Clara Bulfoni

 
IL CONTRIBUTO ITALIANO ALLA LIBERAZIONE DELLE
LEGAZIONI STRANIERE ASSEDIATE A PECHINO DAI BOXER
 
 
 
Solitamente quando si affronta il tema della presenza italiana in Cina, si risale fino ai nomi di Marco Polo, alla corte di Genghis Khan, e poi del gesuita Matteo Ricci, in Cina dal 1583 al 1610. Ad essi si aggiungono altri viaggiatori e missionari più o meno noti i quali, oltre a divulgare il Cristianesimo nelle più remote regioni, diffusero anche le scienze e le tecniche occidentali1. Ma si trattava, per lo più, di religiosi in Cina sotto la protezione di qualche paese occidentale e di marinai imbarcati su navi straniere.
Di fatto le prime relazioni politiche dell'Italia con la Cina iniziarono solo il 26 ottobre 1866 con il "Trattato di commercio e navigazione" siglato dal comandante della pirocorvetta della Regia Marina "Magenta", Vittorio Arminjon, durante una campagna in Oriente. Con questo trattato quindici porti furono aperti al commercio italiano e fu riconosciuta una rappresentanza nella capitale cinese2. Fautore di più cospicui rapporti commerciali con l'estero, in particolare con l'Oriente, fu il conte Luigi Torelli, ministro dell'Agricoltura e del Commercio sotto il Governo La Marmora nel 1864. Infatti, l'allora fiorente produzione dell'industria serica italiana fu messa a rischio da una malattia del baco, imponendo quindi la necessità di rifornirsi dai paesi orientali, e in particolare dalla Cina, di bachi da seta3.
Da allora i viaggi di navi italiane in Cina si succedettero con regolare frequenza. La presenza di connazionali residenti era tuttavia molto esigua: solo 23 persone nel 1872 e 133 nel 1891, per la maggior parte stabilitesi a Shanghai, il maggior centro di commercio4. Un trafiletto del Corriere della Sera del 10-11 luglio 1900 riporta una statistica, redatta dal Governo americano, sulla popolazione straniera residente in Cina: nel 1899 gli italiani ammontavano a 124 con 3 ditte. Il nuovo Regno d'Italia prestava scarsa attenzione alla Cina; essa infatti non costituì mai un paese di conquista territoriale ed economica per i nostri politici: il primo Ministro plenipotenziario incaricato a Pechino il 31 marzo 1867 aveva stabilito la sua residenza in Giappone, ove era pure accreditato, e solo nel 1878 Ferdinando de Luca fu nominato residente a Pechino, preferendo però stabilirsi a Shanghai, dove era accentrata la presenza italiana5. Gioverà riportare il giudizio - molto critico - di Giuseppe de' Luigi, delegato della Missione Italiana in Cina nel primo decennio del '900, in merito all'indifferenza del nostro governo:
 
"Eravamo riusciti, per forza delle circostanze e per merito del nostro rappresentante [il Ministro Salvago Raggi] durante l'occupazione di Pekino, ad infondere migliore concetto di noi. Con il riconoscimento del protettorato italiano da parte delle nostre missioni avevamo già una considerevole mole di interessi in Cina, ma la fedeltà ai soliti sistemi non mai abbastanza deplorati ci fece perdere anche i vantaggi che solo alla fortuna dovevamo [...] Con disinvoltura noi ci ostentiamo a considerare lo stesso funzionario, adatto indifferentemente alle Americhe ed all'Africa. I nostri rappresentanti sono i soli, con enorme pregiudizio di nostri interessi, a non essere specializzati [...] Parlare d'un'influenza esercitata dall'Italia in Estremo Oriente, sarebbe o menzogna od ironia. La Cina, il maggior mercato del mondo, ha un bel concetto del Belgio e dell'Olanda, ma non di noi, che crede deboli, ma intenzionalmente rapaci al pari dei forti"6.
 
