Ciò che dà ad Osip
Mandel'tam
(1891-1938) un posto significativo nella letteratura mondiale del
ventesimo secolo non è soltanto il suo particolare stile
poetico, epigrammatico e incisivo, ricco di particolari inusitati
e grotteschi, quanto il modo con cui il suo stile riuscì ad
esprimere una precisa visione del mondo che, come egli stesso
previde, ne ha fatto uno scrittore per il nostro
tempo.
I dilemmi che egli si trovò ad
affrontare sono infatti in gran parte i nostri. La fine del secolo
ventesimo non è affatto meno ambivalente degli anni in cui
egli visse - il secolo-belva come lo chiamò (1923) - sia
rispetto ai cambiamenti rivoluzionari indotti dalla tecnologia e
ai compiti della cultura, sia al nostro rapporto con la cultura
del passato che ci ha formato1.
Dopo la rivoluzione Mandel'tam
si trovò intrappolato in un "doppio vincolo", stretto fra
valori etici e religiosi che in lui avevano una duplice origine:
da una parte i valori ebraici della sua famiglia e quelli
cristiani ed europei dell'ambiente culturale in cui era cresciuto,
dall'altra le pretese morali, avanzate dagli apologeti del "nuovo"
ordine, che in lui trovavano una forte risonanza. Mandel'stam
infatti, come ogni intelligent russo, credeva nella
rivoluzione con la R maiuscola"2.
Ben presto però la sua fede si
trovò scossa di fronte alla realtà dello stato
sovietico che si era andata mutando in una nuova forma di
tirannia. Ad aumentare le sue difficoltà c'era poi la
convinzione che uomini e donne, formatisi in una realtà
ormai morta, dovessero liberarsi da valori e atteggiamenti ormai
anacronistici: si trattava di negare i valori del passato per
poter appartenere al presente e poter giudicare il nuovo mondo,
oppure di accettare la "distanza" dal proprio tempo per poter
ereditare il passato. Questo fu l'angosciante dilemma che
Mandel'tam
si trovò ad affrontare dopo la rivoluzione: esso gli
procurò il periodo di silenzio della seconda metà
degli anni venti, alla fine dei quali, in seguito allo scandalo
della traduzione del Thyl Ulenspiegel (1928-29) il periodo
delle incertezze ebbe fine ed egli riprese a scrivere
versi.
Anche Osip Emil'evi
Mandel'tam,
ebreo assimilato nato a Varsavia e cresciuto a Pietroburgo dove
frequentò l'istituto Teniev,
aveva dovuto fare di se stesso un poeta "russo". Anch'egli fa
parte di quel gruppo di scrittori "nuovi arrivati" in una
tradizione culturale e letteraria che, fino agli ultimi decenni
del diciannovesimo secolo, era stata soprattutto nobiliare e
grande-russa. Aveva cominciato contemplando nella sua poesia un
mondo di oggetti e impressioni che gradualmente si era strutturato
in un reticolo di associazioni culturali. Aveva poi esplorato
l'"io" che si ritrova in questo reticolo, e la sua coscienza
osservante si era poi completata definendosi in relazione ad una
comunità, il gruppo dei poeti acmeisti. Nel 1913 vide la
luce la sua prima raccolta di poesie Kamen'
(Pietra).
Dopo la rivoluzione si era mosso fra
concezioni di comunità ora più concrete ora
più astratte, nella ricerca di un rifugio per i valori che
difendeva. Nel 1922, per le edizioni "Petropolis"
(Berlino-Pietroburgo), era uscita Tristia, la sua seconda raccolta
di liriche, ripresa, con l'aggiunta di alcune poesie, in
Vtoraja Kniga (Secondo libro, Mosca, 1923).
Nel 1928 videro la luce la raccolta
delle prose, Egipetskaja marka (Il francobollo egiziano) e
quelle dei saggi, O poezii (Sulla poesia) e una raccolta
antologica dei suoi versi.
