Maria Cristina Paganoni

 

IL ROMANZO DI FIELDING

FRA FUNZIONE ESTETICA E STORIOGRAFIA

L'ESPERIMENTO DI AMELIA

 
 
Fra gli scrittori inglesi del Settecento Fielding si distingue per la singolare coincidenza nella sua figura del ruolo di romanziere e, al contempo, di teorico in nuce di quel genere esordiente e pertanto ancora imperfettamente codificato che è il romanzo realistico1. Nella sua fiction prassi narrativa e riflessione critica procedono affiancate, traducendosi in una scrittura che da una parte si compiace di ricorrere a tutti gli stratagemmi dell'intreccio ereditati dalla tradizione classica del romance 2 e dalla drammaturgia, dall'altra non disdegna di interrompere l'azione per lasciare spazio a commenti metanarrativi tanto originali quanto anticipatori di quell'interesse per la costruzione della testualità che è proprio dei moderni metodi critici. Attraverso questa oscillazione del ritmo fra dinamismo e stasi, Fielding traccia così all'interno del testo, soprattutto in Tom Jones, un'anatomia del romanzo che ne considera i temi, gli aspetti formali, la ricezione critica sino a prendere in considerazione il profilo stesso dell'autore.
Alla domanda "Chi è il romanziere?", Fielding risponde in vari modi che, dal tono faceto a quello serio, utilizzano un lessico critico ed immagini pervase da quell'apertura comica che, secondo la sua definizione, è propria della scrittura realistica. Commentando in Joseph Andrews la divisione di un'opera in libri e capitoli, Fielding osserva che si tratta di una pratica opportuna per rendere più agevole la lettura, come quando si scandisce un viaggio in varie tappe, o come fa il macellaio quando disossa e seziona la carne (II, i). In Tom Jones (I, i) paragona il ruolo dello scrittore al compito di un taverniere che, poiché riceve denaro per i suoi servigi, è tenuto a gratificare il palato dei suoi lettori, ma più avanti (II, i) dichiara solennemente di essere "the founder of a new province of writing" e quindi di poter legiferare a riguardo del romanzo in piena autonomia. Storico e al contempo moralista è infine il narratore di Amelia, la cui vicenda esemplare per il suo contenuto edificante è atta a fungere da modello di vita3.
Di fatto, sebbene incorporeo, il narratore/commentatore è il personaggio principale dei romanzi iperstrutturati di Fielding, in particolare Tom Jones. Per questo il suo ultimo romanzo, Amelia (1751), che pure egli definì la sua creatura preferita4, ma dove la presenza del narratore svolge un ruolo molto più discreto, è stato giudicato da critici e comuni lettori come un'opera qualitativamente differente dal punto di vista tematico e formale5. Non solo non vi si ritrovano con la medesima frequenza le digressioni autoriali degli altri romanzi, ma tutta la storia è narrata diversamente, a partire dall'ambientazione più realistica in un mondo swiftianamente crudele sino agli stessi personaggi che si impossessano di una narrazione sussultoriamente inframmezzata da altri racconti. Apparso quando i tratti caratterizzanti del nuovo genere del romanzo si sono ormai consolidati, anche Amelia è, a suo modo, un testo sperimentale, dove la funzione estetica della narrativa esplora possibilità diverse da quelle che lo scrittore ha precedentemente affrontato, rappresentando un interessante sviluppo del rapporto nella mimesi fra storia e finzione.
Riproposta in testi successivi e in modo insistente nell'ambito di una sistematizzazione poetica di carattere più generale, l'equiparazione della narrativa alla scrittura storiografica costituisce per Fielding un aspetto centrale della formalizzazione romanzesca e del duplice compito dello scrittore come intellettuale e moralista. Il frontespizio di Joseph Andrews (1742), di Jonathan Wild (1743) e di Tom Jones (1749) reca la definizione di "history" o di "life", e sia in questi testi sia in Amelia il termine compare di frequente a marcare il sommario di apertura. È in veste di storico che il narratore proclama di attenersi a criteri storiografici quali la fedeltà ai fatti e l'oggettività espositiva, aggiungendo di voler rispettare la dignità di un genere così illustre con l'esclusione di episodi banali. Inoltre, (Tom Jones, IX, i) quel particolarissimo tipo di storico che è il romanziere necessita di talento ("genius"), invenzione e senso critico ("invention and judgment"), erudizione ("learning"), conoscenza diretta della vita ("conversation"), buon cuore ("good heart") e sentimento ("feeling"). Fra i vari tipi di storico il biografo, cioè colui che scrive la vita di un grande uomo e che sa ricostruirne convincentemente la personalità, è diverso dallo storico di una nazione o di una città, attendibile certo per quanto concerne i dati forniti, ma inaffidabile quando si tratta delle azioni e del carattere degli uomini, dove egli incorre in "those eternal contradictions"6,
 
[…] where facts being set forth in a different light, every reader believes as he pleases, and indeed the more judicious and suspicious very justly esteem the whole as no other than a romance, in which the writer hath indulged a happy and fertile invention7.
 