Un argomento, finora poco affrontato, ma che merita maggior approfondimento proprio attraverso l'esame della stampa e della documentazione dell'epoca, è quello dell'intervento multinazionale, di cui fece parte anche l'Italia, per la liberazione delle legazioni straniere assediate a Pechino dai Boxer nel 1900.
Alla fine del XIX secolo la Cina venne scossa da una profonda crisi culturale e politica, che originò dalla propria debolezza economica. Dopo la guerra cino-giapponese del 1894-95 che rivelò la tragica impotenza della Cina7, l'imperatrice Ci Xi, non riuscendo a far fronte ai problemi finanziari, s'indebitò sempre più con le potenze occidentali, le quali, in cambio dei prestiti accordati, pretesero maggiori privilegi sul territorio cinese nel tentativo d'attuarne uno "spezzettamento" (Break-up of China). Il fallimento delle riforme del 18988 indusse l'imperatrice a cercare di dirigere la marea del malcontento lontano dal trono, in altre parole contro gli stranieri e le loro proprietà. Fu in questo clima che prese via via sempre più spazi la setta dei "Pugni di giustizia e di concordia" (Yihe quan) - conosciuta in Occidente sotto il nome di "Boxer"9 - caratterizzata da un estremismo a forti tinte xenofobe. Le origini di questo movimento non sono del tutto chiare, ma si ritiene si tratti di una società segreta sorta agli inizi del XIX secolo e sviluppatasi soprattutto nello Shandong, dove il governo incoraggiò l'organizzazione di milizie locali per resistere ai Tedeschi, particolarmente orientati ad ampliare i loro interessi in questa provincia. Infatti l'espansione dei grandi imperi coloniali, iniziata con la Guerra dell'Oppio nel 1840, sollevò l'opposizione violenta delle masse cinesi, vessate dal crollo dell'economia artigianale contadina e dalle catastrofi naturali, opposizione diretta da società segrete legate all'ambiente rurale e rivolta soprattutto contro le missioni e i cristiani cinesi, contro i quali vennero diretti numerosi attacchi tra il 1895 e il 1899. In seguito alle proteste straniere, la Corte fu costretta ad intervenire militarmente contro i Boxer che allora spostarono il proprio campo d'attività verso la regione del Zhili (l'attuale provincia dello Hebei), riversandosi poi sia a Pechino sia a Tianjin, dove distrussero beni delle missioni e degli stranieri.
Manifesti affissi il 20 maggio 1900 per le vie di Pechino e annuncianti che il massacro degli stranieri avrebbe avuto luogo il primo giorno della quinta luna, cominciarono a diffondere l'allarme, ma ancora i ministri stranieri non si trovavano d'accordo nel richiedere l'invio di truppe per proteggere le legazioni10. A questo proposito, il Corriere della Sera del 9-10 giugno riportava in prima pagina:
 
Il problema politico del giorno è nell'Estremo Oriente, ove la rivolta dei Boxers ha creato una situazione assai complicata [...]
Solo un'azione comune delle Potenze potrebbe domare l'insurrezione: gli ultimi dispacci fanno credere alla possibilità di un accordo: ma, mentre l'Inghilterra si mantiene assai riservata, è evidente la gelosia reciproca cui si ispirano gli imperi russo e il giapponese, fatti già rivali dalla questione della Corea [...]
 
