Roberto Sanesi

Per un'introduzione a The Rape of Lucrece

 
Secondo Coleridge1, Venus and Adonis "forse non consentiva il dispiegarsi delle passioni più profonde". Osservazione almeno in parte ambigua, certo fondata su un'acuta percezione dell'artificiosità del testo, per quella "natura giocosa" che i1 desiderio sessuale della dea esibisce subito e su cui Shakespeare insiste con divertita freschezza inventiva, come inseguendo egli stesso nel gioco amoroso "il rapido fluire e repentino mutare dei pensieri e delle immagini". Come aspettarsi risvolti problematici da un semplice divertissement letterario? E perciò "mai si era dato poema meno pericoloso dal punto di vista morale". Di quelle passioni più profonde, narrate in Venus sotterraneamente e forse allontanate per una più o meno consapevole forma di censura, Lucrece gli appare invece più adatta a "favorirne e perfino richiederne la più intensa operazione". E però questa esigenza di maggiore approfondimento, una volta posta, Coleridge nel poemetto non la trova esaudita: non c'è pathos, non ci sono qualità drammatiche, dice. E tuttavia il poemetto, come già accennato, sembra l'esatto riflesso e conseguente compendio del primo, quasi una nuova e parallela argomentazione attorno alle ragioni o disragioni della lussuria, e del senso di perdita, aridità, interruzione forzata di un'armonia possibile, e precipitazione nella morte, provocate dal rifiuto di un coinvolgimento, da parte di Adone, nell'eros vitale di Venere. Dalla tonalità della commedia, aperta alla natura e alla luce, in Lucrece si passa alla tonalità notturna e claustrofobica della tragedia. E per quanto nel primo racconto si possa avvertire un senso di malinconia che non ne soffoca la vitalità, nel secondo il desiderio si spegne, "vincitore e vinto", disfatto dal proprio eccesso, seguendo il processo descritto nel sonetto 129:
 
Un dispendio di spirito, una consumazione vergognosa
è la lussuria in atto; e fino a che è nell'atto
la lussuria è spergiura, assassina, cruenta e riprovevole,
selvaggia e senza freni, bruta, crudele e infida;
ma appena soddisfatta, subito si converte nel disgusto.
 
Non fosse che la narrazione della contesa amorosa di Venere e Adone non può sfuggire, per la sua origine mitologica, a un'aura simbolico-favolistica, mentre The Rape of Lucrece mantiene un fondamento di verità storica rendendo inevitabile il dibattito sui principi morali che già per tradizione ne consegue, si potrebbe paradossalmente perfino supporre una pur sottile analogia fra Tarquinio come Venere e Lucrezia come Adone, con un interessante scambio di ruoli maschile-femminile: per la violenza del desiderio in atto, per l'apparente necessità di un rito sacrificale. I due poemetti sono da leggere a contrappunto, e con reciproca intenzionalità. È vero che si tratta spesso solo di un'adozione di formule tipiche della poesia cortese, ma anche le metafore utilizzate per descrivere l'aspetto delle due vittime, di virginalità e rossore, di pallore e di offeso riserbo, in qualche modo tendono a identificarle. In un continuum di opposizioni che nel sottolineare la loro condizione di innocenza e di castità segnalano l'abilità con cui Shakespeare prepara il lettore alla catastrofe. E ugualmente è paragonabile la sentenziosità, il gusto per il paradosso, la dovizia delle figure retoriche, le antitesi, gli ossimori, insomma per un concettismo ornamentale che si dispiega in una verbosità eccessiva, non funzionale all'equilibrio narrativo. Soprattutto, in Lucrece, rallentando l'efficacia dell'azione: il ritmo trovato in Venus faceva del lettore un "voyeur", qui per ragioni del tutto comprensibili si impone al lettore un ruolo di testimone, gli si richiede un giudizio morale. Ma la sproporzione fra l'intensità dell'episodio dello stupro (concentrato in pochissimi versi) e il dilagante monologo di Lucrezia nella seconda parte del poemetto (fra il verso 729 e il verso 1855, che la descrizione dell'immagine della città di Troia distrutta non riesce né a spezzare né a variare) contribuisce a un abbassamento di tono, e infine d'attenzione. È vero, come è stato detto più volte, che Lucrece costituisce una sorta di magazzino di temi e immagini che Shakespeare utilizzerà nel teatro, ma a dispetto dei dialoghi, dei monologhi, degli a parte, l'impostazione "teatrale" di Lucrece rimane squilibrata e virtuale. È ovvio che le convergenze appena intuite, come pura ipotesi di confronto interpretativo, non possono essere assunte alla lettera - e tuttavia non sono estranee a quella percezione di morbosità e perversione che i due testi provocano. Ai tratti efebici e all'indifferenza di Adone ("Adone non è soltanto un 'ragazzo restio', ma l'incarnazione della bellezza della natura in forme mascoline")2 Shakespeare oppone sì una Lucrezia esangue e indifesa, ma non incorporea. La sua paura la sentiamo fisica. Non un objet d'art distanziato nella sua perfezione, ma una donna di cui comprendiamo, nella progressiva variazione degli stati d'animo dallo stupore alla disperazione alla fermezza stoica, una sensualità trattenuta ma autentica. Venere, in quanto dea (non solo una "donna esperta"), malgrado la sua fisicità apertamente esibita, è un emblema. Non così Lucrezia, non finché l'autore ce la mostra attraverso gli occhi di Tarquinio. Da parte di Shakespeare è quasi un ricatto. Ed è un lento disvelamento, che contribuisce a rendere problematico, per contrasto di furia e d'innocenza, il ruolo del personaggio maschile prima afferrato da un impeto cieco e totale, "lussuria in atto" ravvivata dall'immaginazione ("ladro furtivo" che corre "a spegnere i tizzoni che gli bruciavano il ventre"), e infine colto da smarrimento, "per la vittoria ottenuta perduto e prigioniero", e allora costretto alla fuga "imprecando al piacere che ormai lo disgusta". Anche qui la relazione con il sonetto 129 è forte. A differenza di Venere col suo richiamo a una partecipazione armonica con gli impulsi vitali di un eros che informa la natura tutta, Tarquinio non è soltanto il bruto aggressore che deve possedere la bellezza, egli è colpevole perché la sua violenza infrange un ordine etico-sociale. Oltre che distruggere, con Lucrezia, la propria "anima" (perché forse è questo che Lucrezia rappresenta). Il desiderio sessuale, inattuato o consumato a forza, sembra in entrambi i casi distruttivo, ma la differenza fra i due testi si manifesta nel passaggio da un ethos libero e procreativo a un contesto di principi morali formalizzati. E si potrebbe supporre che in questi non c'è violenza minore, anche se forse Shakespeare non intendeva spingersi fino a questo punto. La metamorfosi passa comunque attraverso un sacrificio, ma la ritualità della morte di Adone e del suicidio di Lucrezia è di segno diverso. Nel primo caso mitica, atemporale. Nel secondo sociale, e perfino politica. Tanto è vero che fra le varie interpretazioni del testo non è mancata la versione ideologico-politica, nell'ipotesi che l'intendimento di Shakespeare fosse di dimostrare al Conte di Southampton i rischi di ogni abuso di potere. Ma se connotazioni di questo tipo esistono, si trovano sullo sfondo, marginali, non sviluppate. E per confermarle si dovrebbe provare che la fonte principale più sentita e seguita da Shakespeare erano le storie di Tito Livio3 e non, come è evidente, le fantasie di Ovidio. Nel complesso, anche qui l'interesse è nella psicologia del desiderio, nel suo abnorme e disastroso egotismo. Tanto da suggerire che al punto estremo di "crisi" la violenza non sia più nemmeno orientata, ma sia strumento, oggetto e soggetto del desiderio.
Senza dubbio Lucrece, "l'opera di più gravoso impegno" annunciata nella dedica di Venus and Adonis, poggia su una serie di fonti che interagendo fra loro possono lasciar trapelare intenzionalità molteplici. Il personaggio di Lucrezia, in quanto "personaggio", e forse proprio per eccesso di ragionamento rispetto all'azione, può apparire disegnato in modo più astratto a paragone di quello di Tarquinio, da considerare uno dei prototipi di Macbeth. E non a caso Macbeth, per così dire, se lo ricorda, tanto da riferirsi direttamente a lui (e al testo di Shakespeare) nel comporre un parallelo: "and wither'd Murther, / alarumed by his sentinel, the wolf, / whose howl's his watch, thus with his stealthy pace, / with Tarquin's ravishing strides, towards his design / moves like a ghost" ("il rinsecchito Assassinio, / messo in allarme dalla sua sentinella, il lupo, / che lo tiene all'erta ululando, così con passo furtivo, / con le falcate violentatrici di Tarquinio, muove al suo disegno / come uno spettro". Cfr., Atto II, sc. I).