Il Razgovor o Dante
(Conversazione su Dante), scritto fra il 1930 e il 1933 e
pubblicato in URSS solo nel 1967, appartiene all'ultimo periodo
della sua vita, a quello che Serena Vitale, con termine mutuato da
Boris Pasternak, ha chiamato la sua "seconda nascita". In questo
testo Mandel'tam
ha lasciato la somma delle sue idee sulla parola poetica in Russia
dopo la rivoluzione: esso è il punto di arrivo della sua
ricerca sul linguaggio poetico, il suo messaggio ai posteri. Nella
figura di Dante Mandel'tam
aveva infatti visto una somiglianza di destino umano e una
vicinanza ai problemi storici e morali dell'epoca in cui viveva e
nell'opera dantesca riconobbe un modello di linguaggio poetico
adeguato al ventesimo secolo.
Il problema non era nuovo per lui. Esso
l'aveva assillato fin dai primissimi anni della sua
attività. Mandel'tam
l'aveva trattato in alcuni articoli pubblicati sia prima della
guerra, sia all'inizio degli anni venti, subito dopo la fine della
terribile guerra civile. Così nell'articolo O
sobesednike (Dell'interlocutore) del 1913 aveva esaminato la
posizione del poeta nella società russa e aveva
interpretato in maniera personalissima lo scontro puskiniano fra
il poeta e la "folla" (cern'). Già allora aveva affermato
che solo la "distanza" rendeva possibile un fruttuoso rapporto fra
i due. Il lettore non poteva più essere il vicino di cui
tutto è noto, doveva essere uno sconosciuto a cui il poeta
poteva rivolgersi con rispetto, ma al contempo nella piena
coscienza e sicurezza della propria verità poetica.
Soltanto rispettando la "distanza", che si esprime nel futuro, nel
tempo e nello spazio, la parola poetica avrebbe trovato
quell'interlocutore, il "lettore fra gli eredi" di cui già
Baratinskij aveva parlato nell'ottocento (1823). Per Mandel's˜tam
la poesia è come un messaggio racchiuso nella bottiglia,
affidato alle onde del mare che lo porteranno al suo ignoto
lettore.
La stessa tematica era stata ripresa al
termine della guerra civile, nell'articolo Slovo i kultura
(La parola e la cultura), pubblicato nell'almanacco del Cech
poetov (La gilda dei poeti) "Drakon", 1921.
L'anno era particolare. Iniziato con la
rivolta per fame dei marinai di Kronstadt (marzo), repressa nel
sangue, era continuato con la NEP, cioè con la fine delle
requisizioni di grano ai contadini che diede finalmente sollievo
alle popolazioni martoriate. L'estate era stata segnata dalla
morte di Blok, esaurito dagli stenti, e dalla fucilazione di
Gumilev, accusato di tradimento. In autunno era emigrato
Gorkij.
Alla coscienza di Mandel'tam
era chiara la complessità della situazione culturale
creatasi con la presa di potere dei bolscevichi ed egli aveva
alzato forte la sua voce a proclamare la "futura metamorfosi"
della poesia russa. Così scrive: "Voglio di nuovo Ovidio,
Pukin,
Catullo e non mi soddisfano l'Ovidio, il Puskin e il Catullo
storici"3. "Nulla è impossibile; come la porta
di colui che sta morendo è aperta a tutti così la
porta del vecchio mondo è spalancata di fronte alla folla.
All'improvviso tutto è a disposizione di tutti. Andate e
prendete"...."La poesia classica è poesia della
rivoluzione"4.
Il tema era stato ripreso ed ampliato
l'ano seguente, 1922, nell'articolo Barsuc'ja nora (La tana
del tasso), dedicato a Blok nel primo anniversario della morte (7
agosto).
Nel più grande dei poeti
simbolisti, che rappresentano la rinascita della poesia russa
dell'inizio del secolo, Mandel'tam
aveva individuato una profonda frattura spirituale, comune del
resto a tutta la cultura russa precedente. La sua origine era da
ricercarsi nel distacco dai grandi interessi europei e nella
caduta dall'universalità della sua cultura, diventata
definitiva fin dall'epoca di Apollon Grigor'ev.
