Gabriella Schiaffino

 
LA CONVERSAZIONE SU DANTE. LA POESIA E
LA RIVOLUZIONE SECONDO MANDEL'TAM
 
 
 
 
 
 

 

Ho conservato la mia distanza

(7 gennaio 1931)

 
Ciò che dà ad Osip Mandel'tam (1891-1938) un posto significativo nella letteratura mondiale del ventesimo secolo non è soltanto il suo particolare stile poetico, epigrammatico e incisivo, ricco di particolari inusitati e grotteschi, quanto il modo con cui il suo stile riuscì ad esprimere una precisa visione del mondo che, come egli stesso previde, ne ha fatto uno scrittore per il nostro tempo.
I dilemmi che egli si trovò ad affrontare sono infatti in gran parte i nostri. La fine del secolo ventesimo non è affatto meno ambivalente degli anni in cui egli visse - il secolo-belva come lo chiamò (1923) - sia rispetto ai cambiamenti rivoluzionari indotti dalla tecnologia e ai compiti della cultura, sia al nostro rapporto con la cultura del passato che ci ha formato1.
 
Dopo la rivoluzione Mandel'tam si trovò intrappolato in un "doppio vincolo", stretto fra valori etici e religiosi che in lui avevano una duplice origine: da una parte i valori ebraici della sua famiglia e quelli cristiani ed europei dell'ambiente culturale in cui era cresciuto, dall'altra le pretese morali, avanzate dagli apologeti del "nuovo" ordine, che in lui trovavano una forte risonanza. Mandel'stam infatti, come ogni intelligent russo, credeva nella rivoluzione con la R maiuscola"2.
Ben presto però la sua fede si trovò scossa di fronte alla realtà dello stato sovietico che si era andata mutando in una nuova forma di tirannia. Ad aumentare le sue difficoltà c'era poi la convinzione che uomini e donne, formatisi in una realtà ormai morta, dovessero liberarsi da valori e atteggiamenti ormai anacronistici: si trattava di negare i valori del passato per poter appartenere al presente e poter giudicare il nuovo mondo, oppure di accettare la "distanza" dal proprio tempo per poter ereditare il passato. Questo fu l'angosciante dilemma che Mandel'tam si trovò ad affrontare dopo la rivoluzione: esso gli procurò il periodo di silenzio della seconda metà degli anni venti, alla fine dei quali, in seguito allo scandalo della traduzione del Thyl Ulenspiegel (1928-29) il periodo delle incertezze ebbe fine ed egli riprese a scrivere versi.
 
Anche Osip Emil'evi Mandel'tam, ebreo assimilato nato a Varsavia e cresciuto a Pietroburgo dove frequentò l'istituto Teniev, aveva dovuto fare di se stesso un poeta "russo". Anch'egli fa parte di quel gruppo di scrittori "nuovi arrivati" in una tradizione culturale e letteraria che, fino agli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, era stata soprattutto nobiliare e grande-russa. Aveva cominciato contemplando nella sua poesia un mondo di oggetti e impressioni che gradualmente si era strutturato in un reticolo di associazioni culturali. Aveva poi esplorato l'"io" che si ritrova in questo reticolo, e la sua coscienza osservante si era poi completata definendosi in relazione ad una comunità, il gruppo dei poeti acmeisti. Nel 1913 vide la luce la sua prima raccolta di poesie Kamen' (Pietra).
Dopo la rivoluzione si era mosso fra concezioni di comunità ora più concrete ora più astratte, nella ricerca di un rifugio per i valori che difendeva. Nel 1922, per le edizioni "Petropolis" (Berlino-Pietroburgo), era uscita Tristia, la sua seconda raccolta di liriche, ripresa, con l'aggiunta di alcune poesie, in Vtoraja Kniga (Secondo libro, Mosca, 1923).
Nel 1928 videro la luce la raccolta delle prose, Egipetskaja marka (Il francobollo egiziano) e quelle dei saggi, O poezii (Sulla poesia) e una raccolta antologica dei suoi versi.
Il Razgovor o Dante (Conversazione su Dante), scritto fra il 1930 e il 1933 e pubblicato in URSS solo nel 1967, appartiene all'ultimo periodo della sua vita, a quello che Serena Vitale, con termine mutuato da Boris Pasternak, ha chiamato la sua "seconda nascita". In questo testo Mandel'tam ha lasciato la somma delle sue idee sulla parola poetica in Russia dopo la rivoluzione: esso è il punto di arrivo della sua ricerca sul linguaggio poetico, il suo messaggio ai posteri. Nella figura di Dante Mandel'tam aveva infatti visto una somiglianza di destino umano e una vicinanza ai problemi storici e morali dell'epoca in cui viveva e nell'opera dantesca riconobbe un modello di linguaggio poetico adeguato al ventesimo secolo.
 