Alla fine di maggio i Boxer incendiarono la stazione ferroviaria e distrussero la strada ferrata nelle vicinanze di Pechino, mettendo in grave pericolo l'incolumità dei residenti occidentali. Il corpo diplomatico internazionale decise finalmente di richiedere l'invio di guarnigioni di soldati dei rispettivi Paesi.
La via più breve per arrivare a Pechino era uno sbarco nel Golfo del Bohai (all'epoca chiamato golfo del Zhili alla foce del fiume Hai), e da qui per ferrovia, passando per Tianjin - 58 km. dal mare e raggiungibile con navi di minor stazza - arrivare alla capitale che ne dista 128. C'erano allora in Cina due navi italiane, l'"Elba" e la "Calabria": la prima si trovava a Zhifu, nello Shandong, quando ricevette le prime notizie dei disordini scoppiati a Pechino. Ma in seguito all'aggravarsi della situazione, il Ministro d'Italia a Pechino, Salvago Raggi, scrisse il 28 maggio un telegramma urgente al comandante Casella dell'"Elba" con la richiesta di salpare urgentemente per la rada di Dagu (alla foce del fiume Hai), secondo le decisioni prese dal Corpo Diplomatico costituito dai rappresentanti di undici potenze (Spagna, Germania, Francia, Inghilterra, Italia, Belgio, Austria, Stati Uniti, Giappone, Olanda, Russia). Nel pomeriggio del 30 maggio, l'"Elba" era a Dagu e fu deciso di mandare a terra un distaccamento di trentanove uomini comandato dal tenente di vascello Federico Paolini e dal sottotenente di vascello Angelo Olivieri. Nel frattempo erano già giunte, o stavano per giungere, le navi d'altre nazioni. Fu così che il mattino del 31 i distaccamenti si misero in navigazione verso Tianjin e da qui ripartirono, in treno, per Pechino dove giunsero il giorno seguente. La "forza" era così costituita: 79 uomini per l'Inghilterra, 55 Stati Uniti, 23 Giappone, 30 Austria, 75 Francia, 50 Germania, 75 Russia, 40 Italia, per un totale di 428 fra ufficiali e soldati. I distaccamenti s'insediarono nelle rispettive legazioni fino alla decisione, presa il 6 giugno, di creare la difesa di un quadrilatero racchiudente tutte le residenze straniere; il comando fu assunto dal comandante più anziano, l'austriaco Thoman. I numerosi volontari civili rimasero alla difesa della legazione inglese, dove si trovavano le donne e i bambini11.
Il 5 giugno, su richiesta di Monsignor Alfonso Favier, capo delle Missioni Cattoliche e Vicario apostolico a Pechino, venne inviato un drappello di undici uomini al comando del sottotenente di vascello Olivieri in difesa di Bei Tang, la "Cattedrale del Nord" situata nel cuore della città tartara. Nel recinto della chiesa si trovavano più di 3000 rifugiati, molti dei quali bambini e donne, e la difesa di questo luogo costò la vita a sei marinai italiani e a 300 tra gli assediati12. Secondo Valli13: "L'assedio del Pe-tang [Bei Tang], durato due mesi circa, è forse il più drammatico episodio tra tutti gli avvenimenti che si svolsero in Cina nel 1900".
Il 7 giugno la situazione si aggravò: furono attaccate le missioni cristiane della regione, e i missionari che riuscirono a scappare si rifugiarono nelle legazioni della capitale. Altri rinforzi furono allora chiesti dai singoli Ministri e fu fatto sbarcare al largo di Dagu un nuovo corpo di spedizione composto da 400 uomini, fra cui quaranta italiani al comando del tenente di vascello Sirianni, scesi dalla "Calabria". Un altro distaccamento italiano, composto da venti uomini delle navi "Elba" e "Calabria" agli ordini del sottotenente di vascello Carlotto, fu fatto sbarcare il giorno successivo ed inviato a Tianjin per la difesa delle concessioni straniere. Carlotto perse la vita in combattimento il 15 giugno e alla sua memoria vennero poi dedicate una via centrale e la caserma della concessione italiana di Tianjin.
Il comando della seconda spedizione a Pechino, di cui faceva parte il distaccamento italiano al comando di Sirianni, venne assunto dall'ammiraglio inglese Seymour. Questa guarnigione giunse a Tianjin l'8 giugno rinforzata da altri reparti per un totale di 1782 uomini. Si cercò di raggiungere Pechino in treno, ma dopo cinque giorni di arduo viaggio e di continui combattimenti, e a causa dell'interruzione della linea ferroviaria, il contingente internazionale dovette rientrare a Tianjin, abbandonando i treni. Il 26 giugno la spedizione fece ritorno a Tianjin dopo un'epica marcia a piedi nel fango, respingendo continui attacchi dei Boxer e dopo aver perso nei combattimenti 62 uomini, di cui cinque marinai italiani. A seguito di titoli allarmistici come "Il sinistro silenzio circa Seymour" e "Le forze alleate entrarono a Tien-Tsin - Seymour sarebbe prigioniero?"14, il Corriere della Sera del 1-2 luglio pubblica il rapporto ufficiale dello stesso Seymour telegrafato da Londra e diramato dall'Ammiragliato inglese:
 
Sono ritornato con le mie forze a Tien-Tsin, non potendo arrivare a Pechino per via terrestre. Il 13 giugno ebbi due attacchi dall'avanguardia dei Boxers, che furono respinti con perdite considerevoli dei Boxers e nessuna perdita nostra. Il 14 giugno i Boxers attaccarono un treno a Lang-Fang [l'attuale Anci]: erano numerosi e accaniti, ma furono respinti. Essi ebbero 100 morti; noi ebbimo 5 italiani uccisi [...] La distruzione della ferrovia davanti a noi avendo reso il proseguimento del viaggio impossibile, decisi il 16 giugno di ritornare a Yang-Tsun [l'attuale Wuqing], per tentare di là di recarmi a Pechino per la via fluviale. Dopo la mia partenza da Lang-Fang due treni lasciati indietro furono attaccati il 18 giugno dai Boxers e dalle truppe imperiali di Pechino [...] I due treni mi raggiunsero poi a Yang-Tsun la sera medesima, ma essendo imbarazzato dai feriti, cambiai parere e decisi di ritornare a Tien-Tsin.
Il 19 giugno per ritornare indietro incontrai opposizione accanita in quasi tutti i villaggi [...] Il 23 giugno dopo una marcia notturna arrivammo presso l'arsenale imperiale prima di Tien-Tsin15, ove il nemico dopo avermi fatto proposte amichevoli aprì proditoriamente il fuoco sopra di noi [...] Abbiamo alla fine occupato l'arsenale e dovemmo respingere nei giorni seguenti ogni attacco che il nemico faceva per riprenderlo. Trovai nell'arsenale quantità immense di fucili, armi, munizioni. Parecchi cannoni cinesi furono adoperati per la nostra difesa e cominciammo a bombardare i forti cinesi più in basso. Avendo trovato munizioni e riso, avrei potuto mantenermi ancora alcuni giorni, ma imbarazzato da numerosi feriti domandai a Tien-Tsin soccorsi, che arrivarono il 25 mattina. Allora evacuammo l'arsenale incendiandolo e il 26 rientrammo a Tien-Tsin [...]
 
