Dossier Studi Culturali

 
Gian Piero Piretto

 
VISIONI E RAPPRESENTAZIONI DI NON-FLÂNEURS SOVIETICI
LO SGUARDO DEL E SUL COMPAGNO STALIN

  
 
Nell'universo visivo della cultura sovietica le immagini, nella loro più basilare ma fondamentale accezione di produttrici di significati, hanno occupato una posizione di immensa importanza. In qualunque conto si voglia tenere la matrice religiosa-spirituale dell'icona (in russo ikona ma soprattutto obraz, immagine per antonomasia), la tradizione affida alla sua poetica la responsabilità di farsi tramite tra l'uomo e il soprannaturale, dando vita a un particolarissimo rapporto tra osservatore-fruitore, immagine (sacra) e parole-motti-didascalie in essa contenuti (cfr. Florenskij: 1997, Franzini: 2001, Passarelli: 2003). Attraverso la contemplazione e la venerazione dell'icona l'uomo acquisiva la capacità di vedere l'invisibile, quanto la raffigurazione sulla tavola di legno non poteva e non intendeva riprodurre, ma a cui simbolicamente rimandava. Su questa base si sono sviluppate tendenze e atteggiamenti diversi e originali che nel corso dei secoli hanno segnato il rapporto dialettico tra osservatore e oggetto osservato, ciò che costituisce quanto viene oggi definito "evento visivo", tratto fondamentale per l'analisi della visual culture in ogni cultura:
 
 
The constituent parts of visual culture are, then, not defined by medium so much as by the interaction between viewer and viewed, which may be termed the visual event (Mirzoeff: 1999, 13).
 
 
Il secondo e fondamentale atteggiamento di interazione dialettica tra fruitore e oggetto iconografico della tradizione visiva russa, complementare a quello sacro e rituale dell'icona, è impostato sulla stampa popolare del sei-settecento (lubok), affine all'immagine sacra per impianto e origini, ma laica, folclorica, "bassa", ancorché, come l'icona, "caratterizzata dalla semplicità di un'immagine che si coniuga con il testo scritto" (Pesenti: 2002, 14). La differenza fondamentale, oltre al soggetto rappresentato, era data dall'utilizzo ludico e quasi fisico di quest'ultima, in contrasto con la ieratica contemplazione riservata all'icona. In altra sede ho affrontato la relazione tra queste due forme d'arte1 antica e il riscontro che hanno trovato nell'iconografia e nell'immaginario sovietico degli anni Venti e Trenta (cfr. Piretto: 2002). Oggi, ferme restando le considerazioni sulle matrici storiche della cultura visiva in quel paese, mi spingo oltre per analizzare un problema legato a un suo aspetto fondamentale: lo sguardo e la rappresentazione di quanto osservato, tenendo come punto di riferimento un paio dei più illustri occhi dell'epoca, quelli di Iosif Vissarionovic Stalin, e utilizzando come materiale documentaristico una delle forme più interessanti di arte massificata, il manifesto di propaganda e la sua specificità di farsi negli anni staliniani esclusivo e indiscusso modello di mondo.
Un tratto di specificità e originalità della produzione e della conseguente fruizione del plakat (manifesto) nella cultura sovietica è legato ai fattori stimolanti politici e sociali che lo hanno fatto nascere. La funzione di un prodotto visivo è solitamente connessa a motivazioni che vanno dalla comunicazione, alla divulgazione, all'informazione, alla persuasione, sui fronti più diversi: politica, commercio, istruzione, spettacolo. In URSS la molla che fece scattare la produzione massiccia dei manifesti fu articolata e plurifunzionale. La lingua russa mutua il termine propaganda dal latino, il termine reklama (pubblicità) dal francese, ma conia un concetto di notevole originalità combinando in una nozione specifica e direttamente dipendente dalle esigenze di un preciso periodo storico due sostantivi: agitacija (agitazione) e propaganda, ottenendo agitprop. Figura che univa in sé l'attività del propagandist (propagandista), colui che combinava slogan e immagini a sostegno dell'ideologia, e quella dell'agitator (agitatore), che divulgava nei luoghi appositamente pensati per l'occasione i prodotti usciti dalla creatività degli agitatori (Kenez: 1985, 7). All'inizio dell'esperimento sovietico, negli anni più vicini