Il problema non era nuovo per lui. Esso l'aveva assillato fin dai primissimi anni della sua attività. Mandel'tam l'aveva trattato in alcuni articoli pubblicati sia prima della guerra, sia all'inizio degli anni venti, subito dopo la fine della terribile guerra civile. Così nell'articolo O sobesednike (Dell'interlocutore) del 1913 aveva esaminato la posizione del poeta nella società russa e aveva interpretato in maniera personalissima lo scontro puskiniano fra il poeta e la "folla" (cern'). Già allora aveva affermato che solo la "distanza" rendeva possibile un fruttuoso rapporto fra i due. Il lettore non poteva più essere il vicino di cui tutto è noto, doveva essere uno sconosciuto a cui il poeta poteva rivolgersi con rispetto, ma al contempo nella piena coscienza e sicurezza della propria verità poetica. Soltanto rispettando la "distanza", che si esprime nel futuro, nel tempo e nello spazio, la parola poetica avrebbe trovato quell'interlocutore, il "lettore fra gli eredi" di cui già Baratinskij aveva parlato nell'ottocento (1823). Per Mandel's˜tam la poesia è come un messaggio racchiuso nella bottiglia, affidato alle onde del mare che lo porteranno al suo ignoto lettore.
La stessa tematica era stata ripresa al termine della guerra civile, nell'articolo Slovo i kultura (La parola e la cultura), pubblicato nell'almanacco del Cech poetov (La gilda dei poeti) "Drakon", 1921.
L'anno era particolare. Iniziato con la rivolta per fame dei marinai di Kronstadt (marzo), repressa nel sangue, era continuato con la NEP, cioè con la fine delle requisizioni di grano ai contadini che diede finalmente sollievo alle popolazioni martoriate. L'estate era stata segnata dalla morte di Blok, esaurito dagli stenti, e dalla fucilazione di Gumilev, accusato di tradimento. In autunno era emigrato Gorkij.
Alla coscienza di Mandel'tam era chiara la complessità della situazione culturale creatasi con la presa di potere dei bolscevichi ed egli aveva alzato forte la sua voce a proclamare la "futura metamorfosi" della poesia russa. Così scrive: "Voglio di nuovo Ovidio, Pukin, Catullo e non mi soddisfano l'Ovidio, il Puskin e il Catullo storici"3. "Nulla è impossibile; come la porta di colui che sta morendo è aperta a tutti così la porta del vecchio mondo è spalancata di fronte alla folla. All'improvviso tutto è a disposizione di tutti. Andate e prendete"...."La poesia classica è poesia della rivoluzione"4.
Il tema era stato ripreso ed ampliato l'ano seguente, 1922, nell'articolo Barsuc'ja nora (La tana del tasso), dedicato a Blok nel primo anniversario della morte (7 agosto).
Nel più grande dei poeti simbolisti, che rappresentano la rinascita della poesia russa dell'inizio del secolo, Mandel'tam aveva individuato una profonda frattura spirituale, comune del resto a tutta la cultura russa precedente. La sua origine era da ricercarsi nel distacco dai grandi interessi europei e nella caduta dall'universalità della sua cultura, diventata definitiva fin dall'epoca di Apollon Grigor'ev.
Il significato della poesia di Blok e del secolo diciannovesimo si esprimerebbe proprio in questa divisione della cultura russa; da una parte la cultura "casalinga", rappresentata dal populismo dell'intelligencija e dall'altra la cultura europea. La musica della rivoluzione, cantata da Blok nel poema Dvenadcat' (I dodici), è per Mandel'tam "la catastrofica essenza di questa cultura" e la rivoluzione è accettata in quanto eredità della cultura che l'ha nutrito5. Così l'aveva cantata nei versi del maggio del 1918 di Gymn, (Inno):
 
"/ Glorifichiamo fratelli il crepuscolo della libertà/...
 