Biografo per eccellenza, nel significato assai peculiare che Fielding attribuisce a tale termine, è Cervantes, un romanziere che egli riconosce come maestro, definendo il Don Chisciotte "the history of the world in general"8.
È peraltro un espediente comune agli scrittori del Settecento chiamare il romanzo una "history" invece che una "story", e sostenere che quanto rappresentato è vero, cioè realmente accaduto, e reperibile in documenti autentici quali memorie, autobiografie, lettere. In primo luogo, ciò dimostra come il romanzo, per il suo carattere agglutinante, incorpori i discorsi della sua contemporaneità e doti di nuove funzioni e significati codici culturali eterogenei. L'insistenza sul ruolo del romanziere come storico appartiene dunque alla tendenza tipica del genere ad assimilare le tecniche di indagine e di rappresentazione proprie della sua episteme in un'incessante dialettica con la modernità dove si aprono nuovi percorsi tematici e retorici: se nel Settecento il romanziere si definisce storico, ma anche pittore (si pensi all'ammirazione di Fielding per Hogarth9 e all'accostamento della scrittura alle arti figurative), nell'Ottocento sarà soprattutto uno scienziato, nel Novecento un fotografo o un regista, ed infine - alle soglie del terzo millennio - un tecnico informatico che produce un ipertesto interattivo sulla rete telematica.
In secondo luogo, l'insistenza sulla veridicità del narrato tradisce l'insicurezza dei romanzieri stessi nei confronti di un genere "in progress", incompiutamente codificato rispetto ai paradigmi sistematizzanti della poetica neoclassica. Infatti il modello storiografico, che pure fornisce agli scrittori un punto di appoggio autorevole, diventa ben presto per Fielding, alla stregua del suo reiterato riferimento all'epica10, il paravento illustre dietro il quale si proclama la libertà dello scrittore e del romanzo rispetto all'intento storiografico, che ha pur sempre il compito della ricognizione documentaria e dell'interpretazione del passato. La referenzialità del romanzo è rispettata non tanto nella riproduzione pedissequa del dato reale, che peraltro mantiene in Fielding un sapore più tipico che individuale, ma nella credibilità con cui il fattore umano è indagato e che è resa possibile dalla scelta del registro comico. A differenza del burlesco che mischia l'infimo e il sommo, il comico permette di allargare l'indagine a tutti gli strati sociali, senza insistere esclusivamente su una rappresentazione limitata o deformante, e pertanto aderisce alla natura, cioè ne rispetta la verità11. L'ideologia dell'autore appare animata da una fiducia di derivazione illuministica, cioè sostenuta da basi razionali, nei confronti degli esseri umani e mostra al contempo tratti palesemente conservatori, di matrice aristocratica più che borghese, nella sua riconferma dell'esistente assetto sociale, in quanto questo poggerebbe sui tratti immutabili della verità della "human nature", rintracciabili nel "vast authentic book of nature" (Tom Jones, IX, i). Il romanzo è mimetico, dunque, non tanto per quella fedeltà ai fatti che è propria della ricerca storica, ma perché rappresenta e rispecchia con completezza i vari aspetti della natura umana che, nell'essenzialismo del pensiero illuministico, hanno un significato universale.
La narrativa realistica e la storiografia presentano peraltro varie somiglianze che derivano dall'oggetto di studio - la realtà diacronicamente percepita -, da analoghi metodi di indagine e rappresentazione e dalla comune organizzazione discorsiva12. Come la scrittura realistica (e come la pratica del diritto che Fielding esercitò di professione), il resoconto storico si fonda su procedimenti selettivi e rappresentativi che, attraverso il vaglio dei dati, devono giungere ad una ricostruzione convincente della realtà13. In entrambe è essenziale l'invenzione, perché il passato non può essere riportato alla luce senza attivare una serie di processi creativi: anche la più imponente mole di dati oggettivi rimane muta se non viene analizzata dalla ragione e vivificata dall'immaginazione. Infine, linguistica e filosofia hanno ampiamente mostrato che nessun progetto narrativo, storico o letterario che sia, può dirsi ideologicamente neutro. Anche il racconto storico è un artefatto retorico a fini persuasivi e il prodotto di una specifica sensibilità, cultura e contesto intellettuale. Benché la sintesi storica possa essere intellettualmente valida e eticamente onesta quando, accanto ad una ricerca rigorosa, l'ideologia e le premesse metodologiche dell'autore sono coscientemente esplicitate al lettore, si tratta pur tuttavia di parametri definibili empiricamente che non fanno altro che ribadire "la manifesta relatività, per non dire soggettività, del giudizio storico"14.