Il significato della poesia di Blok e
del secolo diciannovesimo si esprimerebbe proprio in questa
divisione della cultura russa; da una parte la cultura
"casalinga", rappresentata dal populismo dell'intelligencija e
dall'altra la cultura europea. La musica della rivoluzione,
cantata da Blok nel poema Dvenadcat' (I dodici), è
per Mandel'tam
"la catastrofica essenza di questa cultura" e la rivoluzione
è accettata in quanto eredità della cultura che l'ha
nutrito5. Così l'aveva cantata nei versi del
maggio del 1918 di Gymn, (Inno):
"/ Glorifichiamo fratelli il
crepuscolo della libertà/...
Lo preoccupa però il fatto che
quella generazione poetica abbia paura di riconoscere questa
situazione : la sua memoria è infatti "corta e l'amore
ardente ma limitato"6.
Già nel 1923 Mandel'tam
aveva ricevuto i primi inviti ufficiosi a non pubblicare poesie.
Questo fatto, aggiuntosi alla percezione che le strade degli
"uomini nuovi" si facevano per lui impraticabili, gli procurarono
il blocco creativo della seconda metà degli anni
venti.
Lo stato di incertezza, come si è
detto, terminò definitivamente alla fine del decennio,
quando in seguito allo scontro con la comunità letteraria,
riconquistò quella "giustezza interiore" che era
l'imprescindibile presupposto della sua capacità di
scrivere versi. Bisogna sottolineare che lo stesso
Mandel'tam
aveva volutamente trasformato lo scontro con le organizzazioni
ufficiali in uno scandalo, soffiando sulle polemiche generatesi
nello scontro con le autorità.
L'incidente è raffigurato nella
etvertaja
proza (Quarta prosa, 1930/31) che segna la liberazione dalla
tensione degli anni venti e che, come ci racconta la moglie nelle
sue Vospominanija (Memorie), fu affannosamente tenuta
nascosta perché non cadesse nelle mani della polizia
né fu mai pubblicata durante la vita del
poeta.
È bene ricordare che
quest'avvenimento della sua vita privata fu contemporaneo a
ciò che Stalin stesso, nel famoso discorso del novembre del
1929, chiamò la "grande svolta" (velikij perelom)
della nuova storia sovietica: il primo piano quinquennale. Esso
segnò la fine della NEP, diede inizio
all'industrializzazione forzata e portò alla reintroduzione
della totale gestione statale nell'agricoltura. Si trattò
in realtà della distruzione fisica di una gran parte dei
più abili ed intraprendenti fra i contadini, la cosiddetta
"dekulakizzazione" (kulak: contadino ricco). Questa
contemporaneità non può certo essere considerata
casuale.
Fu in questa situazione di ritrovata
creatività che si inserì il rapporto di
Mandel'tam
con Dante e la Divina commedia. L'importanza, anche
esistenziale, di questo rapporto è sottolineata dal fatto
che nell'attesa dell'arresto, possibile anche per strada, egli
portava sempre con sé un'edizione tascabile della
Commedia che poi l'accompagnò alla Lubianka il
giorno del primo arresto (14 maggio 1934).
La Conversazione su Dante oltre a
rappresentare, come hanno notato molti critici, un nuovo modo,
cinetico-musicale, di leggere l'opera dantesca, costituisce il
punto finale delle idee di Mandel'tam
sulla parola poetica in Russia dopo la rivoluzione. Queste idee
ruotano intorno alla "distanza" dalla "nuova"
cultura.
Per comprendere le tematiche della
Conversazione è però necessario tener presente la
particolare importanza che il poeta assegna alla stessa lingua
russa nella storia del paese, importanza che va molto al di
là delle questioni strettamente poetiche e letterarie. Il
punto centrale su questo argomento Mandel'tam
l'aveva esposto nel lungo articolo O prirode slova (Sulla
natura della parola) del 1921.