Lo preoccupa però il fatto che quella generazione poetica abbia paura di riconoscere questa situazione : la sua memoria è infatti "corta e l'amore ardente ma limitato"6.
Già nel 1923 Mandel'tam aveva ricevuto i primi inviti ufficiosi a non pubblicare poesie. Questo fatto, aggiuntosi alla percezione che le strade degli "uomini nuovi" si facevano per lui impraticabili, gli procurarono il blocco creativo della seconda metà degli anni venti.
Lo stato di incertezza, come si è detto, terminò definitivamente alla fine del decennio, quando in seguito allo scontro con la comunità letteraria, riconquistò quella "giustezza interiore" che era l'imprescindibile presupposto della sua capacità di scrivere versi. Bisogna sottolineare che lo stesso Mandel'tam aveva volutamente trasformato lo scontro con le organizzazioni ufficiali in uno scandalo, soffiando sulle polemiche generatesi nello scontro con le autorità.
L'incidente è raffigurato nella etvertaja proza (Quarta prosa, 1930/31) che segna la liberazione dalla tensione degli anni venti e che, come ci racconta la moglie nelle sue Vospominanija (Memorie), fu affannosamente tenuta nascosta perché non cadesse nelle mani della polizia né fu mai pubblicata durante la vita del poeta.
È bene ricordare che quest'avvenimento della sua vita privata fu contemporaneo a ciò che Stalin stesso, nel famoso discorso del novembre del 1929, chiamò la "grande svolta" (velikij perelom) della nuova storia sovietica: il primo piano quinquennale. Esso segnò la fine della NEP, diede inizio all'industrializzazione forzata e portò alla reintroduzione della totale gestione statale nell'agricoltura. Si trattò in realtà della distruzione fisica di una gran parte dei più abili ed intraprendenti fra i contadini, la cosiddetta "dekulakizzazione" (kulak: contadino ricco). Questa contemporaneità non può certo essere considerata casuale.
Fu in questa situazione di ritrovata creatività che si inserì il rapporto di Mandel'tam con Dante e la Divina commedia. L'importanza, anche esistenziale, di questo rapporto è sottolineata dal fatto che nell'attesa dell'arresto, possibile anche per strada, egli portava sempre con sé un'edizione tascabile della Commedia che poi l'accompagnò alla Lubianka il giorno del primo arresto (14 maggio 1934).
 
La Conversazione su Dante oltre a rappresentare, come hanno notato molti critici, un nuovo modo, cinetico-musicale, di leggere l'opera dantesca, costituisce il punto finale delle idee di Mandel'tam sulla parola poetica in Russia dopo la rivoluzione. Queste idee ruotano intorno alla "distanza" dalla "nuova" cultura.
Per comprendere le tematiche della Conversazione è però necessario tener presente la particolare importanza che il poeta assegna alla stessa lingua russa nella storia del paese, importanza che va molto al di là delle questioni strettamente poetiche e letterarie. Il punto centrale su questo argomento Mandel'tam l'aveva esposto nel lungo articolo O prirode slova (Sulla natura della parola) del 1921.
Egli parte dal presupposto che l'unico criterio di unità della letteratura russa è la stessa lingua definita "ellenistica", cioè in grado di umanizzare il mondo circostante e i suoi oggetti. Dava così una risposta nuova al problema già trattato nell'articolo del 1915, Petr adaev.
Questo importante pensatore del primo quarto dell'ottocento, era stato dichiarato pazzo da Nicola I perché, nella Première lettre philosophique (1836), aveva osato asserire che la Russia non aveva partecipato alla "storia" dell'Europa, vale a dire alla creazione della sua cultura e dei suoi valori. A lui Mandel'tam aveva attribuito il merito di aver avuto fiducia nel futuro del paese perché era ritornato in patria dopo un lungo e misterioso soggiorno in Inghilterra.
Nel nuovo articolo faceva notare che aadaev, nel dare il suo impietoso giudizio, avrebbe dimenticato un elemento fondamentale della storia della Russia, elemento in grado di sostituire tutti quei valori "storici", senso della legge, dello stato, della chiesa, la cui assenza ne caratterizzava la storia. Quest'elemento era la lingua. "Una lingua così altamente organizzata, così organica, non è soltanto una via d'accesso alla storia, è essa stessa storia"7. E poi: "Noi non abbiamo un'Acropoli. La nostra cultura fino ad oggi non trova le sue mura. In cambio ogni parola del vocabolario del Dal' è un piccolo nucleo dell'Acropoli, un piccolo Cremlino, alata fortezza del nominalismo, armata di spirito ellenistico per combattere un'incessante lotta contro gli elementi informi, il non essere che da tutte le parti minaccia la nostra storia"8.
Ma proprio in quegli anni stava avvenendo ciò che egli temeva di più: il potere, nella sua ossessione del "nuovo", stava infatti imponendo alla lingua russa di tendere in un'unica direzione ufficiale e così l'impoveriva e l'andava trasformando in ciò che poi verrà chiamata la "langue de bois"9.
Ma la perdita della lingua , possibile con "l'ammutolirsi" di due o tre generazioni, facendo precipitare la storia russa nel nichilismo, equivaleva per Mandel'tam alla morte storica del paese.
Solo la poesia poteva evitare questa tragedia alla Russia "risveglia(ndo) e scuote(ndo) nel mezzo la parola "poetica". Per Mandel'tam infatti essa è come un "fascio" (puek) da cui il significato si spande in varie direzioni10, facendo compiere al lettore, reso insensibile dalle abitudini verbali del quotidiano, "come un enorme viaggio" negli infiniti spazi del passato e del futuro che le immagini e le metafore poetiche aprono alla sua fantasia e alle sue emozioni. Mantenendo in vita questa caratteristica della poesia egli sperava di opporsi alle tendenze uniformanti e semplificatorie (slogan, parole d'ordine, ecc.) che il potere imponeva alla lingua allo scopo di creare l'"uomo nuovo" plasmandone la mente. Salvare la poesia significava per Mandel'tam salvare la lingua russa nella speranza che insieme ad essa avrebbe salvato il paese. Era questo lo scopo che egli si era prefisso e Dante fu il suo maestro.
 