Il relativismo storiografico matura peraltro già nell'ambito filosofico dell'età dei lumi, in concomitanza con la crescente autonomia disciplinare dei saperi umanistici ed il loro porsi come "scienze" costruite a partire dall'esperienza. Con Hume la riflessione sul metodo induttivo che è proprio dell'empirismo giunge a mostrare la natura convenzionale delle costruzioni logiche quando queste abbandonano la concretezza, validante, delle percezioni15. Emblematica, a riguardo, è la sua revisione in chiave scettica di uno dei concetti portanti del pensiero politico del secolo, il contratto sociale, descritto da Locke nei Two Treatises of Government (1690), che illustra i meccanismi rappresentativi con cui il potere è affidato dai sudditi al monarca. Hume osserva infatti che la prassi del contratto non può che rimandare ad infinitum a se stessa: si onora un contratto perché legittimato da un precedente procedimento contrattuale e così via, sino a giungere ad un "contratto originale" che però non appartiene più alla storia, ma al mito16. Anche le regole sociali sono pertanto il frutto di consuetudini che si reggono non tanto sulla loro intrinseca razionalità, ma in base a ciò che già Hobbes aveva indicato come la legge della forza, sebbene il pensiero di Hume non sfrutti la portata rivoluzionaria della sua lettura delle istituzioni, ma anzi individui nella storia, pur con le sue contraddizioni, un moto verso il progresso.
Con la critica della presunta oggettività dell'indagine storica che, nella sua ricerca delle origini e nel recupero delle fonti, rischia l'incremento esponenziale di errori e pregiudizi, Hume giunge a ribadire la superiorità del verosimile sul vero, affermazione che già si ritrova in Aristotele e che il neoclassicismo fa propria con l'adesione alle auctoritates. Tuttavia, ciò che nella Poetica è l'esito di una riflessione normativa sulle arti, in Hume procede dalla consapevolezza dell'inaffidabilità epistemologica di indagini che si allontanino dall'ambito delle percezioni, sulle quali si fondano i processi conoscitivi. Se dunque "la raccolta e il vaglio di materiale archeologicamente documentario" è "passibile di interpretazioni che all'oggettività si possono avvicinare solo per difetto", la narrativa, dove "il discorso si presenta più strettamente incardinato su rapporti causali"17, si rivela superiore alla storiografia, poiché secondo il filosofo scozzese la capacità di istituire relazioni di causa ed effetto è una delle facoltà più alte dell'intelletto umano. Poiché, pur nel rispetto dei canoni della verosimiglianza, la finzione non ha il vincolo della fedeltà a quanto è effettivamente accaduto, il romanzo realistico "costruisce" personaggi, luoghi, eventi, laddove la storiografia li "ricostruisce", rivendica per sé non tanto la verità storica, circoscritta da dati e fonti, quanto quella ontologica, cioè dell'essere nel tempo, e ripropone alla memoria collettiva non la sintesi documentata del passato che è della scrittura storica, ma la totalità del presente emblematizzata dal dato parziale, secondo la prospettiva metonimica delle note riflessioni di Jakobson18.
L'episteme settecentesca, che da una parte è razionalmente radicata nell'empiria, dall'altra ne comincia ad avvertire il carattere sfuggente e ambiguo, legato agli aspetti ignoti della coscienza e alla soggettività delle percezioni. In tale clima culturale, che accosta scetticismo e provvidenzialismo, Fielding, che è un intellettuale imbevuto di umanesimo cristiano, non può che opporsi ai "free thinkers" ed in particolare a Hume, benché la sua posizione, soprattutto in Amelia, sia decisamente ambivalente19. Nel suo pensiero, del resto, il rapporto fra narrativa d'invenzione e storiografia è soggetto a successive modifiche che, alla fine della sua vita, culminano nell'elogio della storiografia contemporanea che si può leggere nella prefazione al Voyage to Lisbon (1755). In questa breve opera postuma, dopo aver definito il romance "the confounder and corrupter" of "true history", Fielding aggiunge:
 