Egli parte dal presupposto che l'unico
criterio di unità della letteratura russa è la
stessa lingua definita "ellenistica", cioè in grado di
umanizzare il mondo circostante e i suoi oggetti. Dava così
una risposta nuova al problema già trattato nell'articolo
del 1915, Petr adaev.
Questo importante pensatore del primo
quarto dell'ottocento, era stato dichiarato pazzo da Nicola I
perché, nella Première lettre philosophique
(1836), aveva osato asserire che la Russia non aveva partecipato
alla "storia" dell'Europa, vale a dire alla creazione della sua
cultura e dei suoi valori. A lui Mandel'tam
aveva attribuito il merito di aver avuto fiducia nel futuro del
paese perché era ritornato in patria dopo un lungo e
misterioso soggiorno in Inghilterra.
Nel nuovo articolo faceva notare che
aadaev,
nel dare il suo impietoso giudizio, avrebbe dimenticato un
elemento fondamentale della storia della Russia, elemento in grado
di sostituire tutti quei valori "storici", senso della legge,
dello stato, della chiesa, la cui assenza ne caratterizzava la
storia. Quest'elemento era la lingua. "Una lingua così
altamente organizzata, così organica, non è soltanto
una via d'accesso alla storia, è essa stessa
storia"7. E poi: "Noi non abbiamo un'Acropoli. La
nostra cultura fino ad oggi non trova le sue mura. In cambio ogni
parola del vocabolario del Dal' è un piccolo nucleo
dell'Acropoli, un piccolo Cremlino, alata fortezza del
nominalismo, armata di spirito ellenistico per combattere
un'incessante lotta contro gli elementi informi, il non essere che
da tutte le parti minaccia la nostra
storia"8.
Ma proprio in quegli anni stava
avvenendo ciò che egli temeva di più: il potere,
nella sua ossessione del "nuovo", stava infatti imponendo alla
lingua russa di tendere in un'unica direzione ufficiale e
così l'impoveriva e l'andava trasformando in ciò che
poi verrà chiamata la "langue de
bois"9.
Ma la perdita della lingua , possibile
con "l'ammutolirsi" di due o tre generazioni, facendo precipitare
la storia russa nel nichilismo, equivaleva per Mandel'tam
alla morte storica del paese.
Solo la poesia poteva evitare questa
tragedia alla Russia "risveglia(ndo) e scuote(ndo) nel mezzo la
parola "poetica". Per Mandel'tam
infatti essa è come un "fascio" (puek)
da cui il significato si spande in varie direzioni10, facendo
compiere al lettore, reso insensibile dalle abitudini verbali del
quotidiano, "come un enorme viaggio" negli infiniti spazi del
passato e del futuro che le immagini e le metafore poetiche aprono
alla sua fantasia e alle sue emozioni. Mantenendo in vita questa
caratteristica della poesia egli sperava di opporsi alle tendenze
uniformanti e semplificatorie (slogan, parole d'ordine, ecc.) che
il potere imponeva alla lingua allo scopo di creare l'"uomo nuovo"
plasmandone la mente. Salvare la poesia significava per
Mandel'tam
salvare la lingua russa nella speranza che insieme ad essa avrebbe
salvato il paese. Era questo lo scopo che egli si era prefisso e
Dante fu il suo maestro.
Alle idee formulate in quei lontani
saggi Mandel'tam
aggiunge nella Conversazione nuove tematiche. Alcune di
queste erano già state toccate nella Quarta prosa,
testo importante non solo perché vi ha rivalutato alcune
abitudini ormai tacciate di essere "borghesi" come la "ripugnanza"
(brezglivost'), ma perché in esso appare, per la prima
volta, il riconquistato orgoglio della propria ebraicità.
Ed è significativo che questo sentimento si leghi in lui
strettamente al definitivo rivolgersi dei suoi interessi verso il
sud, in particolare all'Armenia.