Alle idee formulate in quei lontani saggi Mandel'tam aggiunge nella Conversazione nuove tematiche. Alcune di queste erano già state toccate nella Quarta prosa, testo importante non solo perché vi ha rivalutato alcune abitudini ormai tacciate di essere "borghesi" come la "ripugnanza" (brezglivost'), ma perché in esso appare, per la prima volta, il riconquistato orgoglio della propria ebraicità. Ed è significativo che questo sentimento si leghi in lui strettamente al definitivo rivolgersi dei suoi interessi verso il sud, in particolare all'Armenia.
Questa terra, che assurge così a simbolo della sua rinascita morale e creativa, viene da lui chiamata, di contro alle idee diffuse nel pensiero russo dell'epoca, "sorella minore della terra giudaica"11.
A questo tormentato paese, visitato in quegli anni grazie all'interessamento di Bucharin, il suo nume tutelare, egli dedicò un ciclo di poesie e la raccolta di racconti Pute stvie v Armeniju (Viaggio in Armenia). Fu l'ultima prosa pubblicata in vita ("Zvezda" (Stella), 5, 1933) e la sua recensione sulla "Pravda" del 30 agosto suonò come la sua definitiva condanna. Fu in Armenia che Mandel'stam conquistò ciò che Tynjanov ha chiamato la "nuova vista", la visione scientifica, collegata al "bellissimo binocolo Zeiss, prezioso regalo di re Davide".
Fu lì che Mandel'tam si convinse che solo il metodo scientifico era in grado di garantire un'interpretazione adeguata dell'opera dantesca; che solo la visione scientifica e il suo metodo rendevano possibile la comprensione della composizione poetica della Divina commedia. La "distanza" dal presente, dal secolo-belva, ha così acquistato nuove sfumature e si articola in una nuova prospettiva. Alla cultura del passato, alla tradizione, ciò che in una poesia del 1914 era stata definita la "beata eredità", si aggiunge ora la prospettiva scientifica, frutto dell'amicizia con il biologo Boris Kuzin e della lettura di Lamark, Darwin e degli altri naturalisti.
Così scrive: "Allontana il fenomeno e ne verrai a capo, lo dominerai"12. "Il futuro della critica dantesca sarà dominio delle scienze naturali, non appena queste si saranno affinate a sufficienza e avranno imparato a pensare per immagini"13.
Mandel'tam rifiuta infatti il metodo storico, come pure quelli politico e teologico, per comprendere l'opera di Dante. "Dante - scrisse nella redazione preparatoria alla Conversazione - può essere compreso solo con l'aiuto della teoria dei quanta"; egli è per lui un maestro del "sincronismo dei fenomeni".
Nell'analisi della creazione dantesca Mandel'tam ha così intrecciato entrambe le prospettive. Ad entrambe egli affida la riconquista del rapporto con il reale in aperta contrapposizione alla "nuova" cultura staliniana in cui vedeva solo staticità e sclerosi, ciò che chiamava "carabattole" (ruchljad).
Nella Conversazione egli esprime la convinzione che la Divina commedia sia il risultato di un temperamento poetico e di un lavoro compositivo simile a quello verso cui tendeva: il prodotto dinamico di uno "slancio" (poryv) sempre teso verso il futuro. Nelle posizioni che Dante assume di volta in volta nei confronti della realtà del proprio secolo Mandel's˜tam vede infatti tensioni culturali simili a quelle della Russia postrivoluzionaria.
La poesia della Commedia diventa l'impulso alla ripresa della lotta e al rinnovarsi ed arricchirsi della capacità di "distanza" dalla "buddistica" realtà che lo circondava. Con la parola "buddismo", ripresa dagli amati Herzen e Solov'ev, egli designa tutto ciò che considera negativo nell'atteggiamento moderno, in particolare la staticità, che implica l'autoesclusione dell'uomo dalla conoscenza attiva del mondo, la negazione del potere di iniziativa che Dio ha dato non solo a tutti gli uomini, ma anche alla natura14.
Anche questo concetto era stato già toccato in precedenza, nell'articolo Vosemnadcatyj vek (Il diciannovesimo secolo) del 1922, in cui aveva accusato Flaubert e Andrej Belyj della colpa morale di tentare di mimare nei loro scritti il flusso ininterrotto della realtà.
 