[…] and, for my part I must confess I should have honoured and loved Homer more had he written a true history of his own times in humble prose than those noble poems that have so justly collected the praise of all ages; for though I read these with more admiration and astonishment, I still read Herodotus, Thucydides and Xenophon, with more amusement and more satisfaction20.
 
Ai fini di questo saggio sono soprattutto tre gli aspetti del rapporto fra fiction e storiografia, estetica e referenzialità, che meritano di essere presi in considerazione: i motivi dell'apprezzamento della storia "of his own times" da parte di Fielding, l'utilizzo del modello storiografico in narrativa e infine la valenza intellettuale ed etica di tale modello, il cui tracollo è evidente in Amelia.
La ragione per cui Fielding dichiara la sua preferenza per gli autori di alcune celebri "storie dei propri tempi"21 è riconducibile alla convinzione che la partecipazione diretta agli eventi dell'"histor", vero e proprio testimone oculare, rappresenti una garanzia di maggiore obiettività. D'altro canto, secondo Fielding, il resoconto storico contemporaneo non deve scadere in una versione tendenziosa, poiché immergersi nel presente comporta il rischio di farsi distrarre da prospettive plurime o, peggio ancora, di narrare storie palesemente partigiane22. La preferenza accordata alla storia contemporanea conferma allora da parte di Fielding l'adesione all'estetica del realismo, che appunto si propone di storicizzare la modernità23, facendone l'oggetto della sua rappresentazione.
Sul versante della narrativa il modello storiografico è particolarmente importante nella costruzione fieldinghiana di una poetica del romanzo, innanzi tutto perché gli permette di affrontare il rapporto fra tradizione e innovazione. Il calarsi nei panni dello storico serve a Fielding per nobilitare la propria poetica attraverso le convenzioni di una disciplina illustre e, a livello di autorappresentazione e di percezione da parte dei lettori, segnala la duttilità culturale dell'autore, che è in realtà ben consapevole delle caratteristiche innovative del novel e compiaciuto della sua libertà formale24.
È per questa scelta che non ritroviamo nella sua opera la stessa insistenza sulla totale storicità del narrato che è invece caratteristica sia di Defoe sia di Richardson. Fielding non può né vuole immergersi come Defoe nei suoi personaggi ma ama, invece, sottolineare il suo ruolo di creatore onnisciente e plenipotenziario della propria opera, vanificando con il principio del commento e dell'intrusione l'illusione narrativa che troviamo in Defoe e l'identificazione emotiva con i personaggi che è di Richardson25. Ogni narrazione, tuttavia, per quanto si proponga come oggettiva pone sempre un filtro fra sé e il mondo, costruendo, anche nelle sue forme più mimetiche, non tanto la realtà quanto simulacri ad essa isomorfi. Semmai, ciò che distingue le "invenzioni fattuali"26 di Defoe e Richardson da quelle escogitate da Fielding è la deliberata enfatizzazione dell'intreccio che, nell'opera di quest'ultimo, appare in tutta la sua natura di artefatto complesso, teso da una parte a ridimensionare gli effetti di realtà della scrittura mostrandone il carattere fittizio, dall'altra ad inserire il personaggio in un sistema simbolico controllato dall'ideologia dell'autore27. Ciò è segnalato sin dall'esordio nell'elaborata tassonomia degli indici.
In base a tale poetica Fielding conferisce al narratore il potere di commentare autorevolmente trama e personaggi, costruendo un'entità testuale che si fa portavoce di un punto di vista affidabile, superiore alle vicende della fabula e benevolmente ironico. In questa studiata distanza ritroviamo non solo il retaggio aristocratico di Fielding e la consapevolezza della sua superiorità intellettuale nei confronti di un nuovo pubblico di lettori sempre più esteso e pertanto meno elitario28, ma anche la celebrazione di quel controllo stilistico, spinto talvolta sino al compiacimento di maniera, che è fra gli assunti della poetica neoclassica. Ciò mostra come Fielding "abbandoni l'idea del testo come prodotto del personaggio e collochi la responsabilità del personaggio nelle mani del narratore, risolvendo in maniera più elastica i problemi dell'intreccio, ma introducendo l'idea del narratore come aristocratico o come Dio che governa la società da lui creata"29. Il moltiplicarsi delle identità del narratore risponde infatti alla funzione di non nasconderne, ma anzi di enfatizzarne la presenza, suggerendo che, dietro le sue molte maschere, egli rappresenta un'entità non plurima bensì unica, che quindi può proporsi come interprete autorevole del testo.