Nel frattempo altre truppe arrivarono a Dagu e furono intraprese operazioni per assicurare le vie di comunicazione fra il mare e la capitale: il 17 giugno furono espugnati i forti alla foce del Hai He, alla cui conquista partecipò un distaccamento di ventiquattro marinai italiani al comando del tenente di vascello Tanca. Sulla prima pagina del Corriere della Sera del 22-23 agosto, è riportata la testimonianza di un partecipante alla spedizione, dal titolo "L'azione degli Italiani in Cina: un veronese pianta la bandiera sul forte di Ta-ku [Dagu]":
 
L'"Arena" di Verona reca una lettera che il sott'ufficiale Cesco di Castelletto di Brenzone sul Garda (Verona) ha diretto da Tien-Tsin, 2 luglio, alla propria madre. Ne stralciamo i punti più notevoli:
"Il 16 giugno, alle 17, sbarcai dalla "Calabria" con dodici marinai. Dopo un quarto d'ora da che ero entrato nel canale del Ta-ku [Dagu], la Cina ordinava di far fuoco su qualunque imbarcazione che fosse entrata in quel porto. Allora andai col mio plotone a bordo della cannoniera inglese "Algerine".
"Alle 14.30 del 17 si ebbe l'ordine di ricominciare il bombardamento dei cinque forti formidabili di Ta-ku [Dagu].
"Una cannonata cinese alle 11.45 rompe sull' "Algerine" due manicavento. Io sbarco dalla cannoniera insieme agli Inglesi.
"Intanto due cannoniere russe, una francese, una giapponese, aprono il fuoco anch'esse. Appena sbarcati andiamo a riparo dietro una collina, ove troviamo marinai giapponesi, russi, austriaci; tutto compreso, noi si contava 600 uomini.
"Dopo tre ore circa di combattimento, ci venne l'ordine di aprire il fuoco per pigliare il primo forte (il più agguerrito), e finalmente dopo otto ore di fuoco si riesce a pigliarlo [...]
"Io stesso alzo la bandiera tricolore sul primo forte di Ta-ku [Dagu].
"Il giorno 18 sbarcano dall' "Elba" altri dodici marinai e un tenente di vascello della "Calabria" e si uniscono a noi. Alle 6 del 19 si parte, lasciando nei forti dei soldati per la difesa. Noi lasciammo due marinai per la guardia alla bandiera."
 
Intanto le notizie provenienti da Tianjin indicavano che la situazione degli stranieri residenti nelle concessioni era sempre più critica. Si decise cosi d'inviare una colonna militare:
 
"Si forma una treno militare. In tutto potevamo essere 1000 soldati e 3000 venivano a piedi.
"Si va avanti nella direzione di Tien-Tsin, distante circa 80 chilometri, per liberare gli europei che stavano nella città.
"Dopo mezz'ora di cammino, devia il primo vagone, causa la rottura delle rotaie fatta dai nostri nemici; si smonta tutti e si continua la marcia a piedi. Dopo circa sei ore di cammino, ci accampammo.
"Il giorno seguente si ripiglia la marcia, e noi italiani, compreso un plotone americano ed uno inglese, si forma l'avanguardia. [...]
"Si marciava sotto il comando di un generale russo; infine ci troviamo davanti 45 mila soldati cinesi. Dopo due ore di combattimento il nemico si dà alla fuga [...]
"Si insegue il nemico per circa 10 ore sempre di corsa. I Cinesi si rifugiano sotto i forti di Tien-Tsin. Noi si va sempre avanti e alla 5 della sera entriamo in Tien-Tsin vittoriosi16.
 
Appena giunto a Tianjin, fu chiesto al tenente di vascello Tanca di portare aiuto a Seymour assediato nell'arsenale imperiale alle porte della città: rotto l'assedio e liberate le truppe, il 26 il distaccamento era di nuovo a Tianjin:
 
"Il 26 si parte alle 11.30 della notte per andare a liberare un arsenale cinese, nel quale ci stavano chiuse circa 1500 truppe europee, fra le quali 60 marinai della "Calabria" senza viveri e senza acqua e circondati da tutte le parti da un nemico cento volte maggiore.
"Il nemico sempre si ritirava e noi si arrivò a 300 metri dall'arsenale.
"Mentre si gridava "urrà" perché ci credevamo sicuri della liberazione, i cinesi ci piombarono addosso, ma dopo circa tre ore di combattimento furono costretti alla fuga. La notte ci si accampa e la mattina incendiamo l'arsenale e ci si ritira nella città di Tien-Tsin e precisamente nel quartiere europeo, perché il quartiere cinese appena noi siamo entrati l'abbiamo incendiato e ora sono sei giorni che brucia e ce ne sarà ancora per tutto il mese di luglio da bruciare.
"Nell'ultimo combattimento, noi della "Calabria" abbiamo avuto 5 morti, uno ferito gravemente e un ufficiale dell' "Elba" morto.
"Ora siamo qui in attesa dell'arrivo di nuove truppe europee di terra, le quali marceranno su Pechino, lasciando noi marinai alla difesa di Tien-Tsin"17.
 