a quella che era stata l'avanguardia, la collaborazione tra politica e cultura avrebbe investito, anche sul fronte propagandistico, in sperimentazioni ardite e utopistiche, rispettando e stimolando la concezione che anche guardare e vedere potessero essere esperienze semiotiche. La relazione tra l'apparato visivo, il mezzo di comunicazione, la tecnologia che lo aveva creato e un osservatore-fruitore sfociava nell'esperienza dell'evento visivo (Mirzoeff: 1999, 13). Le immagini, oltre a connotarsi come veicolo privilegiato per arrivare alla massa degli ex contadini e operai, ormai unificati nella definizione di proletari che li avrebbe portati a diventare i nuovi signori dello stato sovietico, continuavano, secondo lo spirito distruttivo e provocatorio dell'avanguardia, a procurare esperienze semiotiche. L'osservazione di quel particolare sistema di segni implicava la lettura dei messaggi iconografici come interpretazione degli stessi. Vedere, secondo la cultura-propaganda dei primi anni Venti, non era credere, ma interpretare. Negli anni della Nuova Politica Economica (NEP) lo stato sovietico dovette fare i conti con la concorrenza commerciale dei negozianti privati, tornati in auge nel tentativo leniniano di risanare la fallimentare economia sovietica, disastrata dalla guerra civile e dalle conseguenze della rivoluzione. Questa operazione vide ancora all'opera artisti e poeti, epigoni dell'avanguardia, che anche in quella forma popolare e massificata di arte finalizzata alla pubblicità commerciale investirono le forze migliori (Piretto: 2001, 42-46). I risultati non furono entusiasmanti. Il gusto primitivo, l'impreparazione, l'arretratezza e l'ignoranza che caratterizzavano loro malgrado i fruitori di quei prodotti avrebbero reso impossibile il rapporto dialettico tra le due parti, che avrebbero continuato a preferire testi banali, privi di dialettica politica, lontani dalle elitarie complessità delle sperimentazioni. La messa al bando della NEP coincise con la fine di contributi provocatori e dell'alleanza tra una certa schiera di intellettuali e il potere. Il passaggio di testimone a Stalin e la sua cosiddetta rivoluzione culturale avrebbero considerevolmente cambiato le cose, indirizzando verso categorie molto diverse produzione e fruizione della cultura, quella visiva compresa. Si fa ricorso alla categoria estetica del Kitsch per interpretare questi cambiamenti. Il livello fu abbassato, semplificato, reso abbordabile a tutti. Nessun approfondimento dei problemi, ma una loro trionfalistica soluzione e proposizione in termini di concetti facili, preconfezionati e facilmente condivisibili. Immagini chiare, prive di trasparenza interpretativa, mimetiche e piatte fino all'inverosimile. La tecnica del montaggio che aveva caratterizzato gli anni Venti nel cinema e nella fotografia viene rimossa e condannata come artificio che, creando da due o più punti di vista una nuova visione unitaria, rende difficile l'osservazione ed esige interpretazione. La lettura semiotica dell'immagine suscitava "admiration, awe, terror and desire" (Freedberg: 1989, 433), in altre parole evocava la categoria estetica del sublime, che lo stalinismo avrebbe condannato come troppo complessa e anacronistica, preferendole una reazione che avesse come effetto la più scontata e garantita empatia. Il nuovo cittadino sovietico aveva diritto a sensazioni ed emozioni positive, a tutto tondo. Il timor panico, per quanto suscitato da un surplus di bellezza, era stato eliminato anche dalla tradizionale concezione della natura russa. La nostra vita è la più bella che si possa immaginare, e il bello è la nostra vita. L'immagine e l'emozione nascevano e morivano in se stesse, non rimandavano ad altro. La confusione, gli elementi ambigui di sfondo che, secondo Baumgarten, costituiscono la sfida che ogni immagine lancia nel suo dover essere chiarita e compresa, venivano a cadere2. La composizione dell'immagine si esauriva nell'osservazione e nell'applicazione della categoria filosofica della credenza: credo a ciò che vedo. Ciò che vedo rappresentato è il vero, più autentico di quanto si para al mio sguardo nella vita di ogni giorno.