Nel romanzo di Fielding il rimando alla storiografia è essenzialmente parodico, poiché pone l'enfasi più sulla rielaborazione dei materiali del passato in modo innovativo e strumentale alla sua nuova poetica che sull'adeguamento ad una tradizione plurisecolare30. A livello di retorica del testo, i criteri storiografici divengono l'oggetto di un'originale manipolazione artistica che, con autentico spirito detronizzante, declina il lessico storiografico in chiave "mock-historical", secondo quel talento che già lo scrittore aveva esemplarmente esplicitato in Shamela (1741), la versione parodica della Pamela di Richardson, da lui ritenuto un testo stucchevole e ipocrita. Nella complicata architettura del testo, evidenziata dai titoli dei vari capitoli, anche la storia da raccontare diviene una specie di personaggio dal comportamento spesso imprevedibile, il che ne giustifica l'irregolare scansione temporale, le sospensioni, i colpi di scena, le evidenti implausibilità31, il tutto in un complesso gioco di relativizzazione delle qualità mimetiche della scrittura32.
Pur nei suoi evidenti aspetti antimimetici33, la scrittura fieldinghiana si riconosce comunque, alla stregua della storiografia, la capacità di interpretare la fenomenologia dell'esistenza alla luce di quelle verità che la razionalità illuminista pone sotto la categoria dell'universale. L'oggettività del romanziere, che nel vocabolario dell'Illuminismo si traduce nell'ideale di fedeltà alla natura umana, è raggiunta non tanto attraverso la disanima di dati e di fonti, ma attraverso processi creativi che, coinvolgendo l'intelligenza, l'immaginazione e la sensibilità, riescono a comunicare dell'esperienza umana le caratteristiche generali, tanto più vere quanto più condivise ( Joseph Andrews, III, i: "I describe not men, but manners; not an individual, but a species"). Alla diacronia storica la tensione etica sovrappone i contorni fissi di una riflessione sincronica, atemporale, sulla natura umana che in Amelia viene definita "adherence to universal truth"34. Il romanziere, la cui fonte è il libro della natura, diventa uno storico dell'umanità, capace di radicare la contingenza nell'atemporalità di una spiegazione universale, secondo un progetto di rassicurante razionalità che sa rintracciare il disegno del cosmo sotto la superficie caotica. È proprio questa sintesi razionalizzante, caratteristica di Fielding, che un secolo dopo appare impossibile a quei "belated historians" che, secondo le parole di George Eliot in Middlemarch (1871-72)35, sono i romanzieri vittoriani.
La crisi nella fiducia in un disegno ordinato della realtà, che è il grande motivo del romanzo dell'Ottocento, è anticipata a livello tematico e strutturale in quel testo anomalo che è Amelia. Infatti, a differenza dei precedenti romanzi di Fielding che, con trame molto elaborate e conclusioni volutamente positive, celebrano il trionfo dell'artificio autoriale sulla confusione dell'esistenza, ottimisticamente rappresentata come un insieme complesso ma riconducibile all'armonia, Amelia presenta una trama meno compatta, dai toni cupi e pessimistici ed intervallata da episodi imbevuti di un sentimentalismo in cui vari critici riconoscono l'influsso su Fielding della Clarissa (1747-48) di Richardson. Nemmeno il convenzionale lieto fine, che pare più che mai il prodotto di un "wishful thinking" dai tratti certo depressi se non disperati36, è sufficiente a correggere le note cupe di una rappresentazione modulata in chiave insistentemente negativa37 dove, soprattutto nella descrizione dell'umanità diseredata del carcere, si raggiungono i tocchi iperrealistici di gusto swiftiano che si ritrovano, ad esempio, nella presentazione della ributtante e lasciva "blear-eyed Moll" (I, iii).
Il contrasto fra l'universo di Amelia e quello di Joseph Andrews e Tom Jones è fin troppo evidente. Lì la fedeltà mimetica è controllata dall'uso virtuosistico di intrecci molto elaborati che ricorrono ai più noti espedienti romanzeschi dove l'artificio narrativo prevale felicemente sulla verosimiglianza. I personaggi, tipizzati e spesso dal nome emblematico che ne illustra la personalità (si pensi a Booby, Thwackum, Square, Allworthy…), vengono così coinvolti in peripezie rocambolesche con tanto di equivoci sulla loro identità e doverose agnizioni, pur mantenendo, fra le contorsioni della vicenda, una rassicurante stabilità secondo il principio essenzialista della "conservation of character" che Fielding aveva già indagato nel saggio "An Essay on the Knowledge of the Characters of Men" (1743). Sono queste trame e caratterizzazioni di derivazione classica, da Fielding messe a punto nella sua esperienza di scrittore di teatro, che strutturano epopee comiche raffiguranti un sistema entropico solo in superficie, ma in realtà radicato in salde convinzioni morali che diventano convenzioni estetiche, facendo sì che il bene sia premiato, l'individuo buono nobilitato e unito in matrimonio alla donna adatta, il cattivo allontanato, ossia che sia fatta giustizia poetica. Peraltro, anche in Amelia, dove la protagonista Emily assume l'eponimo meno prosaico di Amelia, ritroviamo una serie di astrusi espedienti romanzeschi, primo fra tutti l'improbabile ingresso dell'innamorato Booth nella casa di Mrs Harris, la madre dell'eroina, in una cesta per il vino (II, v)38, ma l'allentarsi dell'intreccio segnala quanto rappresentazione e invenzione siano sempre più irriconciliabili.