Altisonanti le note sull'eroismo dei marinai italiani riportate dai nostri giornali, e in particolare dal Corriere della Sera, che sul numero del 19-20 agosto pubblica il seguente trafiletto:
 
L'ammiraglio inglese Seymour (il capo delle truppe alleate ch'era mosso verso Pechino) scrive al comandante elogiando tutte le truppe ed in particolare le nostre italiane. Dice che esse mettono la nota allegra in queste circostanze e che al fuoco non vengono meno al tradizionale valor del soldato italiano; che nell'assalto all'arsenale di Tien-Tsin dopo che i cosacchi russi furono respinti, andarono gli inglesi con alla testa il drappello degli italiani, i quali furono i primi ad entrarvi. Un fuochista italiano seguito da un cadetto austriaco, dopo aversi fatto largo attorno alla bandiera cinese che sventolava sull'Accademia navale di Tien-Tsin, fu ferito mentre stava ammainandola e riuscì nonostante il suo stato ad alzare la nostra.
 
Il 14 luglio la città di Tianjin fu definitivamente conquistata e il 26 un proclama annunciava alla popolazione la costituzione di un governo provvisorio.
 
L'espugnazione dei forti di Dagu offrì l'occasione alla Corte per prendere ufficialmente posizione contro gli stranieri. Lo Zongli yamen (Ufficio per l'amministrazione degli affari esteri) 18 dichiarò che tutti gli stranieri dovevano lasciare la capitale entro ventiquattro ore: il ministro della Germania, Von Ketteler, decise di recarsi a protestare, ma venne trucidato lungo la via. Il 20 giugno, alle quattro del pomeriggio, spirato il termine delle ventiquattro ore, fu aperto il fuoco sulle legazioni. Il giorno seguente la stessa imperatrice Ci Xi, che aveva fino allora mantenuto un atteggiamento ambiguo nei confronti dei Boxer, dichiarò guerra alle potenze19: iniziarono così i 55 giorni di assedio. Le legazioni, che erano rimaste aperte a chiunque volesse prendervi rifugio (occidentali residenti nella capitale e cristiani cinesi), furono organizzate per resistere all'assedio nell'attesa dei rinforzi. Nel recinto della legazione inglese - la più vasta e meglio protetta - vennero riuniti uomini e donne di undici nazioni diverse, 414 persone che affrontarono i frequenti assalti dei Boxer fino all'arrivo, il 14 agosto, del corpo di spedizione composto da tre colonne di forze alleate, di cui non faceva parte, però, il contingente italiano che entrò nella capitale tre giorni più tardi al comando del tenente Sirianni. Dieci giorni dopo arrivò Manusardi che assunse il comando del battaglione marinai costituitosi a Pechino.
Come mai l'Italia, che aveva dichiarato ripetutamente sin dall'inizio la propria volontà di associarsi all'azione delle altre Potenze, non era presente alla liberazione delle legazioni nella capitale? Bisogna innanzitutto precisare che i preparativi erano stati accompagnati da forti polemiche fra i capi militari dei vari contingenti, soprattutto fra russi e giapponesi20. I primi proponevano, dopo l'attacco a Beicang, di ritirarsi di nuovo a Tianjin, mentre i secondi propendevano per un attacco immediato alla capitale. La proposta giapponese fu appoggiata dai comandanti inglese e americano. Come nota Valli21: "Non è difficile scorgere che, anche qui, non si trattava di questioni tattiche. I giapponesi erano in numero di gran lunga superiore ai russi e le operazioni principali sarebbero state quindi compiute da loro, e sarebbero giunti primi alla presa di Pechino. Ciò era mal tollerato dai russi, che avrebbero voluto ritardare la marcia fino al giungere degli attesi rinforzi".
Le truppe furono ripartite in due colonne: alla destra del Hai He avrebbero marciato Giapponesi, Inglesi, Americani, alla sinistra Russi, Francesi, Tedeschi e Italiani. Il 5 agosto fu occupata Beicang, ma la colonna di sinistra incontrò notevoli difficoltà a causa di violente inondazioni e i distaccamenti, tranne il russo, ripiegarono su Tianjin, da dove ripartirono qualche giorno dopo - e quindi in ritardo - per Pechino. Il 6 agosto cadde Yangcun e fu deciso di marciare su Pechino. Prima di sferrare l'assalto i diversi distaccamenti (in altre parole quelli che avevano avanzato alla destra del Hai He e i russi che li avevano raggiunti) si riunirono a Tong Xian - a pochi chilometri a est di Pechino -, dove il 13 agosto fu deciso il piano d'attacco per il giorno successivo:
 
Finalmente dispacci dei generali Gaselee e Linevitch recano i particolari della presa di Pechino.
Gli Inglesi attaccarono la porta sud-est sfondandola senza trovarvi resistenza, perché l'attacco era inatteso. Entrarono quindi la fanteria, la cavalleria e l'artiglieria. Il generale Gaselee mandò la cavalleria e parte dell'artiglieria al Tempio del Cielo, e lui stesso col resto delle truppe si portò verso le Legazioni, arrivando alle tre e mezza nel canale di fronte al recinto che le chiude. Dall'alto del muro i ministri facevano segnali. Gaselee con una parte dello stato maggiore e con settanta soldati traversò il canale quasi asciutto e penetrò nel recinto senza subire perdite22.
 
