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   Clara
   Bulfoni 
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- IL CONTRIBUTO ITALIANO
   ALLA LIBERAZIONE DELLE
- LEGAZIONI STRANIERE
   ASSEDIATE A PECHINO DAI BOXER
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- Solitamente quando si affronta
   il tema della presenza italiana in Cina, si risale fino ai nomi di
   Marco Polo, alla corte di Genghis Khan, e poi del gesuita Matteo
   Ricci, in Cina dal 1583 al 1610. Ad essi si aggiungono altri
   viaggiatori e missionari più o meno noti i quali, oltre a
   divulgare il Cristianesimo nelle più remote regioni,
   diffusero anche le scienze e le tecniche occidentali1.
   Ma si trattava, per lo più, di religiosi in Cina sotto la
   protezione di qualche paese occidentale e di marinai imbarcati su
   navi straniere.
- Di fatto le prime relazioni
   politiche dell'Italia con la Cina iniziarono solo il 26 ottobre
   1866 con il "Trattato di commercio e navigazione" siglato dal
   comandante della pirocorvetta della Regia Marina "Magenta",
   Vittorio Arminjon, durante una campagna in Oriente. Con questo
   trattato quindici porti furono aperti al commercio italiano e fu
   riconosciuta una rappresentanza nella capitale cinese2.
   Fautore di più cospicui rapporti commerciali con l'estero,
   in particolare con l'Oriente, fu il conte Luigi Torelli, ministro
   dell'Agricoltura e del Commercio sotto il Governo La Marmora nel
   1864. Infatti, l'allora fiorente produzione dell'industria serica
   italiana fu messa a rischio da una malattia del baco, imponendo
   quindi la necessità di rifornirsi dai paesi orientali, e in
   particolare dalla Cina, di bachi da
   seta3.
- Da allora i viaggi di navi
   italiane in Cina si succedettero con regolare frequenza. La
   presenza di connazionali residenti era tuttavia molto esigua: solo
   23 persone nel 1872 e 133 nel 1891, per la maggior parte
   stabilitesi a Shanghai, il maggior centro di
   commercio4. Un trafiletto del Corriere della
   Sera del 10-11 luglio 1900 riporta una statistica, redatta dal
   Governo americano, sulla popolazione straniera residente in Cina:
   nel 1899 gli italiani ammontavano a 124 con 3 ditte. Il nuovo
   Regno d'Italia prestava scarsa attenzione alla Cina; essa infatti
   non costituì mai un paese di conquista territoriale ed
   economica per i nostri politici: il primo Ministro
   plenipotenziario incaricato a Pechino il 31 marzo 1867 aveva
   stabilito la sua residenza in Giappone, ove era pure accreditato,
   e solo nel 1878 Ferdinando de Luca fu nominato residente a
   Pechino, preferendo però stabilirsi a Shanghai, dove era
   accentrata la presenza italiana5. Gioverà
   riportare il giudizio - molto critico - di Giuseppe de' Luigi,
   delegato della Missione Italiana in Cina nel primo decennio del
   '900, in merito all'indifferenza del nostro
   governo:
-  
   
   
      - "Eravamo riusciti, per
      forza delle circostanze e per merito del nostro rappresentante
      [il Ministro Salvago Raggi] durante l'occupazione di
      Pekino, ad infondere migliore concetto di noi. Con il
      riconoscimento del protettorato italiano da parte delle nostre
      missioni avevamo già una considerevole mole di interessi
      in Cina, ma la fedeltà ai soliti sistemi non mai
      abbastanza deplorati ci fece perdere anche i vantaggi che solo
      alla fortuna dovevamo [...] Con disinvoltura noi ci
      ostentiamo a considerare lo stesso funzionario, adatto
      indifferentemente alle Americhe ed all'Africa. I nostri
      rappresentanti sono i soli, con enorme pregiudizio di nostri
      interessi, a non essere specializzati [...] Parlare
      d'un'influenza esercitata dall'Italia in Estremo Oriente,
      sarebbe o menzogna od ironia. La Cina, il maggior mercato del
      mondo, ha un bel concetto del Belgio e dell'Olanda, ma non di
      noi, che crede deboli, ma intenzionalmente rapaci al pari dei
      forti"6.
-  
- Un argomento, finora poco
   affrontato, ma che merita maggior approfondimento proprio
   attraverso l'esame della stampa e della documentazione dell'epoca,
   è quello dell'intervento multinazionale, di cui fece parte
   anche l'Italia, per la liberazione delle legazioni straniere
   assediate a Pechino dai Boxer nel 1900.
- Alla fine del XIX secolo la
   Cina venne scossa da una profonda crisi culturale e politica, che
   originò dalla propria debolezza economica. Dopo la guerra
   cino-giapponese del 1894-95 che rivelò la tragica impotenza
   della Cina7, l'imperatrice Ci Xi, non riuscendo a far
   fronte ai problemi finanziari, s'indebitò sempre più
   con le potenze occidentali, le quali, in cambio dei prestiti
   accordati, pretesero maggiori privilegi sul territorio cinese nel
   tentativo d'attuarne uno "spezzettamento" (Break-up of
   China). Il fallimento delle riforme del 18988
   indusse l'imperatrice a cercare di dirigere la marea del
   malcontento lontano dal trono, in altre parole contro gli
   stranieri e le loro proprietà. Fu in questo clima che prese
   via via sempre più spazi la setta dei "Pugni di giustizia e
   di concordia" (Yihe quan) - conosciuta in Occidente sotto
   il nome di "Boxer"9 - caratterizzata da un estremismo a
   forti tinte xenofobe. Le origini di questo movimento non sono del
   tutto chiare, ma si ritiene si tratti di una società
   segreta sorta agli inizi del XIX secolo e sviluppatasi soprattutto
   nello Shandong, dove il governo incoraggiò l'organizzazione
   di milizie locali per resistere ai Tedeschi, particolarmente
   orientati ad ampliare i loro interessi in questa provincia.