Ma il tema più forte è quello di cui è portatrice la figura tragica della donna violentata - che infatti per due terzi del poemetto argomenta sul senso del proprio destino, e nel dubbio di una sua colpevolezza è indotta a risolvere con il suicidio il dilemma morale che le si presenta. E infatti è questo sprofondamento in un groviglio di drammatiche contraddizioni attorno ai concetti di destino e di colpevolezza (Lucrezia è stata esaminata come figura politica, come eroina o santa, esaltata o discussa per la sua difesa di un principio di coscienza) a fare del testo, con tutta la sua tenebrosa violenza, una specie di prova generale dell'impianto linguistico e immaginativo di molte delle grandi tragedie successive. A parte l'immediata somiglianza con il Titus Andronicus 4. Ciò che ancora si sente mancare è un'indagine del personaggio in direzione mitico-simbolica, e forse religiosa.
Come appare chiaro dalla dedica, che mostra più sicurezza della prima, ormai un contatto con il Conte di Southampton era stato stabilito - per cui deriverebbe da qui, tramite Tito Livio, la suggestione politica, per la transizione da monarchia a repubblica che l'episodio di Lucrezia storicamente implica. Ma è quasi certo che la fonte storica non sia stata diretta, per quanto ne fosse disponibile una traduzione di Painter in Pallace of Pleasure (cit.). (Ma se la fonte diretta non è Tito Livio, poiché di questa si trovano dettagli nell'"Argomento" in prosa che precede il poemetto, allora l'"Argomento" non fu scritto da Shakespeare). Come per Venus and Adonis, la fonte più scoperta è Ovidio. Così evidente che il testo shakesperiano è una sorta di versione, variata e dilatata, ma complessivamente fedele del modello.
Il testo infatti inizia esattamente come l'episodio narrato nei Fasti (Libro II, v. 721, "Cingitur interea Romanis Ardea signis...") e si conclude con la condanna di Tarquinio all'esilio, nel punto in cui Ovidio commenta (v. 852) "dies regnis illa suprema fruit". Ma del problema morale del suicidio di Lucrezia, divenuto centrale rispetto a quello dello stupro, si occupò Sant'Agostino ne La città di Dio (I. I9, etc.) ponendosi un interrogativo per certi versi inatteso: "Quid dicemus? Adultera haec an casta iudicanda est?". Né si può dimenticare che ne trattò anche Geoffrey Chaucer in The Legende of Good Women, a testimonianza di un lungo dibattito sul tema fra il punto di vista della società latina e quello cristiano. Quanto all'episodio del "dipinto abilmente eseguito" che rappresenta la città di Troia poco prima che venga rasa al suolo (vv.1366-1568), a parte i primi libri dell'Eneide non è da escludere che Shakespeare abbia tenuto presente la descrizione che ne fece Marlowe nella sua Dido Queen of Chartage. Dietro Lucrece la critica ha individuato altre fonti di suggestione. Per esempio la raccolta di componimenti poetico-drammatici che sotto il titolo di The Mirror for Magistrates 5 trattava di storie assai simili di coscienze perturbate, travolte dalla crudeltà di un destino individuale, poste di fronte al problema della trasgressione e della punizione. Oppure il poema di Samuel Daniel The Complaint of Rosamond, del 1592, sia per l'uso della cosiddetta "rhyme royal" sia per il tipo di argomentazione retorica che vi viene svolta: al punto, secondo John Roe6, che "certain stanza could be transferred from one to the other without detection" - anche se è probabile che, se c'è stata influenza, si sia manifestata più per una condiscendenza alla forma del "complaint" (da cui eventualmente A Lover's Complaint, ammettendo che sia successivo) che non per imitazione del gusto per una elaborata disgressione manieristica, che non solo era tipico della cultura elisabettiana ma che Shakespeare aveva già dimostrato di usare con straordinaria abilità in Venus.