La "distanza" dal presente si configura in realtà come distanza dal potere, sia prima sia dopo la rivoluzione, potentemente espressa nella poesia del 1931 che inizia con il verso: /Con il mondo del potere ero solo infantilmente legato/ e si esprime nella percezione de se steso, erede della tradizione di Nekrasov, e dello stesso Dante quali "raznoc˜incy". La figura del piccolo impiegato "non nobile" è centrale al pensiero democratico russo ed era tradizionalmente collegata al personaggio gogoliano di Akakij Akakevi, letto attraverso il prisma critico di Belinskij e della "scuola naturale". Mandel'tam libera ora questa figura dalle limitazioni interpretative della critica russa dell'ottocento che ne aveva fatto una figura culturalmente debole, e la lancia, nell'unione con Dante, nell'empireo della cultura e della poesia europee.
Definendo Dante un "raznoinec", Mandel'tam lo coinvolge nella sua contrapposizione al nuovo potere e, come rassicurato dal suo appoggio, riprende in modo nuovo la lotta che, per tutto il secolo precedente, aveva contrapposto l'intelligencija russa al potere zarista.
La figura del "raznoc˜inec", arricchita dall'accostamento a quella di Dante, viene ulteriormente articolata dalla sovrapposizione della figura di Pukin, ricordato nel suo ruolo di "kamer-junker" in lotta per la dignità sociale del poeta alla corte dello zar.
Mandel'tam del resto, così nella prosa letteraria come nei versi di questo periodo, aveva già fuso la figura del "raznoc˜inec" con quella dell'ebreo: si vedano le poesie "Aleksandr Gercovi" (1931) e 1 gennaio 1934.
Ora le accosta entrambe alle figure dei più grandi poeti italiano e russo, unendoli a sé nella rinnovata lotta contro il potere. Lo stesso impulso morale che nel 1918 gli aveva fatto accogliere la rivoluzione, in quanto compimento dell'antico progetto di liberazione del popolo russo, lo spinge ora a contrapporsi in una lotta mortale al "nuovo" potere staliniano per combatterne la menzogna e il disprezzo per la parola.
A riconferma dell'antico patto con il quarto stato ci sono i versi, potenti, del 1932:
 
"/ Forse per questo i raznoincy/hanno battuto i loro stivali consunti perché io li tradissi?/ Noi moriremo come fantaccini/ ma non glorificheremo né l'avidità né la menzogna!/
Polnov Moskve (Mezzanotte a Mosca).
 