   Infatti l'espansione dei grandi imperi coloniali, iniziata con la
   Guerra dell'Oppio nel 1840, sollevò l'opposizione violenta
   delle masse cinesi, vessate dal crollo dell'economia artigianale
   contadina e dalle catastrofi naturali, opposizione diretta da
   società segrete legate all'ambiente rurale e rivolta
   soprattutto contro le missioni e i cristiani cinesi, contro i
   quali vennero diretti numerosi attacchi tra il 1895 e il 1899. In
   seguito alle proteste straniere, la Corte fu costretta ad
   intervenire militarmente contro i Boxer che allora spostarono il
   proprio campo d'attività verso la regione del Zhili
   (l'attuale provincia dello Hebei), riversandosi poi sia a Pechino
   sia a Tianjin, dove distrussero beni delle missioni e degli
   stranieri.
- Manifesti affissi il 20 maggio
   1900 per le vie di Pechino e annuncianti che il massacro degli
   stranieri avrebbe avuto luogo il primo giorno della quinta luna,
   cominciarono a diffondere l'allarme, ma ancora i ministri
   stranieri non si trovavano d'accordo nel richiedere l'invio di
   truppe per proteggere le legazioni10. A questo
   proposito, il Corriere della Sera del 9-10 giugno riportava
   in prima pagina:
-  
- Il problema politico del
   giorno è nell'Estremo Oriente, ove la rivolta dei Boxers ha
   creato una situazione assai complicata
   [...]
- Solo un'azione comune delle
   Potenze potrebbe domare l'insurrezione: gli ultimi dispacci fanno
   credere alla possibilità di un accordo: ma, mentre
   l'Inghilterra si mantiene assai riservata, è evidente la
   gelosia reciproca cui si ispirano gli imperi russo e il
   giapponese, fatti già rivali dalla questione della Corea
   [...]
-  
- Alla fine di maggio i Boxer
   incendiarono la stazione ferroviaria e distrussero la strada
   ferrata nelle vicinanze di Pechino, mettendo in grave pericolo
   l'incolumità dei residenti occidentali. Il corpo
   diplomatico internazionale decise finalmente di richiedere l'invio
   di guarnigioni di soldati dei rispettivi Paesi.
- La via più breve per
   arrivare a Pechino era uno sbarco nel Golfo del Bohai (all'epoca
   chiamato golfo del Zhili alla foce del fiume Hai), e da qui per
   ferrovia, passando per Tianjin - 58 km. dal mare e raggiungibile
   con navi di minor stazza - arrivare alla capitale che ne dista
   128. C'erano allora in Cina due navi italiane, l'"Elba" e la
   "Calabria": la prima si trovava a Zhifu, nello Shandong, quando
   ricevette le prime notizie dei disordini scoppiati a Pechino. Ma
   in seguito all'aggravarsi della situazione, il Ministro d'Italia a
   Pechino, Salvago Raggi, scrisse il 28 maggio un telegramma urgente
   al comandante Casella dell'"Elba" con la richiesta di salpare
   urgentemente per la rada di Dagu (alla foce del fiume Hai),
   secondo le decisioni prese dal Corpo Diplomatico costituito dai
   rappresentanti di undici potenze (Spagna, Germania, Francia,
   Inghilterra, Italia, Belgio, Austria, Stati Uniti, Giappone,
   Olanda, Russia). Nel pomeriggio del 30 maggio, l'"Elba" era a Dagu
   e fu deciso di mandare a terra un distaccamento di trentanove
   uomini comandato dal tenente di vascello Federico Paolini e dal
   sottotenente di vascello Angelo Olivieri. Nel frattempo erano
   già giunte, o stavano per giungere, le navi d'altre
   nazioni. Fu così che il mattino del 31 i distaccamenti si
   misero in navigazione verso Tianjin e da qui ripartirono, in
   treno, per Pechino dove giunsero il giorno seguente. La "forza"
   era così costituita: 79 uomini per l'Inghilterra, 55 Stati
   Uniti, 23 Giappone, 30 Austria, 75 Francia, 50 Germania, 75
   Russia, 40 Italia, per un totale di 428 fra ufficiali e soldati. I
   distaccamenti s'insediarono nelle rispettive legazioni fino alla
   decisione, presa il 6 giugno, di creare la difesa di un
   quadrilatero racchiudente tutte le residenze straniere; il comando
   fu assunto dal comandante più anziano, l'austriaco Thoman.
   I numerosi volontari civili rimasero alla difesa della legazione
   inglese, dove si trovavano le donne e i
   bambini11.