"The Rape of Lucrece non è solo la più sostenuta imitazione eseguita da Shakespeare, è anche un esempio supremo di copia rinascimentale". Ovidio, che nella sua narrazione si sofferma sull'antefatto che motiva l'accendersi in Tarquinio dell'"indegna passione" ("Ardet, et iniusti stimulis agitatur amoris"), concentra tutto l'episodio in meno di cento versi. Il suo linguaggio è asciutto, diretto, funzionale. Shakespeare, pur concedendo uno spazio relativo al pretesto iniziale di quell'"ingannevole ardore avventato" che induce Tarquinio all'azione, espande il racconto fino a 1855 versi. Si tratta di dedurre dai nuclei d'interesse più estesi le reali intenzioni tematiche dell'autore rispetto al modello seguito, la cui attenzione era alle "sacre cerimonie e le date fissate nei Fasti" (libro II, v.7: "Idem sacra cano signataque tempora Fastis"). Come nel primo poemetto, il racconto (il tema) è sostenuto da due figure in drammatica antitesi, che per forza descrittiva e sottigliezza di indagine psicologica si confrontano e si riflettono suddividendo il testo in due movimenti la cui scrittura è quella dell'inversione, anche per gli effetti emotivi che riverberano sul lettore. Il primo ha per protagonista Tarquinio, ed è compatto, implacabile nel suo sviluppo, determinato allo scopo. Tarquinio è consapevole di giocare tutto il suo prestigio per "un sogno, un soffio, un briciolo di gioia transitoria". Sa che l'impresa a cui si avvia nel buio avrà come ricompensa solo "un disprezzo senza fine". Ma il dibattito interiore fra l'impulso passionale e il dubbio morale che incrocia l'azione non riesce a frenare il ritmo narrativo. In un crescendo che trova una pausa solo nell'unico punto di incontro, se così si può dire, delle due coscienze sconvolte. Tarquinio, che "per la vittoria ottenuta perduto e prigioniero / porta in sé una ferita che nulla può curare", prima di fuggire si aggira attonito nel buio "come un cane furtivo". Lucrezia, che "si giace ansimando come stanco agnello", costretta ancora (e l'immagine ha una forza sconvolgente nel suo doppio senso) "a sostenere il peso di una lussuria spenta", è come se fosse sprofondata dentro di sé: "affonda le sue unghie nella carne", e sentiamo che i suoi pensieri si affollano confusi, ma non trovano voce. Tarquinio esce di scena "cercando la luce del mattino"; Lucrezia, al contrario, "prega di non vedere il giorno". È questo il breve intervallo durante il quale i due protagonisti condividono, per opposte ragioni, uno stesso senso di angoscia7. Il secondo movimento è tutto affidato a Lucrezia, o meglio ai suoi pensieri, in un lungo monologo che non solo per estensione di versi rallenta a dismisura il ritmo narrativo. La cadenza dolorosa del "complaint", con le sue ossessive riproposizioni del tema, invade emotivamente la "rhyme royal" fin quasi a dilatarne la scansione. Qui davvero si vede come Lucrece non sia "un poema drammatico nel senso dinamico - è interessato all'azione del linguaggio, non a un linguaggio d'azione".