Per esaminare la categoria dello sguardo e le sue possibili funzioni procedo introducendo la figura che nella storia della cultura universale ha incarnato lo spirito dell'osservatore per antonomasia: il flâneur, che dai Passages parigini, dalle aure baudelairiane e benjaminiane in poi si è sfaccettato in mille varianti e sfumature. Anche la Russia della modernità ha avuto un suo flâneur, ben inteso carico di specificità culturali, non tanto nazionali, quanto complesse e problematizzate dall'autore che lo aveva creato: Fëdor Michajlovic Dostoevskij (cfr. Piretto: 1993, 1996). Il flâneur russo si chiamò sognatore pietroburghese (peterburgskij mectatel'), perché soltanto in quella città la figura di un viandante urbano poteva combinarsi con spazi, volumi architettonici, bizzarie climatiche e folla. Tra ponti, lungofiumi e territori urbani marginali il sognatore-strampalato-flâneur avrebbe alternato passeggiate a testa bassa a contemplazioni solitarie, in preda a un trasporto quasi onirico, della Pietroburgo estiva. Avrebbe dialogato con le case, osservato volti e abitudini comportamentali, cercato o fuggito personaggi e fantasmi, soprattutto evitato di scambiare qualsivoglia parola con chiunque. Come i suoi omologhi europei avrebbe privilegiato l'attività dello sguardo, muovendosi nello spazio con un'andatura e una motivazione che favorivano e rendevano possibile una particolarissima osservazione. Avrebbe elaborato tecniche singolari di passaggio attraverso gli spazi, ottenuto visioni alternative della realtà (Jenks: 1998,148).
 
 
Tutto lo colpiva; non si lasciava sfuggire una singola impressione e con lo sguardo pensieroso guardava i visi dei passanti, fissava il volto di chiunque gli stesse intorno, ascoltava amorevolmente la parlata popolana, come se volesse verificare su tutto le conclusioni a cui era arrivato nel silenzio delle sue notti solitarie (Dostoevskij: 1956, 426).
 
 
Con Simmel e la sociologia marxista il flâneur europeo avrebbe perso la sua connotazione riduttiva di viandante di strada borghese, letterario, blasé. Storia, politica, capitalismo e merce avrebbero contribuito a fare di lui un osservatore più responsabile, a mutare il suo atteggiamento snobistico nei confronti della folla, a richiedere un suo "engagement with the crowd" (Jenks: 1998, 153). Si sarebbe connotato anche come critico culturale e indagatore privilegiato. Proprio per questo, e nonostante tutto questo, per il potere e la cultura sovietica staliniana uno spettatore solitario, partecipe soltanto nel gusto voyeuristico delle attività della folla (massa), troppo isolato e troppo attento indagatore di fenomeni e creatore di particolarissimi "eventi visivi", rischiava di diventare figura anacronistica e priva della corrente correttezza politica. La parola chiave dello stalinismo, già lanciata dagli agitprop degli anni Venti, sarebbe diventata "attiva partecipazione". L'indolenza, il vagabondaggio, lo starsene in disparte a scrutare con curiosità quasi morbosa lo scorrere della vita non avrebbe trovato né spazio né comprensione nel nuovo sistema di valori e mentalità. Il rendersi invisibile tra la folla, il vedere senza essere visto (Ihle: 2002, 86-87) erano prerogative che nell'Unione Sovietica di quegli anni spettavano a una ben precisa categoria di persone: i collaboratori del Comitato di sicurezza statale (komitet gosudarstvennoj bezopasnosti), altrimenti noto come KGB. Osservatore privilegiato, immobile, privo sia della agilità frenetica di un certo flâneur, che della curiosità indagatrice della variante stanziale, unico ad aver diritto allo spettacolo della folla senza mai mescolarsi a essa, sarebbe stato Stalin. Dalla tribuna del Mausoleo di Lenin, irrigidito nella divisa, limitando la dinamicità a un meccanico gesto della mano, avrebbe trovato legittimazione e giustificazione alla propria autorità nel rimirare, ma senza gusto autenticamente voyeuristico, la massa dei cittadini sovietici che sfilavano innanzi a lui in occasione di manifestazioni, dimostrazioni, ricorrenze, tutti con il capo piegato verso destra per rendere omaggio alla sua supremazia e per godere della visione dell'idolo nell'attimo fugace del passaggio di fronte alla tribuna. Ad avere il diritto di sfilare sulla piazza Rossa nelle occasioni rituali erano i privilegiati, coloro che con prestazioni da super lavoro, stacanovismo, adesione entusiastica alla causa, si fossero guadagnati la postazione di favore. Per il resto del paese, in corsa o meno verso quel posto al sole, tutto era affidato alla rappresentazione, cinematografica, iconografica, visiva. Il principio di visualizzazione inteso come traduzione dell'esperienza in immagini (Mirzoeff: 1999, 5), applicato massicciamente dalla cultura staliniana, avrebbe contribuito a rendere il discourse più comprensibile, di più rapida ricezione, di maggiore effetto. Il bisogno moderno di raffigurare o visualizzare l'esistenza si realizzò nell'URSS degli anni Trenta-Cinquanta con particolare rutilanza e con tratti di grande originalità, dovuta anche all'utilizzo politico che ne sarebbe stato fatto. La parola come testo cedeva lo spazio alla parola come immagine. Lo stesso Stalin avrebbe fatto pochi e misurati ricorsi all'oratoria. Tutti i suoi discorsi furono brevi, essenziali, con il suo russo fortemente segnato dalla nativa cadenza georgiana. La parola, anche per il dittatore, avrebbe ceduto il posto all'immagine.