Questa terra, che assurge così a
simbolo della sua rinascita morale e creativa, viene da lui
chiamata, di contro alle idee diffuse nel pensiero russo
dell'epoca, "sorella minore della terra
giudaica"11.
A questo tormentato paese, visitato in
quegli anni grazie all'interessamento di Bucharin, il suo nume
tutelare, egli dedicò un ciclo di poesie e la raccolta di
racconti Pute stvie
v Armeniju (Viaggio in Armenia). Fu l'ultima prosa pubblicata
in vita ("Zvezda" (Stella), 5, 1933) e la sua recensione sulla
"Pravda" del 30 agosto suonò come la sua definitiva
condanna. Fu in Armenia che Mandel'stam conquistò
ciò che Tynjanov ha chiamato la "nuova vista", la visione
scientifica, collegata al "bellissimo binocolo Zeiss, prezioso
regalo di re Davide".
Fu lì che Mandel'tam
si convinse che solo il metodo scientifico era in grado di
garantire un'interpretazione adeguata dell'opera dantesca; che
solo la visione scientifica e il suo metodo rendevano possibile la
comprensione della composizione poetica della Divina
commedia. La "distanza" dal presente, dal secolo-belva, ha
così acquistato nuove sfumature e si articola in una nuova
prospettiva. Alla cultura del passato, alla tradizione, ciò
che in una poesia del 1914 era stata definita la "beata
eredità", si aggiunge ora la prospettiva scientifica,
frutto dell'amicizia con il biologo Boris Kuzin e della lettura di
Lamark, Darwin e degli altri naturalisti.
Così scrive: "Allontana il
fenomeno e ne verrai a capo, lo dominerai"12. "Il
futuro della critica dantesca sarà dominio delle scienze
naturali, non appena queste si saranno affinate a sufficienza e
avranno imparato a pensare per
immagini"13.
Mandel'tam
rifiuta infatti il metodo storico, come pure quelli politico e
teologico, per comprendere l'opera di Dante. "Dante - scrisse
nella redazione preparatoria alla Conversazione -
può essere compreso solo con l'aiuto della teoria dei
quanta"; egli è per lui un maestro del "sincronismo dei
fenomeni".
Nell'analisi della creazione dantesca
Mandel'tam
ha così intrecciato entrambe le prospettive. Ad entrambe
egli affida la riconquista del rapporto con il reale in aperta
contrapposizione alla "nuova" cultura staliniana in cui vedeva
solo staticità e sclerosi, ciò che chiamava
"carabattole" (ruchljad).
Nella Conversazione egli esprime
la convinzione che la Divina commedia sia il risultato di
un temperamento poetico e di un lavoro compositivo simile a quello
verso cui tendeva: il prodotto dinamico di uno "slancio" (poryv)
sempre teso verso il futuro. Nelle posizioni che Dante assume di
volta in volta nei confronti della realtà del proprio
secolo Mandel's˜tam vede infatti tensioni culturali simili a
quelle della Russia postrivoluzionaria.
La poesia della Commedia diventa
l'impulso alla ripresa della lotta e al rinnovarsi ed arricchirsi
della capacità di "distanza" dalla "buddistica"
realtà che lo circondava. Con la parola "buddismo", ripresa
dagli amati Herzen e Solov'ev, egli designa tutto ciò che
considera negativo nell'atteggiamento moderno, in particolare la
staticità, che implica l'autoesclusione dell'uomo dalla
conoscenza attiva del mondo, la negazione del potere di iniziativa
che Dio ha dato non solo a tutti gli uomini, ma anche alla
natura14.
Anche questo concetto era stato
già toccato in precedenza, nell'articolo Vosemnadcatyj
vek (Il diciannovesimo secolo) del 1922, in cui aveva accusato
Flaubert e Andrej Belyj della colpa morale di tentare di mimare
nei loro scritti il flusso ininterrotto della
realtà.