È pur vero che nella parte iniziale del poemetto, mentre si annuncia e si compie l'azione di Tarquinio, e mentre Tarquinio procede verso il letto di Lucrezia, non manca né la parola del dibattito interiore dell'assalitore né, poi, un tormentato scambio di battute fra i protagonisti, ma è l'urgenza dell'azione a dominare. La retorica, qui, è controbi-lanciata dalla realtà dei fatti, dall'incombenza dell'atto che ormai sappiamo inevitabile. Ma è dal momento dell'uscita di scena di Tarquinio che l'intenzione del testo sembra avere una svolta decisiva, e per comprenderne il senso è necessario definire meglio quali siano i "nuclei d'interesse" veri di tutta la composizione. Già Tarquinio nel suo dubitoso monologo aveva lasciato libera espressione a una serie di interrogativi (soprattutto sul suo onore di soldato, rispetto alla sua posizione, anche di potere) subito soffocati. Il problema posto da Lucrezia come personaggio letterario, come è stato sottolineato più volte dalla critica, è che mostra un eloquio eccessivo. Ma non è questo il punto, e si può agevolmente presumere che per quanto riguarda l'economia formale del poemetto Shakespeare avrebbe potuto benissimo porvi rimedio. Salvo non si supponga che fosse proprio questa prolungata disanima di tutti gli elementi etici posti in questione da Lucrezia l'aspetto che più premeva a Shakespeare. Il cinema erotico shakespeariano, così rapido, ricco di sottosintesi e di bagliori di lussuria, o di morbidezze nella descrizione della vittima, si rallenta perché il suo scopo diventa un altro. Il debordante monologo di Lucrezia affronta attraverso una serie di pressanti interrogativi, a tratti con una marcata cadenza da Ecclesiaste, un problema etico che non sembra attenere, a un primo sguardo, o non con tale ansia, al pensiero elisabettiano. Certo si parla di virtù, ma in base a un principio di unità dell'Io, e il discorso si articola attorno a una domanda ossessiva - Lucrezia si interroga su una presunzione di colpa a cui non riesce a sottrarsi, ragiona attorno a categorie (più o meno metaforiche) come la Notte e il Tempo, tenta qualche giustificazione con l'Occasione, sospetta in qualche modo di non essere estranea all'accadimento, discute con se stessa le ragioni del suicidio. Il rimando a Sant'Agostino è inevitabile. "Quid dicemus? Adultera haec an casta iudicanda est?" Sant'Agostino (La città di Dio, I, 17) afferma che il suicidio è sempre colpevole. "Perché un individuo che non ha fatto nulla di male dovrebbe farsi del male e uccidendosi uccidere un innocente per non subire un colpevole e compiere su di sé un proprio peccato perché in lui non se ne compia quello di un altro? E poi (I, 18) "Si teme, dicono, che contamini la lussuria dell'altro. Non contamina se è dell'altro, se invece contamina non è dell'altro". Un meccanismo, mi pare, che potrebbe indurre a pensare che il desiderio di possedere è un modo inconscio per alienarsi il desiderio dell'altro, di rendersi disprezzabile per salvare con la violenza un desiderio possibile. (Tarquinio distrugge la propria anima - forse Lucrezia è la sua stessa anima?). Da questa prima osservazione Sant'Agostino passa a trattare la storia di Lucrezia, e non la giustifica. Gli antichi scrittori esaltarono la sua pudicizia. Shakespeare ne accenna come a una santa. Il ragionamento di Agostino (cfr. Appendice) si preoccupa di esaminare il caso da ogni punto di vista. "Se non è impudicizia quella con cui lei riluttante viene violentata, non è giustizia quella con qui lei casta è punita" (19, 2).
Oppure, ammettendo un sospetto di colpa, non escludendo un'involontaria partecipazione ("questo poteva saperlo soltanto lei"), Sant'Agostino si chiede: "travolta anche dalla propria passione, acconsentì al giovane che la prese con la violenza e per punire in sé il fatto si pentì al punto di pensare di espiarlo con la morte? Ma anche in questo caso non doveva uccidersi". In Lucrece, tuttavia, Shakespeare seguendo le ragioni etiche della società romana si attiene al racconto che gli viene dalle fonti, per quanto non possa evitare l'insinuarsi anche di un punto di vista cristiano. Il dibattito morale, secondo John Roe (op. cit.), "sorge dall'enfasi cristiana sulla suprema importanza dell'anima individuale, là dove la cultura classica romana dava maggiore importanza alla famiglia e, in certe circostanze, ammetteva il suicidio". Ma in tutto l'episodio ciò che più si avverte è l'insensatezza della violenza sessuale, l'affronto, il tumultuoso sconvolgimento emotivo, il disperato dolore della vittima, la conseguente tragica decisione di togliersi la vita. La prima parte di Lucrece è "dramma" anche per l'interazione dei caratteri, che è una sorta di scontro teatrale; la seconda parte, compreso l'inserimento dell'episodio del dipinto, è soprattutto "complaint", meditazione. L'atto finale diventa ancora più fulmineo, essendo esasperata l'attesa, proprio perché così lungamente ragionato. D'altra parte, "Shakespeare non era tanto interessato a discutere nel poemetto un caso particolare quanto ad esplorare gli stati mentali dai quali l'argomentazione sprigiona"8.