- Il 5 giugno, su richiesta di
   Monsignor Alfonso Favier, capo delle Missioni Cattoliche e Vicario
   apostolico a Pechino, venne inviato un drappello di undici uomini
   al comando del sottotenente di vascello Olivieri in difesa di Bei
   Tang, la "Cattedrale del Nord" situata nel cuore della
   città tartara. Nel recinto della chiesa si trovavano
   più di 3000 rifugiati, molti dei quali bambini e donne, e
   la difesa di questo luogo costò la vita a sei marinai
   italiani e a 300 tra gli assediati12. Secondo
   Valli13: "L'assedio del Pe-tang [Bei Tang],
   durato due mesi circa, è forse il più drammatico
   episodio tra tutti gli avvenimenti che si svolsero in Cina nel
   1900".
- Il 7 giugno la situazione si
   aggravò: furono attaccate le missioni cristiane della
   regione, e i missionari che riuscirono a scappare si rifugiarono
   nelle legazioni della capitale. Altri rinforzi furono allora
   chiesti dai singoli Ministri e fu fatto sbarcare al largo di Dagu
   un nuovo corpo di spedizione composto da 400 uomini, fra cui
   quaranta italiani al comando del tenente di vascello Sirianni,
   scesi dalla "Calabria". Un altro distaccamento italiano, composto
   da venti uomini delle navi "Elba" e "Calabria" agli ordini del
   sottotenente di vascello Carlotto, fu fatto sbarcare il giorno
   successivo ed inviato a Tianjin per la difesa delle concessioni
   straniere. Carlotto perse la vita in combattimento il 15 giugno e
   alla sua memoria vennero poi dedicate una via centrale e la
   caserma della concessione italiana di Tianjin.
- Il comando della seconda
   spedizione a Pechino, di cui faceva parte il distaccamento
   italiano al comando di Sirianni, venne assunto dall'ammiraglio
   inglese Seymour. Questa guarnigione giunse a Tianjin l'8 giugno
   rinforzata da altri reparti per un totale di 1782 uomini. Si
   cercò di raggiungere Pechino in treno, ma dopo cinque
   giorni di arduo viaggio e di continui combattimenti, e a causa
   dell'interruzione della linea ferroviaria, il contingente
   internazionale dovette rientrare a Tianjin, abbandonando i treni.
   Il 26 giugno la spedizione fece ritorno a Tianjin dopo un'epica
   marcia a piedi nel fango, respingendo continui attacchi dei Boxer
   e dopo aver perso nei combattimenti 62 uomini, di cui cinque
   marinai italiani. A seguito di titoli allarmistici come "Il
   sinistro silenzio circa Seymour" e "Le forze alleate entrarono a
   Tien-Tsin - Seymour sarebbe prigioniero?"14, il
   Corriere della Sera del 1-2 luglio pubblica il rapporto
   ufficiale dello stesso Seymour telegrafato da Londra e diramato
   dall'Ammiragliato inglese:
-  
   
   
      - Sono ritornato con le mie
      forze a Tien-Tsin, non potendo arrivare a Pechino per via
      terrestre. Il 13 giugno ebbi due attacchi dall'avanguardia dei
      Boxers, che furono respinti con perdite considerevoli dei
      Boxers e nessuna perdita nostra. Il 14 giugno i Boxers
      attaccarono un treno a Lang-Fang [l'attuale Anci]:
      erano numerosi e accaniti, ma furono respinti. Essi ebbero 100
      morti; noi ebbimo 5 italiani uccisi [...] La
      distruzione della ferrovia davanti a noi avendo reso il
      proseguimento del viaggio impossibile, decisi il 16 giugno di
      ritornare a Yang-Tsun [l'attuale Wuqing], per tentare
      di là di recarmi a Pechino per la via fluviale. Dopo la
      mia partenza da Lang-Fang due treni lasciati indietro furono
      attaccati il 18 giugno dai Boxers e dalle truppe imperiali di
      Pechino [...] I due treni mi raggiunsero poi a
      Yang-Tsun la sera medesima, ma essendo imbarazzato dai feriti,
      cambiai parere e decisi di ritornare a
      Tien-Tsin.
- Il 19 giugno per ritornare
      indietro incontrai opposizione accanita in quasi tutti i
      villaggi [...] Il 23 giugno dopo una marcia notturna
      arrivammo presso l'arsenale imperiale prima di
      Tien-Tsin15, ove il nemico dopo avermi fatto
      proposte amichevoli aprì proditoriamente il fuoco sopra
      di noi [...] Abbiamo alla fine occupato l'arsenale e
      dovemmo respingere nei giorni seguenti ogni attacco che il
      nemico faceva per riprenderlo. Trovai nell'arsenale
      quantità immense di fucili, armi, munizioni. Parecchi
      cannoni cinesi furono adoperati per la nostra difesa e
      cominciammo a bombardare i forti cinesi più in basso.
      Avendo trovato munizioni e riso, avrei potuto mantenermi ancora
      alcuni giorni, ma imbarazzato da numerosi feriti domandai a
      Tien-Tsin soccorsi, che arrivarono il 25 mattina. Allora
      evacuammo l'arsenale incendiandolo e il 26 rientrammo a
      Tien-Tsin [...]