Una brillante, espressiva descrizione dell'assedio alla legazione italiana è fornita dal giornalista-scrittore Luigi Barzini, il quale, come collaboratore del Corriere della Sera dal 1899, inaugurò le corrispondenze dall'estero23. Il 12 luglio 1900 s'imbarcò a Genova sulla "Prinz Heinrich" sulla quale giunse fino a Hong Kong: per un caso fortuito (era in attesa di una qualsiasi nave da guerra disposta ad imbarcarlo) giunse al porto della colonia inglese la nave italiana "Vettor Pisani" in rotta per Dagu. Barzini quindi si unì alla flotta fino a Dagu, e da qui, al seguito della compagnia di sbarco, proseguì per Tianjin e poi a Pechino:
 
"Le prime fucilate cinesi furono dirette contro la Legazione italiana e contro quella austriaca. Non si aspettava l'attacco. Ma l'attacco non sorprese. Si sapeva che le truppe del generale Tung-fu-ciau [Dong Fuxiang] si sarebbero alleate ai "boxers" presto o tardi [...] Poco dopo che la fucileria era cominciata, la Legazione austriaca veniva abbandonata dalla difesa [...] Dalla Legazione italiana si sentiva quasi continuo il crepitio della loro mitragliatrice.
Questa ritirata fu un errore. La Legazione belga era stata abbandonata da vari giorni, perché troppo isolata e lontana dalle altre. Così la difesa delle Legazioni si operava sopra un grande quadrato avente agli angoli le Legazioni d'Austria, d'Italia, d'America e d'Inghilterra. La ritirata degli austriaci portava la disorganizzazione in tutta la difesa: la Legazione italiana, troppo esposta, si veniva a trovare in una posizione insostenibile.
Verso le quattro, mentre il nostro ministro marchese Salvago Raggi, di ritorno dalla Legazione d'Inghilterra, dove aveva disposto per l'alloggio della sua signora, si preparava ad accompagnarla, la fucileria contro la Legazione d'Italia era continua [...] I marinai, vigilanti sulle piattaforme di legno lungo il muro di cinta e quelli appostati dietro alle barricate, non riuscivano a scorgere un cinese.
All'alba del ventidue, verso le quattro del mattino, la via delle Legazioni si riempì ancora di cinesi. Ma questa volta pareva che non fosse il saccheggio che li conducesse. Gridavano il loro "scià" ["sha"= uccidi] di guerra e si apprestavano alla barricata italiana con passo da contraddanza. Ogni tanto qualche proiettile veniva a schiacciarsi contro la barricata. evidentemente era un assalto [...]
Il nostro cannone entrò in azione. Cinque colpi bastarono. La via fu sgombrata. Ma nel frattempo i "boxers" si erano appressati dal lato nord occupando tutte le casupole abbandonate, attigue alla nostra Legazione. poco dopo quelle case ardevano, le fiamme minacciose si levavano a ridosso dell'abitazione del ministro e minacciava i fianchi dei due padiglioni abitati dai segretari [...]
Non era più possibile nemmeno di prepararsi il cibo da mangiare. Bisognò domandarne alla Legazione inglese, che mandava del riso, dei biscotti e del the. Il nostro ministro e il segretario della Legazione, marchese Caetani, non abbandonavano nemmeno un istante la barricata e dividevano con i marinai il magro pasto.
Intanto il comando della difesa, ad est della Legazione inglese, era stato preso dal comandante austriaco Thoman capitano di fregata. Improvvisamente il comandante Thoman ordinò la ritirata generale, senza una ben chiara ragione. Questo movimento significò la perdita della nostra Legazione... A salvare la situazione contribuì non poco il marchese Salvago Raggi, e questa pagina della cronistoria ha per noi un interesse speciale"24.
 