Il romanzo del Settecento si sviluppa lungo trame che, se da una parte sono profondamente realistiche per l'attenta ricostruzione contestuale, dall'altra creano, nell'articolazione originale della vicenda, discorsi capaci di trasformare il contesto stesso, in quanto si pongono come alternativi, o comunque problematici, rispetto agli assunti ideologici dominanti39. La trama è quindi una struttura intrinsecamente bipolare ove verità mimetica e desiderio, conformismo e trasgressione, si congiungono con funzioni diverse. Se la mimesi ha infatti il compito di costruire una rappresentazione credibile del mondo, il desiderio traccia su tale simulacro di realtà i percorsi dettati dall'impulso creativo e così contribuisce al rimodellamento della realtà stessa nella sfera dell'immaginario. Strumento di questa risignificazione del mondo è per l'appunto la trama, intesa come "dinamica del desiderio"40, che a sua volta è manifestazione dell'energia creativa dell'autore e in quanto tale soggetta a tutte le fluttuazioni della sua psicologia, sensibilità e coscienza storica. Seguendo questa interpretazione, possiamo dire che mentre in Joseph Andrews e Tom Jones la dinamica del desiderio espressa attraverso l'intreccio è gratificata, anche se evidentemente a costo di alcune forzature della mimesi che viene gioiosamente piegata alle esigenze favolistiche dell'archetipo romanzesco, in Amelia la dimensione del desiderio è frustrata dall'impatto con la brutale concretezza del reale. Ciò che si vorrebbe che accadesse è infatti minato dalla dolorosa presa di coscienza che gli eventi non solo deludono le aspettative dei personaggi positivi, ma sono crudelmente discordanti con i loro meriti. In altre parole, anche se con riluttanza, la finzione narrativa pare costretta a scendere a patti con la potenza pragmatica dei desideri degli altri, per quanto questi possano essere disonorevoli o perversi.
L'ambivalenza del testo è espressa al meglio nella figura di Amelia, la protagonista del romanzo, modellata su Clarissa, l'esemplare eroina di Richardson che Fielding profondamente ammirava, e come lei straordinariamente buona, paziente e magnanima. Nonostante la sua eccellenza morale - o forse proprio per ciò - Amelia, "the best and dearest of women"41, è perennemente vittima dell'accanimento di coloro che le stanno intorno, a partire dallo scapestrato marito Billy. Nel turbinio di eventi disastrosi che mettono a repentaglio la felicità della famiglia Booth, la sua principale dote pare essere l'incapacità di cambiare, secondo una caratterizzazione testardamente antirealistica che la vuole sempre fedele, affettuosa e comprensiva, benché sia immersa in un mondo corrotto e circondata da plotters 42. Se per l'eccessiva docilità e mitezza Amelia, più che una personalità convincente, è soprattutto una versione settecentesca del mito maschile della donna-angelo43, a cui il testo non osa negare quella felicità conclusiva che ovviamente si merita, tuttavia per il lettore è sconcertante constatare come le sue straordinarie qualità siano fondamentalmente ininfluenti in un mondo, privato e pubblico, che si presenta come irrimediabilmente compromesso e perduto.
Credibilmente i biografi di Fielding imputano tale mutata coscienza al coinvolgimento generoso nell'attività legale e all'immersione nel mondo squallido della delinquenza degli ultimi anni della sua vita44, benché le ragioni della diversa atmosfera di Amelia siano innanzi tutto culturali e filosofiche e si riallaccino alla complessità epistemica della seconda metà del Settecento. Considerato in tale ambito, non può sfuggire come anche questo testo comunichi il processo di sgretolamento irreversibile dei valori augustei e della poetica neoclassica, che aumenterà via via nei decenni successivi e di cui, certo, il sentimentalismo è un indicatore autorevole. Non si tratta solo della consapevolezza teorica che scrittura e vita sono radicalmente diverse, consapevolezza emblema-tizzata in modo insuperabile da Sterne in Tristram Shandy (1760-67), ma del declino di un intero modello culturale, fondato fra l'altro su idee di misura, buon senso, socialità rispettosa45. Sono proprio questi ideali che in Amelia si presentano come irrimediabilmente tramontati, a livello personale nella degenerazione di tutti i contesti relazionali - di amore, amicizia, parentela, professione, mecenatismo -, a livello pubblico nella corruzione delle istituzioni, dalla giustizia all'esercito.
Nell'organizzazione discorsiva ciò è espresso attraverso l'indebolimento evidente di quel modello storiografico e delle sue strategie retoriche che ben si prestavano a segnalare il potere di controllo del narratore sul mondo del romanzo e, per analogia, di Dio sull'universo. Poiché a livello profondo l'ideologia di Fielding è mutata, anche la superficie del testo manifesta una diversa composizione, pur conservando alcuni degli espedienti retorici tipici dello scrittore. Per la comprensione di che cosa sia operativamente il romanzo, ad esempio, il lessico critico è quello già utilizzato nei precedenti romanzi, così che anche Amelia è chiamata una "history" e il narratore si autodefinisce uno storico:
 