-  
- Nel frattempo altre truppe
   arrivarono a Dagu e furono intraprese operazioni per assicurare le
   vie di comunicazione fra il mare e la capitale: il 17 giugno
   furono espugnati i forti alla foce del Hai He, alla cui conquista
   partecipò un distaccamento di ventiquattro marinai italiani
   al comando del tenente di vascello Tanca. Sulla prima pagina del
   Corriere della Sera del 22-23 agosto, è riportata la
   testimonianza di un partecipante alla spedizione, dal titolo
   "L'azione degli Italiani in Cina: un veronese pianta la bandiera
   sul forte di Ta-ku [Dagu]":
-  
   
   
      - L'"Arena" di Verona reca
      una lettera che il sott'ufficiale Cesco di Castelletto di
      Brenzone sul Garda (Verona) ha diretto da Tien-Tsin, 2 luglio,
      alla propria madre. Ne stralciamo i punti più
      notevoli:
- "Il 16 giugno, alle 17,
      sbarcai dalla "Calabria" con dodici marinai. Dopo un quarto
      d'ora da che ero entrato nel canale del Ta-ku [Dagu],
      la Cina ordinava di far fuoco su qualunque imbarcazione che
      fosse entrata in quel porto. Allora andai col mio plotone a
      bordo della cannoniera inglese "Algerine".
- "Alle 14.30 del 17 si ebbe
      l'ordine di ricominciare il bombardamento dei cinque forti
      formidabili di Ta-ku [Dagu].
- "Una cannonata cinese alle
      11.45 rompe sull' "Algerine" due manicavento. Io sbarco dalla
      cannoniera insieme agli Inglesi.
- "Intanto due cannoniere
      russe, una francese, una giapponese, aprono il fuoco anch'esse.
      Appena sbarcati andiamo a riparo dietro una collina, ove
      troviamo marinai giapponesi, russi, austriaci; tutto compreso,
      noi si contava 600 uomini.
- "Dopo tre ore circa di
      combattimento, ci venne l'ordine di aprire il fuoco per
      pigliare il primo forte (il più agguerrito), e
      finalmente dopo otto ore di fuoco si riesce a pigliarlo
      [...]
- "Io stesso alzo la bandiera
      tricolore sul primo forte di Ta-ku
      [Dagu].
- "Il giorno 18 sbarcano
      dall' "Elba" altri dodici marinai e un tenente di vascello
      della "Calabria" e si uniscono a noi. Alle 6 del 19 si parte,
      lasciando nei forti dei soldati per la difesa. Noi lasciammo
      due marinai per la guardia alla bandiera."
-  
- Intanto le notizie provenienti
   da Tianjin indicavano che la situazione degli stranieri residenti
   nelle concessioni era sempre più critica. Si decise cosi
   d'inviare una colonna militare:
-  
   
   
      - "Si forma una treno
      militare. In tutto potevamo essere 1000 soldati e 3000 venivano
      a piedi.
- "Si va avanti nella
      direzione di Tien-Tsin, distante circa 80 chilometri, per
      liberare gli europei che stavano nella
      città.
- "Dopo mezz'ora di cammino,
      devia il primo vagone, causa la rottura delle rotaie fatta dai
      nostri nemici; si smonta tutti e si continua la marcia a piedi.
      Dopo circa sei ore di cammino, ci accampammo.
- "Il giorno seguente si
      ripiglia la marcia, e noi italiani, compreso un plotone
      americano ed uno inglese, si forma l'avanguardia.
      [...]
- "Si marciava sotto il
      comando di un generale russo; infine ci troviamo davanti 45
      mila soldati cinesi. Dopo due ore di combattimento il nemico si
      dà alla fuga [...]
- "Si insegue il nemico per
      circa 10 ore sempre di corsa. I Cinesi si rifugiano sotto i
      forti di Tien-Tsin. Noi si va sempre avanti e alla 5 della sera
      entriamo in Tien-Tsin vittoriosi16.
-  
- Appena giunto a Tianjin, fu
   chiesto al tenente di vascello Tanca di portare aiuto a Seymour
   assediato nell'arsenale imperiale alle porte della città:
   rotto l'assedio e liberate le truppe, il 26 il distaccamento era
   di nuovo a Tianjin:
-  
- "Il 26 si parte alle 11.30
   della notte per andare a liberare un arsenale cinese, nel quale ci
   stavano chiuse circa 1500 truppe europee, fra le quali 60 marinai
   della "Calabria" senza viveri e senza acqua e circondati da tutte
   le parti da un nemico cento volte maggiore.
- "Il nemico sempre si ritirava
   e noi si arrivò a 300 metri dall'arsenale.
- "Mentre si gridava
   "urrà" perché ci credevamo sicuri della liberazione,
   i cinesi ci piombarono addosso, ma dopo circa tre ore di
   combattimento furono costretti alla fuga. La notte ci si accampa e
   la mattina incendiamo l'arsenale e ci si ritira nella città
   di Tien-Tsin e precisamente nel quartiere europeo, perché
   il quartiere cinese appena noi siamo entrati l'abbiamo incendiato
   e ora sono sei giorni che brucia e ce ne sarà ancora per
   tutto il mese di luglio da bruciare.
- "Nell'ultimo combattimento,
   noi della "Calabria" abbiamo avuto 5 morti, uno ferito gravemente
   e un ufficiale dell' "Elba" morto.
- "Ora siamo qui in attesa
   dell'arrivo di nuove truppe europee di terra, le quali marceranno
   su Pechino, lasciando noi marinai alla difesa di
   Tien-Tsin"17.