La "distanza" dal presente si configura
in realtà come distanza dal potere, sia prima sia dopo la
rivoluzione, potentemente espressa nella poesia del 1931 che
inizia con il verso: /Con il mondo del potere ero solo
infantilmente legato/ e si esprime nella percezione de se steso,
erede della tradizione di Nekrasov, e dello stesso Dante quali
"raznoc˜incy". La figura del piccolo impiegato "non nobile"
è centrale al pensiero democratico russo ed era
tradizionalmente collegata al personaggio gogoliano di Akakij
Akakevi,
letto attraverso il prisma critico di Belinskij e della "scuola
naturale". Mandel'tam
libera ora questa figura dalle limitazioni interpretative della
critica russa dell'ottocento che ne aveva fatto una figura
culturalmente debole, e la lancia, nell'unione con Dante,
nell'empireo della cultura e della poesia europee.
Definendo Dante un "raznoinec",
Mandel'tam
lo coinvolge nella sua contrapposizione al nuovo potere e, come
rassicurato dal suo appoggio, riprende in modo nuovo la lotta che,
per tutto il secolo precedente, aveva contrapposto
l'intelligencija russa al potere zarista.
La figura del "raznoc˜inec", arricchita
dall'accostamento a quella di Dante, viene ulteriormente
articolata dalla sovrapposizione della figura di Pukin,
ricordato nel suo ruolo di "kamer-junker" in lotta per la
dignità sociale del poeta alla corte dello
zar.
Mandel'tam
del resto, così nella prosa letteraria come nei versi di
questo periodo, aveva già fuso la figura del "raznoc˜inec"
con quella dell'ebreo: si vedano le poesie "Aleksandr
Gercovi"
(1931) e 1 gennaio 1934.
Ora le accosta entrambe alle figure dei
più grandi poeti italiano e russo, unendoli a sé
nella rinnovata lotta contro il potere. Lo stesso impulso morale
che nel 1918 gli aveva fatto accogliere la rivoluzione, in quanto
compimento dell'antico progetto di liberazione del popolo russo,
lo spinge ora a contrapporsi in una lotta mortale al "nuovo"
potere staliniano per combatterne la menzogna e il disprezzo per
la parola.
A riconferma dell'antico patto con il
quarto stato ci sono i versi, potenti, del 1932:
"/ Forse per questo i raznoincy/hanno
battuto i loro stivali consunti perché io li tradissi?/
Noi moriremo come fantaccini/ ma non glorificheremo né
l'avidità né la menzogna!/
Polnov
Moskve (Mezzanotte a Mosca).
Indissolubilmente legata alla visione
del poeta quale "raznoinec"
lontano dal potere, è l'interpretazione della figura di
Virgilio il "dolce padre" (in italiano nel testo). Virgilio
è visto come la "tradizione" in movimento, cioè
l'unica possibile e significativa garanzia "della memoria, delle
buone maniere, dell'eredità", le sole qualità in
grado di impedire che la storia si trasformi in una serie di atti
umani senza senso, dettati solo dai sentimenti e dagli impulsi
momentanei.
A Virgilio Mandel'tam
attribuisce il ruolo insostituibile di evitare che l'insicurezza
sociale del raznoc˜inec - Dante trasformi gli incontri con i suoi
interlocutori in una serie di "scandali". Egli è convinto
che in un'epoca senza "genealogie", solo la cultura sia in grado
di dare l'appoggio indispensabile per confrontarsi con la
realtà.
Rappresentata da Virgilio, chiamato
anche "ostetrica", la tradizione è vista non tanto sotto
l'aspetto "sacro ed accecante", quanto come "materia sviluppata in
un focoso reportage e in un'appassionata
sperimentazione"15. È la cultura che rende
Virgilio capace di afferrare al volo le insinuazioni dei suoi
interlocutori, per cui, nonostante l'età, riesce a correre
più velocemente del suo più giovane compagno Dante;
Virgilio è "più giovane" di Dante perché la
cultura gli permette di penetrare velocemente nelle particolari ed
uniche situazioni rappresentate dai vari incontri e di superare le
difficoltà ad esse collegate.