La legazione italiana, dopo che il 22 mattina venne incendiata dai Boxer, fu abbandonata dal piccolo contingente che si trasferì nella residenza (Fu) di un mandarino cinese - fuggito alle prime rappresaglie - situata di fronte alla legazione inglese. Qui i marinai, insieme con un drappello di Giapponesi, si misero a protezione delle legazioni inglese, giapponese e spagnola:
 
"Il Fu era la chiave della Legazione inglese, ossia di tutta la difesa. Un solo cannone dal Fu avrebbe ridotto la Legazione d'Inghilterra a un mucchio di rovine. I nostri marinai avevano il posto d'onore [...]
La difesa del Fu, operata dai marinai italiani, è, senza dubbio, una delle più belle pagine dell'assedio. L'abnegazione, il coraggio, la pazienza dei nostri uomini, che non avendo più una Legazione da difendere le hanno difese tutte, cominciano a diventare argomento di leggenda [...] Fra gli attacchi, le tregue e le spedizioni, la difesa del Fu è continuata fino all'ultimo giorno, cedendo il terreno palmo a palmo, lavorando sempre. Il comandante Paolini dava l'esempio dell'abnegazione. Quando egli era nell'ospedale inglese per la sua ferita, il duca don Livio Caetani prese il comando del Fu, dove lavorava alle trincee e alle barricate in mezzo ai marinai, instancabile"25.
 
Con la presa e l'occupazione di Pechino da parte delle forze alleate, l'Imperatrice e la Corte si rifugiarono nel palazzo d'Estate e da qui si trasferirono a Xi'an, mentre gli edifici pubblici, i templi e i più sontuosi palazzi della capitale divennero gli alloggi delle truppe. Fu però stabilito che la Città Proibita non sarebbe stata occupata: l'umiliazione all'impero fu inflitta dal passaggio delle truppe che attraversarono da sud a nord i cortili e palazzi vietati da secoli a tutte le persone "comuni":
 
"Il mattino del 28 agosto 1900, ebbe luogo la solenne cerimonia. Nello spazio, che precede la porta Sud della Città imperiale, si riunì il Corpo Diplomatico, i Capi di contingenti con i loro Stati maggiori, le rappresentanze di tutte le truppe, con rispettive bandiere: 800 russi, 800 giapponesi, 400 inglesi, 400 americani, 300 francesi, 250 germanici, 100 italiani, 60 austriaci. Fra gli Ufficiali italiani, i nuovi venuti, del Fieramosca, ed il Tenente di vascello Sirianni. Il Tenente di vascello Paolini, il Sotto-Tenente di vascello Olivieri, con i distaccamenti, che avevano preso parte alla difesa della Legazione e del Pe-tang [Bei Tang] , erano alla testa della compagnia"26.
 
Non tutti gli storici sono però d'accordo con questa versione "pacifista" dell'ingresso delle truppe straniere a Pechino:
 
"Ha allora inizio una carneficina e un saccheggio sistematici che superano di gran lunga tutti gli eccessi commessi dai Boxers. A Pechino migliaia di uomini vengono massacrati in un'orgia selvaggia; le donne e intere famiglie si suicidano per non sopravvivere al disonore; tutta la città è messa a sacco; il palazzo imperiale, occupato dalle truppe straniere, viene spogliato della maggior parte dei suoi tesori"27.
 
L'Italia, secondo il Ministro Salvago Raggi, fu quasi estranea a tali vilipendi e massacri, e nella lettera di Candiani al Ministero della Marina del 25 febbraio 1901 è scritto: "È del pari opportuno ripetere che le nostre truppe non presero mai parte a saccheggi, incendi e massacri, se non altro perché giunte in ritardo"28.
 
Sin dall'inizio del giugno gli avvenimenti in Cina destarono l'attenzione dell'opinione pubblica italiana e non mancò giorno che sui principali quotidiani non apparissero notizie al riguardo: si trattava principalmente di comunicazioni telegrafiche da Londra e altre capitali europee, alle volte da Shanghai, mentre furono completamente interrotte le comunicazioni con Pechino e Tianjin a causa di guasti alle apparecchiature. Per molti giorni mancarono notizie sulla legazione italiana, e ciò fece presagire il peggio per l'incolumità dei connazionali. L'on. Crispi in un articolo sulla Tribuna, riportato sul Corriere della Sera del 22-23 giugno, esordisce con queste parole: "Gli avvenimenti cinesi, dei quali abbiamo notizie così incompiute e frammentarie, sono il prologo d'un gran dramma, che rappresenta un pericolo gravissimo per la pace d'Europa". E aggiunge:
 
Non si tratta più di un'avventura coloniale, cui si possa discutere se convenga agl'interessi dello Stato o disconvenga: si tratta di un sanguinoso festino, alla fine del quale largo e ricco sarà il bottino da dividere fra coloro che vi avranno diritto. E l'Italia, appartandosi come fa, sarà esclusa. Piangeremo poi la nostra imperizia, la nostra imprevidenza: ma le lagrime dei deboli non indurranno i forti, dopo la vittoria, a privarsi di una sola foglia dell'alloro meritato.
 