Indissolubilmente legata alla visione del poeta quale "raznoinec" lontano dal potere, è l'interpretazione della figura di Virgilio il "dolce padre" (in italiano nel testo). Virgilio è visto come la "tradizione" in movimento, cioè l'unica possibile e significativa garanzia "della memoria, delle buone maniere, dell'eredità", le sole qualità in grado di impedire che la storia si trasformi in una serie di atti umani senza senso, dettati solo dai sentimenti e dagli impulsi momentanei.
A Virgilio Mandel'tam attribuisce il ruolo insostituibile di evitare che l'insicurezza sociale del raznoc˜inec - Dante trasformi gli incontri con i suoi interlocutori in una serie di "scandali". Egli è convinto che in un'epoca senza "genealogie", solo la cultura sia in grado di dare l'appoggio indispensabile per confrontarsi con la realtà.
Rappresentata da Virgilio, chiamato anche "ostetrica", la tradizione è vista non tanto sotto l'aspetto "sacro ed accecante", quanto come "materia sviluppata in un focoso reportage e in un'appassionata sperimentazione"15. È la cultura che rende Virgilio capace di afferrare al volo le insinuazioni dei suoi interlocutori, per cui, nonostante l'età, riesce a correre più velocemente del suo più giovane compagno Dante; Virgilio è "più giovane" di Dante perché la cultura gli permette di penetrare velocemente nelle particolari ed uniche situazioni rappresentate dai vari incontri e di superare le difficoltà ad esse collegate.
"La cultura è scuola di associazioni più veloci" scrive Mandel'tam a proposito delle terzine dedicate al vecchio Brunetto Latini, da Dante paragonato ad un adolescente che ha vinto una gara di corsa. Essa sola è in grado spezzare ciò che egli chiama "il buddistico campo ginnasiale del nominativo"16, la "cattiva infinità", ereditata dallo scientismo, dalla concezione positivistica del progresso, originatosi nel "grande diciannovesimo secolo, definito con un verso di Baudelaire, "ses ailes de géant lui empèchment di marcher".
Egli nota poi come questa concezione si fosse intrecciata in Russia con la tendenza slava alla ricerca della "fine della storia", del "paradiso senza forma" per cui il pensiero russo, come già aveva intuito Caadaev, continuava a dibattersi nel tentativo di eliminare ogni "inutile" mediazione (legge stato chiesa) fra l'uomo e l'universo.
Di questa tendenza russa sono geniale testimonianza i romanzi di Platonov scritti in quegli stessi, primi anni rivoluzionari.
È in quest'ottica che Mandel'tam affida a Virgilio , il mentore, simbolo dei preziosi frutti dell'eredità culturale, il ruolo di garante della "distanza" dalle convulsioni del presente. Distanza che, dopo la rivoluzione, è sentita come ancora più necessaria per la cultura russa, sempre più chiusa su se stessa e sui propri sogni generatori di mostri.
 
Implicita alla Conversazione era l'esigenza che la Russia riaprisse sul mondo una finestra che sostituisse quella sull'Europa, rappresentata da Pietroburgo, chiusa assai prima della rivoluzione. La chiusura era stata proclamata a chiare lettere anche da Dostoevskij nel Dnevnik pisatelja (Diario di uno scrittore) del giugno del 1876 dove aveva scritto testualmente:"...il ruolo della finestra aperta sull'Europa è terminato...17
A quella finestra Mandel'tam vuole sostituirne una più ampia sul Mediterraneo. Non però sul tradizionale, ma "profanato", Mediterraneo greco-bizantino che tanta parte aveva avuto prima nell'immaginario moscovita e poi in quello russo, che di quel mondo si voleva glorioso erede. È un Mediterraneo concepito nella sua interezza, sia spaziale che temporale, che rappresenta non solo la riconquistata identità ebraica ma, attraverso Dante, ne ingloba anche la storia più recente: la civiltà italiana del medioevo e dell'umanesimo la cui grandezza consiste nella mediazione. In Italia era stata compiuta ciò che egli definisce la grande opera di sovrapporre "la fisica aristotelica alla genetica biblica" di cui il sistema tolemaico era stato solo l'"involucro protettivo". La civiltà italiana aveva poi anche il merito di essere riuscita ad assorbire la civiltà araba. Come egli scrive:
"Aristotele rifinito dall'orlatura di Averroè, come un'ala di farfalla da una striscia colorata"; e anche: "L'arabo Averroè fa da accompagnamento al greco Aristotele"18.
Nella Conversazione Mandel'tam dà cioè la risposta finale al quesito che si era posto nel lontanissimo 1915, nell'articolo dedicato a Caadaev. È una risposta implicitamente negativa alla questione ottocentesca che aveva voluto creare una cultura russa "nazionale" autocentrata, tentativo che la cultura sovietica aveva paradossalmente riproposto, pur in una prospettiva totalmente diversa.
Che oltre alla Crimea, al Mar nero e all'Armenia, egli volesse legare la Russia direttamente al Mediterraneo è rivelato anche da molte liriche di quegli stessi anni. Così, nella variante della poesia "Ariosto", egli dà voce al suo struggente desiderio degli ampi spazi mediterranei:
 