Ciò che è interessante è che in questa sua esplorazione di stati mentali Shakespeare sembra innestare sul soggetto, per corrispondenza visiva, anche una serie di osservazioni sul principio rappresentativo-didattico dell'arte assai diffuso nell'estetica cinquecentesca. E poiché oggettivamente ne farà uso più volte, sia pure in modo indiretto, non doveva essergli indifferente la teoria di un'ipotetica convergenza di effetti fra poesia e pittura: entrambe "studiose imitatrici" capaci di insegnare con l'esempio piuttosto che con i precetti. Che Shakespeare avesse scelto il soggetto di Lucrece per "insegnare con l'esempio" è quasi certo. E delle ipotesi di un suo scopo, politico o morale, è stato detto a lungo. Nulla prova, invece, che l'inserimento dell'episodio relativo all'opera pittorica (un telero? un arazzo?) che descrive un momento della guerra di Troia fosse studiato consapevolmente a sottolineare questa convergenza. Ma sul valore dell'imitazione, o meglio dei meccanismi del paragone attraverso la pittura (e non si riteneva che la poesia fosse "pittura loquace" e la pittura "poesia mutola"?) Shakespeare tornò per esempio nella prima scena del Timone di Atene. Di fronte al quadro che il Pittore gli mostra, il Poeta esclama: "Quale grazia emana da questo portamento, e quale potenza d'intelletto rifulge nello sguardo! E come turge l'immaginativa in quelle labbra! Il gesto è muto, ma per merito vostro si può bene interpretarlo". "Una riuscita imitazione dal vero", risponde il Pittore. E allora il Poeta, commentando questa "lezione", conclude che "Lo sforzo dell'arte vive in questi segni con più vigore della vita stessa". Il sospetto che in questo passo vi sia un accenno di parodia non è da scartare. Nel poemetto Shakespeare parla di "dipinto abilmente eseguito", di "accuratezza", "arte fisionomica", ecc. in una direzione naturalistica; ma anche, e soprattutto, di un'arte che a scorno della natura dona "vita apparente", di "eccezionale illusione", di "misero strumento, privato di suono"; fino all'accusa, da parte di Lucrezia, nei confronti di "quella straordinaria abilità" che le mostra la figura di Sinone "ingannevole", perché "figura così bella non può tenere una mente malvagia". Se una delle ragioni dell'excursus è quella di dimostrare la falsità delle apparenze (Tarquinio non è ciò che appare all'inizio a Lucrezia per esempio), ovvero l'ingannevolezza di un'arte mimetica che ricorda la natura ma non ne rappresenta la verità, allora il suggerimento è che le immagini, ambigue, parlano sempre con il concorso di un'interpretazione soggettiva, ma dicono il vero solo nel caso che vi sia una chiara identificazione tanto formale quanto, e soprattutto , emotiva. Funziona con Ecuba, ma non con Ulisse, non con Sinone. La pittura, qui, è "una calunnia". Per quanto si supponga che certe raffinate teorizzazioni "continentali" sulle arti visive dovevano essere poco note (a parte quelle contenute nel Cortegiano, tradotto in inglese nel 1561), e in caso contrario, comunque, poco comprensibili, non sarà inutile ricordare il Trattato del 1584 di Giovanni Paolo Lomazzo, dove si sostiene che pittura e poesia "con immenso stupore, mercè di singolar artificio, ci rapiscono e ci trasformano negli stessi moti ed affetti". Qui l'impressione è che Shakespeare voglia rivendicare una maggiore autorità della parola nell'indagare e mostrare senza inganni la verità dei "moti et affetti" più segreti dell'animo.