Il consueto andamento storico dell'avvicendamento dei modelli di rappresentazione, secondo il quale la moderna instabilità dell'immagine fa sì che mentre un sistema di raffigurazione perde terreno già un altro avanza, pur senza far scomparire il precedente, subì una violenza. La cultura degli anni Trenta tese a rimuovere e nascondere, anche fisicamente, modelli e prodotti del decennio precedente. Il rapporto dialettico fu bruscamente interrotto. La relazione tra osservatore e oggetto osservato mutò. L'esperienza semiotica venne abbassata e ridotta, privata del suo aspetto più coinvolgente e dinamico: l'interpretazione. Vedere tornò a essere credere, non interpretare.
I molteplici manifesti che ritraevano Stalin circondato dalle più svariate componenti di popolo sovietico, o nell'atto di intrattenere a distanza ravvicinata gli specialissimi e privilegiati ospiti dei mitici banchetti al Cremino, appartengono alla più assoluta virtualità e rientrano in quella funzione di creazione di modello di mondo a cui la strategia del potere tendeva. Anche in questo ambito con differenze e sfumature comportamentali che risentono del passare della storia e dell'evolversi o involversi della situazione al potere. Lo Stalin degli anni Trenta, vestito della semplice casacca militare, sulla traiettoria di lancio verso i trionfi del culto della propria personalità, è rappresentato attorniato da bambini, lavoratori, popolo in raffigurazioni pressoché allegoriche: la sua figura non è narrativamente inserita nel gruppo, ma si staglia in forme diverse al di sopra della quotidianità e della folla. La sicurezza di cui godeva gli permetteva quel ruolo di flâneur tanto particolare, di altero, stanziale osservatore degli altri. Non nascosto allo sguardo del mondo, non seduto al tavolino di un caffè ma pronto a scattare all'inseguimento di un'attrazione fantasmatica, come l'uomo della folla di Poe (Poe: 1840), né al riparo di una finestra, costretto all'immobilità da una paralisi, attratto dall'animazione di un mercato, come il cugino del racconto hoffmaniano (Hoffmann: 1822). Ma bene in vista sulla tribuna del mausoleo, legittimamente e trionfalisticamente esposto a sguardi che non lo potevano scalfire, né mettere in discussione. Non era lui l'indagato, gli occhi di chi sfilava lo sfioravano per pochi attimi ed erano tenuti dal cerimoniale e dal ritmo della manifestazione a passare prontamente oltre. Consapevole di questo stato di cose non si curava neppure della propria immagine: si presentava semplice e sobrio, cosciente di essere lui a detenere il privilegio dello sguardo attivo (Lotman: 1994, 65). La folla era per lui spettacolo, ma in maniera assai diversa da quella che il flâneur aveva concepito. La situazione si era complicata e articolata secondo gli stimoli che venivano dalla politica. L'osservatore-fruitore stava fermo, sicuro di sé nell'ostentazione della propria figura pubblica, e la rappresentazione, teatrale e organizzata secondo un preciso copione, scorreva davanti ai suoi occhi. Nessuno, tanto meno lui, si immergeva più nella quotidianità trasformandola in strumento di narrazione. La normalità o i territori marginali in cui muoversi erano stati banditi. Soltanto rito e celebrazione, soltanto luoghi leggendari e carichi di mito. Nessuno attraversava lo spazio sociale scrutandone l'organizzazione pratica. Il pedone sovietico marciava, non camminava, ed era squadrato dall'alto di una tribuna. Il suo movimento, mai solitario e sempre ritmato, organizzato e ben costruito, si trasformava in spettacolo e legittimazione della bontà del regime e delle sue iniziative. Spettacolo in questa circostanza è da intendersi come convenzione visiva e determinazione dell'imagery del momento. È la forza reazionaria che si oppone all'interpretazione. È un'appropriazione preesistente del visivo nella forma di quella che deve diventare l'unica realtà accettabile (Jenks: 1998, 155). Lo spettacolo indica le regole di cosa si può e non si può vedere, la sua "visibilezza" (seenness), l'aspetto rappresentazionale dei fenomeni che sono promossi, non la valenza politica o estetica che li renderebbe meritevoli di essere visti. Il pedone urbano del paese sovietico più felice del mondo non deve banalmente "mingle with the crowd" sulla base di un'attrazione personale e quasi morbosa, ma farsi totalmente