"/O spalancare/ il più in fretta possibile/
sull'Adriatico un'ampia finestra/.
 
Così nei Voronekie tetradi (Quaderni di Vorone), nome dato ai versi scritti nella città degli Urali dove si trovava in domicilio coatto, confronterà le giovani colline che circondano la città con quelle "panumane della Toscana".
 
Ma l'inno alla poesia dantesca è forse soprattutto un attacco alla poesia del suo tempo, statica e pietrificata: "Noi che strisciamo in ginocchio davanti ad un verso che cosa abbiamo conservato di tutta questa ricchezza? Dove sono i suoi eredi, dove i suoi ammiratori? Che fare della nostra poesia rimasta così vergognosamente lontana dalla scienza? È strano pensare che gli scoppi accecanti della fisica e della cinetica moderne siano state usate seicento anni prima che risuonasse il loro tuono e non ci sono parole per marchiare l'obbrobriosa e barbarica indifferenza nei loro confronti da parte dei tristi raccoglitori di pensieri comuni e preconfezionati"19.
È in questa prospettiva che bisogna leggere la lode di Mandel'tam al "vecchio" Ulisse che "disprezza la sclerosi", espressione di una vecchiaia feconda e dinamica, risposta del poeta all'accusa, mossagli da poeti e letterati di varie tendenze, dai simbolisti ai membri del LEF e dalla RAPP, di essere "fuori dal tempo".
La concezione della cultura come "eredità" (preemstvennost'), che aveva spinto Mandel'tam a cercare non solo nel passato, ma anche altrove nello spazio, gli stimoli ai rinnovarsi della parola poetica non era in sintonia con lo spirito del "nuovo" tempo. L'opposizione che subì fin dall'inizio deriva dal fatto che in ciò che scriveva veniva letto in controluce, come scrisse nelle sue memorie sul periodo il critico A. Kovalenkov, "l'odiato fantasma occidentale della civilizzazione borghese"20, il mortale nemico della "nuova" cultura sovietica. La sua poesia fu perciò recepita non solo come radicale opposizione al pathos che fin dall'inizio aveva caratterizzato l'atmosfera culturale creata dal potere sovietico, ma anche come inconciliabile con il progetto culturale di costruzione dell'"uomo nuovo", con "l'ingegneria dell'anima", caratteristica dell'epoca staliniana. Fu ciò a segnare la sua condanna.
 
L'atteggiamento di "distanza" culturale dall'esperimento sovietico, coraggiosamente coltivato e confermato negli anni, rimase però sempre strettamente legato all'appassionata accettazione del progetto di riscatto del popolo russo dai millenari soprusi.
Anticipata nel 1915 dal giudizio su aadaev, rappresentato come colui che torna alla povera patria pur avendo conosciuto l'Europa, apertamente cantata nell'Inno del 1918, essa si fissò prima nel "meraviglioso giuramento al quarto stato" del 1925, quindi negli straziati versi del 1931 "/Per l'altisonante onore dei secoli a venire/ per l'alta stirpe degli uomini/...e infine nell'angoscia della morte ormai certa che lo attendeva insieme a milioni di altri uomini, cantata negli Stichi o neizvestnom soldate (Versi al milite ignoto) del 1937.
Mandel'tam rimase fedele alla sua iniziale visione del poeta acmeista, il poeta - vir (mu) sempre in difesa di ciò che per lui era l'unico scopo di una cultura viva e forte, "l'incomprensione della morte"21, ampliandola infine, come si espresse a Vorone, nella "nostalgia per la cultura mondiale", identificata con Dante e il Mediterraneo.
Come ha scritto un noto russista francese, Georges Nivat, egli fu "le témoin et le juge, la victime et le prophète de l'Epoque"22.