-  
- Altisonanti le note
   sull'eroismo dei marinai italiani riportate dai nostri giornali, e
   in particolare dal Corriere della Sera, che sul numero del
   19-20 agosto pubblica il seguente trafiletto:
-  
- L'ammiraglio inglese Seymour
   (il capo delle truppe alleate ch'era mosso verso Pechino) scrive
   al comandante elogiando tutte le truppe ed in particolare le
   nostre italiane. Dice che esse mettono la nota allegra in queste
   circostanze e che al fuoco non vengono meno al tradizionale valor
   del soldato italiano; che nell'assalto all'arsenale di Tien-Tsin
   dopo che i cosacchi russi furono respinti, andarono gli inglesi
   con alla testa il drappello degli italiani, i quali furono i primi
   ad entrarvi. Un fuochista italiano seguito da un cadetto
   austriaco, dopo aversi fatto largo attorno alla bandiera cinese
   che sventolava sull'Accademia navale di Tien-Tsin, fu ferito
   mentre stava ammainandola e riuscì nonostante il suo stato
   ad alzare la nostra.
-  
- Il 14 luglio la città
   di Tianjin fu definitivamente conquistata e il 26 un proclama
   annunciava alla popolazione la costituzione di un governo
   provvisorio.
-  
- L'espugnazione dei forti di
   Dagu offrì l'occasione alla Corte per prendere
   ufficialmente posizione contro gli stranieri. Lo Zongli yamen
   (Ufficio per l'amministrazione degli affari esteri)
   18 dichiarò che tutti gli stranieri dovevano
   lasciare la capitale entro ventiquattro ore: il ministro della
   Germania, Von Ketteler, decise di recarsi a protestare, ma venne
   trucidato lungo la via. Il 20 giugno, alle quattro del pomeriggio,
   spirato il termine delle ventiquattro ore, fu aperto il fuoco
   sulle legazioni. Il giorno seguente la stessa imperatrice Ci Xi,
   che aveva fino allora mantenuto un atteggiamento ambiguo nei
   confronti dei Boxer, dichiarò guerra alle
   potenze19: iniziarono così i 55 giorni di
   assedio. Le legazioni, che erano rimaste aperte a chiunque volesse
   prendervi rifugio (occidentali residenti nella capitale e
   cristiani cinesi), furono organizzate per resistere all'assedio
   nell'attesa dei rinforzi. Nel recinto della legazione inglese - la
   più vasta e meglio protetta - vennero riuniti uomini e
   donne di undici nazioni diverse, 414 persone che affrontarono i
   frequenti assalti dei Boxer fino all'arrivo, il 14 agosto, del
   corpo di spedizione composto da tre colonne di forze alleate, di
   cui non faceva parte, però, il contingente italiano che
   entrò nella capitale tre giorni più tardi al comando
   del tenente Sirianni. Dieci giorni dopo arrivò Manusardi
   che assunse il comando del battaglione marinai costituitosi a
   Pechino.
- Come mai l'Italia, che aveva
   dichiarato ripetutamente sin dall'inizio la propria volontà
   di associarsi all'azione delle altre Potenze, non era presente
   alla liberazione delle legazioni nella capitale? Bisogna
   innanzitutto precisare che i preparativi erano stati accompagnati
   da forti polemiche fra i capi militari dei vari contingenti,
   soprattutto fra russi e giapponesi20. I primi
   proponevano, dopo l'attacco a Beicang, di ritirarsi di nuovo a
   Tianjin, mentre i secondi propendevano per un attacco immediato
   alla capitale. La proposta giapponese fu appoggiata dai comandanti
   inglese e americano. Come nota Valli21: "Non è
   difficile scorgere che, anche qui, non si trattava di questioni
   tattiche. I giapponesi erano in numero di gran lunga superiore ai
   russi e le operazioni principali sarebbero state quindi compiute
   da loro, e sarebbero giunti primi alla presa di Pechino.
   Ciò era mal tollerato dai russi, che avrebbero voluto
   ritardare la marcia fino al giungere degli attesi
   rinforzi".
- Le truppe furono ripartite in
   due colonne: alla destra del Hai He avrebbero marciato Giapponesi,
   Inglesi, Americani, alla sinistra Russi, Francesi, Tedeschi e
   Italiani. Il 5 agosto fu occupata Beicang, ma la colonna di
   sinistra incontrò notevoli difficoltà a causa di
   violente inondazioni e i distaccamenti, tranne il russo,
   ripiegarono su Tianjin, da dove ripartirono qualche giorno dopo -
   e quindi in ritardo - per Pechino. Il 6 agosto cadde Yangcun e fu
   deciso di marciare su Pechino. Prima di sferrare l'assalto i
   diversi distaccamenti (in altre parole quelli che avevano avanzato
   alla destra del Hai He e i russi che li avevano raggiunti) si
   riunirono a Tong Xian - a pochi chilometri a est di Pechino -,
   dove il 13 agosto fu deciso il piano d'attacco per il giorno
   successivo:
-  
   
   
      - Finalmente dispacci dei
      generali Gaselee e Linevitch recano i particolari della presa
      di Pechino.