"La cultura è scuola di
associazioni più veloci" scrive Mandel'tam
a proposito delle terzine dedicate al vecchio Brunetto Latini, da
Dante paragonato ad un adolescente che ha vinto una gara di corsa.
Essa sola è in grado spezzare ciò che egli chiama
"il buddistico campo ginnasiale del nominativo"16, la
"cattiva infinità", ereditata dallo scientismo, dalla
concezione positivistica del progresso, originatosi nel "grande
diciannovesimo secolo, definito con un verso di Baudelaire, "ses
ailes de géant lui empèchment di
marcher".
Egli nota poi come questa concezione si
fosse intrecciata in Russia con la tendenza slava alla ricerca
della "fine della storia", del "paradiso senza forma" per cui il
pensiero russo, come già aveva intuito Caadaev, continuava
a dibattersi nel tentativo di eliminare ogni "inutile" mediazione
(legge stato chiesa) fra l'uomo e l'universo.
Di questa tendenza russa sono geniale
testimonianza i romanzi di Platonov scritti in quegli stessi,
primi anni rivoluzionari.
È in quest'ottica che
Mandel'tam
affida a Virgilio , il mentore, simbolo dei preziosi frutti
dell'eredità culturale, il ruolo di garante della
"distanza" dalle convulsioni del presente. Distanza che, dopo la
rivoluzione, è sentita come ancora più necessaria
per la cultura russa, sempre più chiusa su se stessa e sui
propri sogni generatori di mostri.
Implicita alla Conversazione era
l'esigenza che la Russia riaprisse sul mondo una finestra che
sostituisse quella sull'Europa, rappresentata da Pietroburgo,
chiusa assai prima della rivoluzione. La chiusura era stata
proclamata a chiare lettere anche da Dostoevskij nel Dnevnik
pisatelja (Diario di uno scrittore) del giugno del 1876 dove
aveva scritto testualmente:"...il ruolo della finestra aperta
sull'Europa è terminato...17
A quella finestra Mandel'tam
vuole sostituirne una più ampia sul Mediterraneo. Non
però sul tradizionale, ma "profanato", Mediterraneo
greco-bizantino che tanta parte aveva avuto prima nell'immaginario
moscovita e poi in quello russo, che di quel mondo si voleva
glorioso erede. È un Mediterraneo concepito nella sua
interezza, sia spaziale che temporale, che rappresenta non solo la
riconquistata identità ebraica ma, attraverso Dante, ne
ingloba anche la storia più recente: la civiltà
italiana del medioevo e dell'umanesimo la cui grandezza consiste
nella mediazione. In Italia era stata compiuta ciò che egli
definisce la grande opera di sovrapporre "la fisica aristotelica
alla genetica biblica" di cui il sistema tolemaico era stato solo
l'"involucro protettivo". La civiltà italiana aveva poi
anche il merito di essere riuscita ad assorbire la civiltà
araba. Come egli scrive:
"Aristotele rifinito dall'orlatura di
Averroè, come un'ala di farfalla da una striscia colorata";
e anche: "L'arabo Averroè fa da accompagnamento al greco
Aristotele"18.
Nella Conversazione
Mandel'tam
dà cioè la risposta finale al quesito che si era
posto nel lontanissimo 1915, nell'articolo dedicato a Caadaev.
È una risposta implicitamente negativa alla questione
ottocentesca che aveva voluto creare una cultura russa "nazionale"
autocentrata, tentativo che la cultura sovietica aveva
paradossalmente riproposto, pur in una prospettiva totalmente
diversa.
Che oltre alla Crimea, al Mar nero e
all'Armenia, egli volesse legare la Russia direttamente al
Mediterraneo è rivelato anche da molte liriche di quegli
stessi anni. Così, nella variante della poesia "Ariosto",
egli dà voce al suo struggente desiderio degli ampi spazi
mediterranei:
"/O spalancare/ il più in
fretta possibile/
sull'Adriatico un'ampia
finestra/.