[…] it is our business to discharge the part of a faithful historian, and to describe human nature as it is, not as we would wish it to be46.
 
Oltre che la "history" di uno storico fedele alla natura umana, Amelia è pure un racconto articolato in dodici libri, così come dodici sono i libri dell'Eneide, secondo quel formato epico che Fielding adotta come riferimento intertestuale nella sua costruzione del romanzo e che in quest'opera, incline ai toni patetici e sentimentaleggianti, si avvale non a caso delle note più intimistiche del modello virgiliano rispetto ai testi omerici47. Ciò che invece non ritroviamo in Amelia è il narratore onnisciente e testualmente onnipotente, dal timbro giocoso dell'aristocratico benevolmente convinto della propria superiorità culturale e morale nei confronti del pubblico dei lettori, che rappresentava la peculiarità fieldinghiana del Tom Jones.
Lo storico/narratore di Amelia, infatti, non solo si esprime con toni più pessimistici e sarcastici, ma pare abdicare a gran parte del suo potere di controllo, principalmente in due modi. Intanto rinuncia a quelle digressioni metanarrative che negli altri romanzi si ritrovano frequentemente in posizione prevedibile e che trattano di vari aspetti dell'arte della scrittura48. Per quanto concerne, invece, la gestione della vicenda, pur continuando ad intervenire in prima persona con commenti di vario genere, che spaziano dall'interpretazione del comportamento dei personaggi ai motivi dell'esclusione di episodi ritenuti irrilevanti, egli stenta ad integrare la complessità della trama in un disegno coerente, mostrando una difficoltà non tanto di carattere strutturale (nella variazione del punto di vista, nelle interruzioni della narrazione e nella gestione di situazioni tematicamente parallele o contrastive)49 ma soprattutto filosofica, che è stata convincentemente attribuita al confronto implicito del suo pensiero con l'agnosticismo di Hume ed è evidente, sin dalle prime righe, nella trattazione contraddittoria del tema della Fortuna50.
Nel primo capitolo del primo libro, infatti, che introduce l'argomento del romanzo, cioè le calamità sopportate da una coppia meritevole, il narratore sostiene la convinzione, tipica di quello stoicismo cristiano che fu dello stesso Fielding, che è erroneo attribuire alla fortuna le conseguenze dell'uso, più o meno corretto, della propria libertà51 e che solo l'esercizio disinteressato della virtù può rendere felici52. Tuttavia, l'accanimento con cui la sventura più di una volta si abbatte sulla meritevole e virtuosissima Amelia smentisce implicitamente questo assunto, insinuando il sospetto che le varie catastrofi del romanzo siano ben più che un espediente strutturale per riconfermare il ripristino finale della stabilità e che, per estensione analogica, anche gli individui migliori siano vittime delle vicissitudini della storia. Certo, la conclusione premia finalmente i Booth, ma si tratta di una felicità privata, in fondo molto fragile e ben più circoscritta che in Tom Jones, dove fra l'altro il narratore, smentendo le sue iniziali assunzioni, riconosce alla fortuna un ruolo determinante: "As to Booth and Amelia, Fortune seems to have made them large amends for the tricks she played them in their youth" (XII, ix)53. La medesima ambiguità è percepibile a riguardo del tema delle passioni, che è drammatizzato nel conflitto fra la convinzione cristiana che l'individuo sia in controllo della propria vita attraverso l'uso della ragione, delle virtù e della libertà e l'epicureismo di Booth (che è poi una versione narrativa di quello di Hume), secondo cui l'essere umano è governato da una passione dominante. Sebbene Booth sembri redimersi dai suoi errori con la conversione, di fatto nell'indagare la psicologia dei suoi personaggi Fielding mostra una comprensione del ruolo delle passioni che implicitamente conferma gli assunti di Hume, anche se li priva del suo agnosticismo54, quando, attraverso le parole del Dr. Harrison, giunge ad individuare la spinta religiosa nei dinamismi emotivi di speranza e paura, attivati dalla dottrina della retribuzione futura55.
Nel pensiero di Fielding negare che sia il destino (di cui la teoria delle passioni è la declinazione a livello psicologico) a controllare l'esistenza significa sottrarla all'arbitrarietà del caso per porla sotto la guida della Provvidenza. All'interno del testo dove vige l'isomorfismo fra mondo e scrittura, ciò si traduce nell'analogia fra Dio e il narratore e fra la Provvidenza e l'intreccio. La manipolazione della trama da parte del narratore, allora, non risponde soltanto ad un innegabile desiderio ludico, ma soddisfa soprattutto quell'intento etico che vuole l'ordine, provvidenzialmente, trionfare sul caos e che pertanto, nel premiare la virtù, l'addita pedagogicamente come la corretta scelta esistenziale. Anche in questo senso l'ideologia moralizzatrice dello storico/narratore fieldinghiano si avvicina agli intenti della teoria storiografica settecentesca, dove l'incipiente autonomia metodologica della disciplina convive con l'esplicita finalità didascalica dell'historia magistra vitae, rafforzata dalla convinzione, di Gibbon in maniera chiarissima, che la storia sia ciclica.
Il modello retorico storiografico, che in Joseph Andrews e Tom Jones celebra la vittoria della verità, della virtù e della ragione sul caos e che si basa su una visione teleologica dell'esistenza umana e della storia, si indebolisce in Amelia quando, corrispondentemente, nel pensiero di Fielding si incrina la certezza che sia la Provvidenza a guidare le faccende umane. Anche se Fielding non giunge mai a rinnegare le premesse del suo umanesimo cristiano, né tanto meno lo desidera, il diverso funzionamento del narratore mostra, come è stato detto, che il romanzo è una risposta ansiosa al crescente agnosticismo dell'epoca, emblematizzato dalla dottrina della necessità di Hume, secondo cui, essendo la vita governata dal fato, l'uomo non è un soggetto morale libero56.