- Gli Inglesi attaccarono la
      porta sud-est sfondandola senza trovarvi resistenza,
      perché l'attacco era inatteso. Entrarono quindi la
      fanteria, la cavalleria e l'artiglieria. Il generale Gaselee
      mandò la cavalleria e parte dell'artiglieria al Tempio
      del Cielo, e lui stesso col resto delle truppe si portò
      verso le Legazioni, arrivando alle tre e mezza nel canale di
      fronte al recinto che le chiude. Dall'alto del muro i ministri
      facevano segnali. Gaselee con una parte dello stato maggiore e
      con settanta soldati traversò il canale quasi asciutto e
      penetrò nel recinto senza subire
      perdite22.
-  
- Una brillante, espressiva
   descrizione dell'assedio alla legazione italiana è fornita
   dal giornalista-scrittore Luigi Barzini, il quale, come
   collaboratore del Corriere della Sera dal 1899, inaugurò le
   corrispondenze dall'estero23. Il 12 luglio 1900
   s'imbarcò a Genova sulla "Prinz Heinrich" sulla quale
   giunse fino a Hong Kong: per un caso fortuito (era in attesa di
   una qualsiasi nave da guerra disposta ad imbarcarlo) giunse al
   porto della colonia inglese la nave italiana "Vettor Pisani" in
   rotta per Dagu. Barzini quindi si unì alla flotta fino a
   Dagu, e da qui, al seguito della compagnia di sbarco,
   proseguì per Tianjin e poi a Pechino:
-  
   
   
      - "Le prime fucilate cinesi
      furono dirette contro la Legazione italiana e contro quella
      austriaca. Non si aspettava l'attacco. Ma l'attacco non
      sorprese. Si sapeva che le truppe del generale Tung-fu-ciau
      [Dong Fuxiang] si sarebbero alleate ai "boxers" presto
      o tardi [...] Poco dopo che la fucileria era
      cominciata, la Legazione austriaca veniva abbandonata dalla
      difesa [...] Dalla Legazione italiana si sentiva quasi
      continuo il crepitio della loro mitragliatrice.
- Questa ritirata fu un
      errore. La Legazione belga era stata abbandonata da vari
      giorni, perché troppo isolata e lontana dalle altre.
      Così la difesa delle Legazioni si operava sopra un
      grande quadrato avente agli angoli le Legazioni d'Austria,
      d'Italia, d'America e d'Inghilterra. La ritirata degli
      austriaci portava la disorganizzazione in tutta la difesa: la
      Legazione italiana, troppo esposta, si veniva a trovare in una
      posizione insostenibile.
- Verso le quattro, mentre il
      nostro ministro marchese Salvago Raggi, di ritorno dalla
      Legazione d'Inghilterra, dove aveva disposto per l'alloggio
      della sua signora, si preparava ad accompagnarla, la fucileria
      contro la Legazione d'Italia era continua [...] I
      marinai, vigilanti sulle piattaforme di legno lungo il muro di
      cinta e quelli appostati dietro alle barricate, non riuscivano
      a scorgere un cinese.
- All'alba del ventidue,
      verso le quattro del mattino, la via delle Legazioni si
      riempì ancora di cinesi. Ma questa volta pareva che non
      fosse il saccheggio che li conducesse. Gridavano il loro
      "scià" ["sha"= uccidi] di guerra e si
      apprestavano alla barricata italiana con passo da contraddanza.
      Ogni tanto qualche proiettile veniva a schiacciarsi contro la
      barricata. evidentemente era un assalto
      [...]
- Il nostro cannone
      entrò in azione. Cinque colpi bastarono. La via fu
      sgombrata. Ma nel frattempo i "boxers" si erano appressati dal
      lato nord occupando tutte le casupole abbandonate, attigue alla
      nostra Legazione. poco dopo quelle case ardevano, le fiamme
      minacciose si levavano a ridosso dell'abitazione del ministro e
      minacciava i fianchi dei due padiglioni abitati dai segretari
      [...]
- Non era più
      possibile nemmeno di prepararsi il cibo da mangiare.
      Bisognò domandarne alla Legazione inglese, che mandava
      del riso, dei biscotti e del the. Il nostro ministro e il
      segretario della Legazione, marchese Caetani, non abbandonavano
      nemmeno un istante la barricata e dividevano con i marinai il
      magro pasto.
- Intanto il comando della
      difesa, ad est della Legazione inglese, era stato preso dal
      comandante austriaco Thoman capitano di fregata.
      Improvvisamente il comandante Thoman ordinò la ritirata
      generale, senza una ben chiara ragione. Questo movimento
      significò la perdita della nostra Legazione... A salvare
      la situazione contribuì non poco il marchese Salvago
      Raggi, e questa pagina della cronistoria ha per noi un
      interesse speciale"24.
-  
- La legazione italiana, dopo
   che il 22 mattina venne incendiata dai Boxer, fu abbandonata dal
   piccolo contingente che si trasferì nella residenza
   (Fu) di un mandarino cinese - fuggito alle prime
   rappresaglie - situata di fronte alla legazione inglese. Qui i
   marinai, insieme con un drappello di Giapponesi, si misero a
   protezione delle legazioni inglese, giapponese e
   spagnola:
-  
- "Il Fu era la chiave della
   Legazione inglese, ossia di tutta la difesa. Un solo cannone dal
   Fu avrebbe ridotto la Legazione d'Inghilterra a un mucchio di
   rovine. I nostri marinai avevano il posto d'onore
   [...]