La questione di un intervento più massiccio fu sollevata anche nel corso della seduta del Senato del 23 giugno, in seguito ad una interpellanza del sen. Vitelleschi, in cui venne ribadita la necessità della tutela della Legazione italiana e dei connazionali non solo nel momento attuale, ma per l'avvenire29.
Finalmente con una circolare - riservatissima - del 5 luglio 1900 il Ministero della Guerra dava disposizioni d'inviare, in rinforzo dell' "Elba" e della "Calabria" già sul posto, della "Fieramosca" partita il 10 giugno e della "Vittor Pisani" salpata il 3 luglio, le navi della Marina Militare "Stromboli" e "Vesuvio", che dovevano costituire la Forza Oceanica dell'Estremo Oriente al comando dell'ammiraglio Candiani imbarcatosi sulla "Fieramosca". Il 19 luglio, a bordo dei piroscafi noleggiati "Minghetti", "Giava" e "Singapore" della Navigazione Generale Italiana, il corpo di spedizione partì da Napoli per il secondo intervento in Cina. Il 12 agosto il convoglio giunse a Singapore e da là, sotto la scorta della "Stromboli", procedette per la rada di Dagu, dove giunse all'alba del 29 agosto. Il contingente italiano, al comando del colonnello Garioni, era costituito principalmente da un battaglione di fanteria agli ordini dal tenente colonnello Salsa; un battaglione di bersaglieri comandato dal maggiore Agliardi; una batteria di mitragliatrici; un distaccamento del genio e un drappello di sussistenze. In tutto 83 ufficiali e 1882 uomini di truppa che s'aggregarono al corpo di spedizione alleato dalla fine del 1900 a tutto il 1901. Con lo sbarco di queste truppe l'effettivo italiano fu portato a 2445 uomini.
 
Il 22 dicembre 1900 il Corpo Diplomatico di Pechino presentò ai plenipotenziari cinesi una nota collettiva e definitiva, contenente 12 articoli, che, incondizionatamente accettata dalla Cina, doveva ristabilire la pace con le potenze straniere, ma le trattative, per arrivare alla firma del protocollo, si protrassero sino al 7 settembre 1901. La Cina fu costretta ad accettare durissime condizioni: pagamento dei danni di guerra ammontanti a 450 milioni di taels rateizzati in 40 anni, divieto di importare armi, smantellamento del forte Dagu, presentazione di scuse diplomatiche, emanazione di un editto che vietasse in tutto il paese le manifestazioni xenofobe. Anche l'Italia, sebbene in misura ridotta rispetto alle altre nazioni, ebbe la sua parte di "bottino di guerra", al quale rinunciò con il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 194730. I "privilegi" italiani in Cina consistevano in:
- il riconoscimento della Legazione italiana nel quartiere delle Legazioni di Pechino con un contingente di truppe a presidio;
- la Concessione di Tianjin, che occupava un'area di circa mezzo chilometro quadrato, e che costituiva la principale acquisizione in Cina;
- l'autorizzazione a servirsi dei quartieri internazionali di Shanghai e Amoy (Xiamen, nel Fujian);
- un indennizzo per danni di guerra di 26.617.000 di taels (equivalenti a 100 milioni di lire del 1901)31.
 
La partecipazione italiana alla forza multinazionale non ebbe solo importanza militare, ma offrì anche i presupposti per i futuri sviluppi economici, benché il nostro Governo non attuasse una solida politica di sostegno nei confronti delle imprese interessate a commerciare con la Cina. Le "conquiste coloniali" sono state - con alterne fortune - rivolte principalmente verso l'Africa, trascurando quasi del tutto l'Estremo Oriente, e ciò a differenza di altre nazioni che già da tempo avevano creato e ampliato le loro zone di influenza. È pur vero che le condizioni interne dell'Italia predisponevano a proporzionare l'intervento secondo le forze economiche, ma gli interessi conseguiti in Cina - soprattutto l'acquisizione della Concessione di Tianjin - avrebbero potuto porre le basi per più proficui sviluppi commerciali. Certo la presenza di una sessantina di aziende italiane a Tianjin e nei quartieri internazionali di Shanghai poteva far credere che le relazioni fossero ben consolidate, ma l'assenza di grandi complessi industriali, come la Fiat e la Marelli, attenuava l'importanza della nostra partecipazione. Sin dal 1901 il Credito Italiano e la Società Bancaria Milanese istituirono la "Società italiana per il commercio con le Colonie"32, ma la mancanza di sportelli bancari in Cina non fu avvertita dal Governo. Fu soprattutto su iniziativa personale che si cercò di promuovere la presenza italiana: nel 1913 il Conte Sforza (addetto commerciale presso la Legazione di Pechino) segnalò la necessità dell'apertura di una banca italiana, ma solo nel 1918 l'allora primo Ministro Nitti sollecitò i quattro maggiori gruppi bancari (Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma e Banca Nazionale di Sconto) a prendere atto di questa necessità; e nel 1920 fu istituita a Tianjin la "Banca Italo-cinese" con filiali a Pechino e Shanghai33. Quest'ultimo fatto testimonia la cronica lentezza degli "arrivi" italiani in Cina, come del resto si è potuto constatare quando, nei decenni successivi, una stabile e qualificata presenza industriale e commerciale del nostro paese si è proposta sul mercato cinese.