatenare un po' ovunque nel mondo.
La traduzione italiana - la prima - è molto ben condotta, ma certo buona parte della sua encomiabilità si deve all'intelligente politica della Marsilio, da anni benemerita nella pubblicazione di opere di argomento indiano, antiche e moderne, e che perciò ben conosce l'importanza di far revisionare questo genere di testi, appartenenti ad aree culturali lontane, da esperti della materia. Nel caso in questione è il saggista e giornalista M. Restelli, valido studioso dell'India specialmente contemporanea, ad aver rivisto la versione italiana del romanzo, evitando alla traduttrice la trappola di "falsi amici" o erronee attribuzioni di generi, plurali ecc., di solito, ahimé, piuttosto frequenti in opere analoghe. Pure di M. Restelli l'esauriente glossario.
 
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Stefano Piano (a cura di),
ENCICLOPEDIA DELLO YOGA
Torino, Promolibri, 1996
 
 
"Yoga" è un termine che subito evoca immagini di un'India inquietante ed oscura, in cui uomini di doti particolari piegano il loro corpo in posizioni innaturali e forse grottesche, sotto gli occhi immoti di idoli dalle molte braccia e dalle molte teste; mentre in seconda battuta l'immaginario collettivo vede sfilarsi davanti i volti distesi e sereni di occidentali, che hanno avuto l'accortezza di seguire corsi specializzati, di yoga appunto, così da impadronirsi del segreto prezioso della calma e del rilassamento pur nella concitazione dei ritmi della vita di oggigiorno.
In realtà, alle spalle di questo piccolo vocabolo di origine indoeuropea (cfr. i nostri "giogo" e derivati) sta un mondo di densa complessità, messo insieme pezzo per pezzo fin dalla notte dei tempi (le prime rappresentazioni grafiche di figure in posture yogiche risalgono ai sigilli vallindi, circa 3000-2500 a. C.) in un'area culturale di ineguagliabili ricettività e capacità di rielaborazione, in cui la semplice ricerca iniziale della "riunione" (yoga) dell'umano con il divino ha finito per svilupparsi in un'intera speculazione filosofica (darçana). Vi confluiscono una serie di filoni di pensiero abbastanza diversificati, a seconda del tramite prescelto da ciascuno per il raggiungimento dell'Essere supremo: l'amore (bhakti), l'azione (karma), la conoscenza (jñâna), per limitarci allo yoga "ortodosso"; ma qualunque sia la strada percorsa verso la meta ultima, tutte concordano nel richiedere l'abbandono dell'attaccamento alla sfera mondana e l'adesione senza riserve ad un modello di vita di assoluta purezza (çauca), frugalità (samtosa), ascesi (tapas), studio interiore (svâdhyâya) e devozione (pranidhâna), in cui le inclinazioni negative vanno neutralizzate con le virtù opposte.
È per agevolare il raggiungimento di questo ideale di vita che vengono messe a punto, nel tempo, quelle pratiche fisiche che in grazia di particolari posture fisse (âsana) e di tecniche di controllo del respiro, facilitano in primo luogo la concentrazione della mente, non più sviata dai sensi, quindi la profondità della meditazione fino a che essa si perda nell'estasi (samâdhi) del riconfluire nel divino. E se è innegabile che nel seguire questo cammino avvenga che alcune persone sviluppino poteri (siddhi) che si può essere tentati di chiamare magici o soprannaturali, è altrettanto vero che tali facoltà sono solo la dimostrazione di quanto poco l'uomo "normale" sia in grado di conoscere e di mettere a frutto le sue potenzialità, ove non abbia imparato adeguatamente a scandagliare il suo corpo per poi dominarlo; mentre, d'altra parte, queste stesse siddhi si pongono solo come un'ulteriore tentazione della vanagloria e dell'ignoranza da superare lungo la via che porta alla salvezza.
Proprio per chiarire il mortificante equivoco dello yoga inteso semplicemente come una metodica ginnica ansiolitica o dimagrante è stata compilata quest'opera enciclopedica. A differenza di lavori similari (incentrati però su altre tematiche, in quanto è questo il primo testo del genere in italiano) il volume curato da uno dei più validi indologhi italiani, Stefano Piano dell'Università di Torino, non cerca di divulgare un tema d'attualità per meri intenti di cassetta, ma ci si avverte una genuina passione nell'affrontare l' arduo compito di gettare una luce di verità scientifica su un fenomeno che il pubblico mostra sì di gradire per la suggestione esotica che da esso promana, ma forse senza provare alcun desiderio di alzare il velo che ne copre l'autentica consistenza. Poiché lo yoga esige la dissipazione dell'ignoranza come presupposto imprescindibile per la riunificazione dell'uomo con Dio - scopo ultimo di ogni ricerca spirituale -, va da sé che questo velo debba venire squarciato. Le più di mille voci contenute nell'Enciclopedia spaziano perciò dalle molteplici pieghe di pensiero che fanno dello yoga prima di tutto una corrente filosofica, alla denominazione dei vari âsana ed alla spiegazione della loro messa in pratica, alla presentazione delle opere o dei personaggi più o meno leggendari che hanno contribuito allo sviluppo delle varie scuole del darçana. Il tutto corredato da un ricco apparato grafico, di insostituibile utilità per spiegare anche visivamente l'esatta realizzazione di una certa postura o di un certo esercizio. All'uopo, la squadra di esperti cui è stato affidato l'incarico di redigere i singoli lemmi ha riunito studiosi di indologia e maestri della disciplina pratica, così che ambedue gli aspetti del fenomeno "yoga" trovassero una loro corretta e bilanciata trattazione, soddisfacendo un po' tutte le esigenze.
Il volume è corredato da un'ampia bibliografia, generale e specifica.
 

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