- La difesa del Fu, operata dai
   marinai italiani, è, senza dubbio, una delle più
   belle pagine dell'assedio. L'abnegazione, il coraggio, la pazienza
   dei nostri uomini, che non avendo più una Legazione da
   difendere le hanno difese tutte, cominciano a diventare argomento
   di leggenda [...] Fra gli attacchi, le tregue e le
   spedizioni, la difesa del Fu è continuata fino all'ultimo
   giorno, cedendo il terreno palmo a palmo, lavorando sempre. Il
   comandante Paolini dava l'esempio dell'abnegazione. Quando egli
   era nell'ospedale inglese per la sua ferita, il duca don Livio
   Caetani prese il comando del Fu, dove lavorava alle trincee e alle
   barricate in mezzo ai marinai,
   instancabile"25.
-  
- Con la presa e l'occupazione
   di Pechino da parte delle forze alleate, l'Imperatrice e la Corte
   si rifugiarono nel palazzo d'Estate e da qui si trasferirono a
   Xi'an, mentre gli edifici pubblici, i templi e i più
   sontuosi palazzi della capitale divennero gli alloggi delle
   truppe. Fu però stabilito che la Città Proibita non
   sarebbe stata occupata: l'umiliazione all'impero fu inflitta dal
   passaggio delle truppe che attraversarono da sud a nord i cortili
   e palazzi vietati da secoli a tutte le persone
   "comuni":
-  
   
   
      - "Il mattino del 28 agosto
      1900, ebbe luogo la solenne cerimonia. Nello spazio, che
      precede la porta Sud della Città imperiale, si
      riunì il Corpo Diplomatico, i Capi di contingenti con i
      loro Stati maggiori, le rappresentanze di tutte le truppe, con
      rispettive bandiere: 800 russi, 800 giapponesi, 400 inglesi,
      400 americani, 300 francesi, 250 germanici, 100 italiani, 60
      austriaci. Fra gli Ufficiali italiani, i nuovi venuti, del
      Fieramosca, ed il Tenente di vascello Sirianni. Il Tenente di
      vascello Paolini, il Sotto-Tenente di vascello Olivieri, con i
      distaccamenti, che avevano preso parte alla difesa della
      Legazione e del Pe-tang [Bei Tang] , erano alla testa
      della compagnia"26.
-  
- Non tutti gli storici sono
   però d'accordo con questa versione "pacifista"
   dell'ingresso delle truppe straniere a Pechino:
-  
   
   
      - "Ha allora inizio una
      carneficina e un saccheggio sistematici che superano di gran
      lunga tutti gli eccessi commessi dai Boxers. A Pechino migliaia
      di uomini vengono massacrati in un'orgia selvaggia; le donne e
      intere famiglie si suicidano per non sopravvivere al disonore;
      tutta la città è messa a sacco; il palazzo
      imperiale, occupato dalle truppe straniere, viene spogliato
      della maggior parte dei suoi
      tesori"27.
-  
- L'Italia, secondo il Ministro
   Salvago Raggi, fu quasi estranea a tali vilipendi e massacri, e
   nella lettera di Candiani al Ministero della Marina del 25
   febbraio 1901 è scritto: "È del pari opportuno
   ripetere che le nostre truppe non presero mai parte a saccheggi,
   incendi e massacri, se non altro perché giunte in
   ritardo"28.
-  
- Sin dall'inizio del giugno gli
   avvenimenti in Cina destarono l'attenzione dell'opinione pubblica
   italiana e non mancò giorno che sui principali quotidiani
   non apparissero notizie al riguardo: si trattava principalmente di
   comunicazioni telegrafiche da Londra e altre capitali europee,
   alle volte da Shanghai, mentre furono completamente interrotte le
   comunicazioni con Pechino e Tianjin a causa di guasti alle
   apparecchiature. Per molti giorni mancarono notizie sulla
   legazione italiana, e ciò fece presagire il peggio per
   l'incolumità dei connazionali. L'on. Crispi in un articolo
   sulla Tribuna, riportato sul Corriere della Sera del
   22-23 giugno, esordisce con queste parole: "Gli avvenimenti
   cinesi, dei quali abbiamo notizie così incompiute e
   frammentarie, sono il prologo d'un gran dramma, che rappresenta un
   pericolo gravissimo per la pace d'Europa". E
   aggiunge:
-  
   
   
      - Non si tratta più di
      un'avventura coloniale, cui si possa discutere se convenga
      agl'interessi dello Stato o disconvenga: si tratta di un
      sanguinoso festino, alla fine del quale largo e ricco
      sarà il bottino da dividere fra coloro che vi avranno
      diritto. E l'Italia, appartandosi come fa, sarà esclusa.
      Piangeremo poi la nostra imperizia, la nostra imprevidenza: ma
      le lagrime dei deboli non indurranno i forti, dopo la vittoria,
      a privarsi di una sola foglia dell'alloro
      meritato.
-  
- La questione di un intervento
   più massiccio fu sollevata anche nel corso della seduta del
   Senato del 23 giugno, in seguito ad una interpellanza del sen.
   Vitelleschi, in cui venne ribadita la necessità della
   tutela della Legazione italiana e dei connazionali non solo nel
   momento attuale, ma per l'avvenire29.