Dal ridotto potere della voce narrante deriva una trama organizzata diversamente, che poggia più sulle utterances dei personaggi, dotati di un grado molto maggiore di autonomia e spesso drammatizzati con tecniche di tipo teatrale57, che sulla concatenazione serrata delle vicende. Portavoce del messaggio morale del romanzo non è più il narratore, né, come ci si potrebbe aspettare, la protagonista Amelia, bensì un personaggio marginale all'azione, il reverendo Harrison, certo non un esempio, pur nella sua sostanziale benevolenza e costante protezione dei Booth, di una coscienza sempre illuminata o di un'effettiva capacità d'intervento. La mutata filosofia che troviamo alla base di Amelia si traduce infatti in una diversa concezione etica dell'individuo, visto come un essere socialmente più vittimizzato, ma anche intimamente più fragile. All'intrinseca corruzione delle istituzioni positive, che è bersaglio frequente delle critiche dell'Illuminismo, si affianca ora una mancanza di fiducia, che è nuova in Fielding, nella naturale bontà dell'uomo insieme alla comprensione, spesso non pienamente espressa, dell'inevitabile ambiguità di ogni psicologia. A livello di costruzione narrativa ciò si traduce in un tipo di caratterizzazione, dove la vera natura del personaggio è svelata al lettore gradualmente, attraverso una serie di successive rivelazioni che poco per volta ne denudano la fisionomia al di sotto delle varie maschere.
La dissimulazione pervasiva, simboleggiata a livello sociale dalle mascherate dei dissoluti "pleasure-seekers" a Ranelagh, non si limita ad alcune disgustose figure pubbliche, quali lo spietato giudice Thrasher o l'aristocratico sifilitico che prima rovina Mrs Bennet e poi attenta all'onore di Amelia, ma mina in modo ben più insidioso anche quello che dovrebbe essere il rapporto più intimo fra uomo e donna, come appare per il traballante matrimonio di Amelia e Booth. Sin dagli iniziali "Newgate Chapters", con i quali si avvia in medias res la vicenda dei Booth, l'atmosfera creata è plumbea ed oppressiva con un susseguirsi di situazioni claustrofobiche, dal carcere al "Verge of the Court", l'area ristretta dentro cui Booth è confinato con la famiglia per sfuggire alla morsa dei creditori. Ma anche quando le vicende si svolgono in contesti diversi da quello minaccioso della corrotta metropoli londinese (la campagna dei primi tempi del matrimonio dei Booth, Gibilterra delle campagne militari, la Francia della convalescenza di Amelia), ciò non è sufficiente a ricreare il dinamismo gioioso degli episodi picareschi degli altri romanzi. Anzi, in un romanzo che si apre lì dove le normali attività quotidiane sono negate, cioè la prigione, l'azione risulta paradossalmente un criterio negativo, come mostra il patetico Colonnello Bath, l'anziano militare con il pallino dei duelli, ma soprattutto lo scapestrato Booth, quest'ultimo un Tom Jones molto meno innocente ed innocuo che, quando vuole diventare protagonista della propria vita, non fa che peggiorare la situazione sua e dei suoi cari. Per questo l'attività più frequente nel romanzo è la conversazione che, se da una parte conferma la discrepanza fra vissuto profondo e sua razionalizzazione, dall'altra mostra il ridotto potere di azione degli affabulatori stessi, spesso limitato ad una serie di atti linguistici, orali e scritti - monologhi, conversazioni, confessioni, racconti, lettere, sermoni -58, più mistificanti che esplicativi.
Amelia non raggiunge dunque l'ottimistica sintesi intellettuale ed estetica degli altri romanzi sia per la maggiore complessità tematica che coinvolge vari mali sociali59 sia, per come si è visto, per la mutata filosofia dell'autore che indebolisce la posizione dello storico/narratore. La storia è comunque raccontata, così come viene amministrata la convenzionale giustizia poetica che appare però sempre meno convincente. Nel penultimo capitolo, dove l'azione si conclude con la restituzione ad Amelia dei beni rubati dalla sorella, la retribuzione finale è paragonata a un sogno che si avvera. Dice il Dr. Harrison (XII, viii): "I believe the dream will come to pass", citando poco dopo alcuni versi dell'Iliade che riaffermano il controllo della divinità, sebbene con tempi imprevedibili, sulle vicende umane. Ma il finale di Amelia non riesce a riproporre la stessa sicurezza di Tom Jones dove il narratore, certo della felicità di Tom e Sophia, la comunica con una serie di affermazioni assertive (XVIII, xiii): "To conclude, as there are not to be found a worthier man and woman, than this fond couple, so neither can any be imagined more happy". In Amelia la felicità dei personaggi non è più un dato indiscutibile, ma principalmente il frutto delle loro stesse affermazioni, come ben mostra l'organizzazione retorica dell'ultimo paragrafo del testo, giocata tutta sul discorso indiretto:
 
Amelia is still the finest woman in England of her age. Booth himself often avers she is as handsome as ever. Nothing can equal the serenity of their lives. Amelia declared to me the other day, that she did not remember to have seen her husband out of humour these ten years; and upon my insinuating to her, that he had the best of wives, she answered with a smile, that she ought to be so, for that he had made her the happiest of women (corsivo di chi scrive) 60.
 
Sebbene narratore e lettore vogliano ancora credere in un universo provvidenziale, l'oggettività dei fatti è divenuta ora la fragile soggettività dei desideri quando non delle illusioni, dove la felicità può essere solo sognata.
 
 
 
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