Così nei Voronekie
tetradi (Quaderni di Vorone),
nome dato ai versi scritti nella città degli Urali dove si
trovava in domicilio coatto, confronterà le giovani colline
che circondano la città con quelle "panumane della
Toscana".
Ma l'inno alla poesia dantesca è
forse soprattutto un attacco alla poesia del suo tempo, statica e
pietrificata: "Noi che strisciamo in ginocchio davanti ad un verso
che cosa abbiamo conservato di tutta questa ricchezza? Dove sono i
suoi eredi, dove i suoi ammiratori? Che fare della nostra poesia
rimasta così vergognosamente lontana dalla scienza?
È strano pensare che gli scoppi accecanti della fisica e
della cinetica moderne siano state usate seicento anni prima che
risuonasse il loro tuono e non ci sono parole per marchiare
l'obbrobriosa e barbarica indifferenza nei loro confronti da parte
dei tristi raccoglitori di pensieri comuni e
preconfezionati"19.
È in questa prospettiva che
bisogna leggere la lode di Mandel'tam
al "vecchio" Ulisse che "disprezza la sclerosi", espressione di
una vecchiaia feconda e dinamica, risposta del poeta all'accusa,
mossagli da poeti e letterati di varie tendenze, dai simbolisti ai
membri del LEF e dalla RAPP, di essere "fuori dal
tempo".
La concezione della cultura come
"eredità" (preemstvennost'), che aveva spinto
Mandel'tam
a cercare non solo nel passato, ma anche altrove nello spazio, gli
stimoli ai rinnovarsi della parola poetica non era in sintonia con
lo spirito del "nuovo" tempo. L'opposizione che subì fin
dall'inizio deriva dal fatto che in ciò che scriveva veniva
letto in controluce, come scrisse nelle sue memorie sul periodo il
critico A. Kovalenkov, "l'odiato fantasma occidentale della
civilizzazione borghese"20, il mortale nemico della
"nuova" cultura sovietica. La sua poesia fu perciò recepita
non solo come radicale opposizione al pathos che fin dall'inizio
aveva caratterizzato l'atmosfera culturale creata dal potere
sovietico, ma anche come inconciliabile con il progetto culturale
di costruzione dell'"uomo nuovo", con "l'ingegneria dell'anima",
caratteristica dell'epoca staliniana. Fu ciò a segnare la
sua condanna.
L'atteggiamento di "distanza" culturale
dall'esperimento sovietico, coraggiosamente coltivato e confermato
negli anni, rimase però sempre strettamente legato
all'appassionata accettazione del progetto di riscatto del popolo
russo dai millenari soprusi.
Anticipata nel 1915 dal giudizio su
aadaev,
rappresentato come colui che torna alla povera patria pur avendo
conosciuto l'Europa, apertamente cantata nell'Inno del
1918, essa si fissò prima nel "meraviglioso giuramento al
quarto stato" del 1925, quindi negli straziati versi del 1931
"/Per l'altisonante onore dei secoli a venire/ per l'alta stirpe
degli uomini/...e infine nell'angoscia della morte ormai certa che
lo attendeva insieme a milioni di altri uomini, cantata negli
Stichi o neizvestnom soldate (Versi al milite ignoto) del
1937.
Mandel'tam
rimase fedele alla sua iniziale visione del poeta acmeista, il
poeta - vir (mu)
sempre in difesa di ciò che per lui era l'unico scopo di
una cultura viva e forte, "l'incomprensione della
morte"21, ampliandola infine, come si espresse a
Vorone,
nella "nostalgia per la cultura mondiale", identificata con Dante
e il Mediterraneo.
Come ha scritto un noto russista
francese, Georges Nivat, egli fu "le témoin et le juge, la
victime et le prophète de
l'Epoque"22.