- Finalmente con una circolare -
   riservatissima - del 5 luglio 1900 il Ministero della Guerra dava
   disposizioni d'inviare, in rinforzo dell' "Elba" e della
   "Calabria" già sul posto, della "Fieramosca" partita il 10
   giugno e della "Vittor Pisani" salpata il 3 luglio, le navi della
   Marina Militare "Stromboli" e "Vesuvio", che dovevano costituire
   la Forza Oceanica dell'Estremo Oriente al comando dell'ammiraglio
   Candiani imbarcatosi sulla "Fieramosca". Il 19 luglio, a bordo dei
   piroscafi noleggiati "Minghetti", "Giava" e "Singapore" della
   Navigazione Generale Italiana, il corpo di spedizione partì
   da Napoli per il secondo intervento in Cina. Il 12 agosto il
   convoglio giunse a Singapore e da là, sotto la scorta della
   "Stromboli", procedette per la rada di Dagu, dove giunse all'alba
   del 29 agosto. Il contingente italiano, al comando del colonnello
   Garioni, era costituito principalmente da un battaglione di
   fanteria agli ordini dal tenente colonnello Salsa; un battaglione
   di bersaglieri comandato dal maggiore Agliardi; una batteria di
   mitragliatrici; un distaccamento del genio e un drappello di
   sussistenze. In tutto 83 ufficiali e 1882 uomini di truppa che
   s'aggregarono al corpo di spedizione alleato dalla fine del 1900 a
   tutto il 1901. Con lo sbarco di queste truppe l'effettivo italiano
   fu portato a 2445 uomini.
-  
- Il 22 dicembre 1900 il Corpo
   Diplomatico di Pechino presentò ai plenipotenziari cinesi
   una nota collettiva e definitiva, contenente 12 articoli, che,
   incondizionatamente accettata dalla Cina, doveva ristabilire la
   pace con le potenze straniere, ma le trattative, per arrivare alla
   firma del protocollo, si protrassero sino al 7 settembre 1901. La
   Cina fu costretta ad accettare durissime condizioni: pagamento dei
   danni di guerra ammontanti a 450 milioni di taels rateizzati in 40
   anni, divieto di importare armi, smantellamento del forte Dagu,
   presentazione di scuse diplomatiche, emanazione di un editto che
   vietasse in tutto il paese le manifestazioni xenofobe. Anche
   l'Italia, sebbene in misura ridotta rispetto alle altre nazioni,
   ebbe la sua parte di "bottino di guerra", al quale rinunciò
   con il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio
   194730. I "privilegi" italiani in Cina consistevano
   in:
- - il riconoscimento della
   Legazione italiana nel quartiere delle Legazioni di Pechino con un
   contingente di truppe a presidio;
- - la Concessione di Tianjin,
   che occupava un'area di circa mezzo chilometro quadrato, e che
   costituiva la principale acquisizione in Cina;
- - l'autorizzazione a servirsi
   dei quartieri internazionali di Shanghai e Amoy (Xiamen, nel
   Fujian);
- - un indennizzo per danni di
   guerra di 26.617.000 di taels (equivalenti a 100 milioni di lire
   del 1901)31.
-  
- La partecipazione italiana
   alla forza multinazionale non ebbe solo importanza militare, ma
   offrì anche i presupposti per i futuri sviluppi economici,
   benché il nostro Governo non attuasse una solida politica
   di sostegno nei confronti delle imprese interessate a commerciare
   con la Cina. Le "conquiste coloniali" sono state - con alterne
   fortune - rivolte principalmente verso l'Africa, trascurando quasi
   del tutto l'Estremo Oriente, e ciò a differenza di altre
   nazioni che già da tempo avevano creato e ampliato le loro
   zone di influenza. È pur vero che le condizioni interne
   dell'Italia predisponevano a proporzionare l'intervento secondo le
   forze economiche, ma gli interessi conseguiti in Cina -
   soprattutto l'acquisizione della Concessione di Tianjin -
   avrebbero potuto porre le basi per più proficui sviluppi
   commerciali. Certo la presenza di una sessantina di aziende
   italiane a Tianjin e nei quartieri internazionali di Shanghai
   poteva far credere che le relazioni fossero ben consolidate, ma
   l'assenza di grandi complessi industriali, come la Fiat e la
   Marelli, attenuava l'importanza della nostra partecipazione. Sin
   dal 1901 il Credito Italiano e la Società Bancaria Milanese
   istituirono la "Società italiana per il commercio con le
   Colonie"32, ma la mancanza di sportelli bancari in Cina
   non fu avvertita dal Governo. Fu soprattutto su iniziativa
   personale che si cercò di promuovere la presenza italiana:
   nel 1913 il Conte Sforza (addetto commerciale presso la Legazione
   di Pechino) segnalò la necessità dell'apertura di
   una banca italiana, ma solo nel 1918 l'allora primo Ministro Nitti
   sollecitò i quattro maggiori gruppi bancari (Banca
   Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma e Banca
   Nazionale di Sconto) a prendere atto di questa necessità; e
   nel 1920 fu istituita a Tianjin la "Banca Italo-cinese" con
   filiali a Pechino e Shanghai33. Quest'ultimo fatto
   testimonia la cronica lentezza degli "arrivi" italiani in Cina,
   come del resto si è potuto constatare quando, nei decenni
   successivi, una stabile e qualificata presenza industriale e
   commerciale del nostro paese si è proposta sul mercato
   cinese.