È noto che le fonti di questa disgressione che mette in evidenza l'illusorietà della pittura sono fatte risalire a Ovidio, alla descrizione dell'arazzo tessuto da Aracne nel VI° libro delle Metamorfosi. (Anche Lucrezia subisce una metamorfosi). Ma è nel Libro I° dell'Eneide che Enea vede, in una "vana pittura", le immagini della guerra di Troia. Né può essere un caso che nel riconoscere Venere, poco prima di imbattersi nel dipinto, Enea si lamenti riproponendo il problema delle "ingannevoli immagini": "perché non posso congiungere / la mano alla mano, e udire e rispondere vere parole?" (cfr. vv. 408-9, "cur dextrae iungere dextram / non datur ac veras audire et reddere voces?"). Un rimando, quello a Virgilio, ricchissimo di suggestioni, forse più insinuante di quello a Ovidio, e di cui Shakespeare si ricorderà a lungo. E infatti è su alcuni riferimenti precisi ai primi libri dell'Eneide che costruirà per lo meno una traccia di The Tempest. Né si può escludere che l'episodio potrebbe essergli stato suggerito (per Lucrece) dall'inizio dell'Atto II della Didone di Marlowe9, dove non è molto chiaro che cosa Enea stia guardando: probabilmente una statua per il riferimento alla pietra, ma anche, forse, un bassorilievo se si pensa alla battuta "Quella non è Cartagine", ecc.
Dunque a questo punto del poemetto l'ekphrasis è un artificio per riportare alla mente attraverso gli occhi le ragioni più intime della coscienza turbata, per discuterle e chiarirle, e Shakespeare se ne serve appunto per costruire un luogo e un evento paralleli, psicologicamente, alla condizione di Lucrezia. Ciò rafforza nel paragone l'identità del personaggio, e nello stesso tempo rende consapevole il lettore della violazione non più soltanto individuale, di un affronto che assume valore d'esempio universale. L'opsis formulata in questo episodio contiene a sua volta un significato allegorico: "Troia era interpretata tradizionalmente come un'allegoria del corpo" (cfr. Lever, op. cit.). E si potrà, rovesciando i termini, sostenere che il corpo di Lucrezia sta a rappresentare la polis, giustificando almeno in parte la lettura politica del poemetto. Ma a me pare che non siano sufficienti, a questo, le numerose metafore militari usate per descrivere l'aggressione subita, né alcuni degli interrogativi che Lucrezia si pone - come, per esempio, se possa "una colpa privata essere una rovina collettiva", o "la lussuria di un uomo distruggere molte vite". Siamo ancora, credo, in un ambito di indagine psicologica rafforzata "visivamente" dal barocchismo linguistico. Alla tensione d'attesa costruita sul desiderio sessuale, fino allo stupro, non ha molto senso che si faccia corrispondere una "risoluzione" politica. O per lo meno la si direbbe una motivazione fragile, comunque marginale, ricavata a forza. La stessa tonalità notturna, angosciosa, soffocante, che Shakespeare conferisce all'assedio posto al corpo femminile, e alla brutale violenza compiuta su di esso, e alla disperata conclusione, serve ad accentuare visivamente un disagio psicologico a cui nemmeno Tarquinio si sottrae, serve a creare un contesto di "oscurità" adeguato ai contrastanti e complessi caratteri dei protagonisti, che si delinea attraverso l'analisi.
C'è caso mai un'estensione del significato delle azioni e reazioni delle figure individuali verso una più generale denuncia, della virtù brutalmente profanata, e infatti ragionevolmente non sono mancate letture critiche di impostazione femminista. Ma nel complesso, insieme al senso di pietà, l'accento resta sul contrasto tra desiderio sessuale e disgusto, attrazione e orrore, evidenza della fisicità e rivelazione di una condizione spirituale lacerata. La Venere messa a nudo del primo poemetto trova in Lucrezia una controparte: al corpo desiderante della dea che nel cercare la bellezza di Adone resta prigioniera della propria sessualità (e anche la concupiscenza di Tarquinio si risolve nella propria solitudine) si sostituisce una "persona" di cui viene messa a nudo l'oggettività del corpo, l'atroce sospetto di una passività connivente, e questo è insostenibile. Perché nella forzata separazione è l'intimità, la soggettività della donna a subire infine l'affronto più grave, giustificando la cancellazione di questo disvelamento con il suicidio. Lucrece si presenta come la messa in scena di una vera e propria psicomachia. Un'indagine dell'io diviso che Shakespeare nei sonetti non risparmierà nemmeno a se stesso. E il sonetto 129 ne resta il cardine.
 
 
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