folla-massa-collettivo e diventare parte dello spettacolo inscenato per il leader e per il resto del mondo, per una recita che egli non avrebbe osservato ma di cui sarebbe diventato consapevolmente attore. Quando lo spettacolo dell'eccezionale nel quotidiano fosse andato in scena, avesse avuto la sua prima sulla piazza Rossa e avesse ottenuto l'imprimatur attraverso la convalida dello sguardo fisso e vuoto del capo supremo, il prodotto sarebbe stato pronto per la divulgazione attraverso vari stadi di cultura visiva. Trasposizione in film, la più completa delle esperienze visive, con tanto di intreccio, immagini in movimento, colonna sonora che riprendeva e fissava nella memoria, con un allargamento sinestetico dell'evento visuale, il messaggio e l'esperienza vissuta in sala. Poi il manifesto, forma ridotta, sintetica ma fondamentale dell'operazione, che rilanciava concetti già noti o ne promuoveva di inediti, ma sempre sostenuto da parallele campagne che totalizzavano l'evento di cui era protagonista. Ultima tappa, non meno importante era la parola-immagine, i grandi slogan esibiti a caratteri cubitali su muri e tetti di edifici in ogni città, a riprendere il concetto chiave già introiettato dal pubblico attraverso più facili e godibili esperienze. Una sorta di ripasso costante, di memento in forma breve ma efficace di eventi visivi ed emotivi già vissuti e da non dimenticare. Una ripresa, in forma riduttiva e talora degenerata, della poetica dell'icona. Vedere l'invisibile non significava più arrivare a una dimensione soprannaturale o spirituale, bensì cedere totalmente all'illusione della realtà virtuale che veniva confezionata quotidianamente e di cui i prodotti visivi erano complici e responsabili fondamentali. Manifesto come modello di mondo in cui credere, da osservare e fare proprio invece di quello reale. Secondo il modello teatralizzante dell'immagine fornito dal lubok (stampa popolare), la realtà raffigurata sul manifesto doveva essere vivificata, messa in scena ogni giorno per eliminare la routine che uccide lo spettacolo e infrange la ritualità. La situazione effettuale della storia quotidiana doveva essere costantemente trasformata in rito ed eccezionalità. Difficoltà di sopravvivenza, terrore, squallore esistenziale sparivano nella coscienza comune della maggioranza, anche grazie alla sofisticata strategia di organizzazione delle immagini e delle visioni offerte, concesse e imposte al popolo. La ripetitività delle immagini, la loro rassicurante riconoscibilità, veicolavano un sapere comune che faceva accettare l'evidente falsità di quel testo in nome della sua "verità" ideologica. La retorica dei manifesti di propaganda non si poneva il problema del vero o del falso. Il problema etico era altrettanto sospeso, a vantaggio dell'efficacia della narrazione, della legge dell'empatia, del legame che creava tra il soggetto e il mondo. La tensione dovuta alla costante situazione di insicurezza, timore e ambiguità di rapporto con il potere faceva il resto e contribuiva a "convincere". Nulla meglio del cinema e del plakat si prestava a questa funzione: vincere la resistenza allo spettacolo opposta dalla pratica della quotidianità e promuovere una realtà illusoria ma consolatoria e legittimata dall'ideologia che altrove ho definito Stalinland (Piretto: 2001, 129-150), il paese come parco a tema, astratto, privo di connotazioni autenticamente storiche, ma giocoso e attraente nella sua rappresentazione. Attraverso queste forme di spettacolo la gente acquisiva una (fasulla) conoscenza degli aspetti irrinunciabili della vita sociale.
Lo Stalin sorridente e bonario nei manifesti degli anni Trenta e Quaranta ha sempre una barriera che, in varie forme e modalità, lo separa dalla folla: una tribuna, un mazzo di fiori, un podio. A significare che la sua figura non si mescolava alla massa, che la sua immagine era trascendente, superiore, unica.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Sotto la guida del grande Stalin, avanti verso il comunismo!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Grazie al caro e amato Stalin per la nostra infanzia felice!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
L'amato Stalin è la felicità del popolo, 1949
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Il grande Stalin è il vessillo dell'amicizia tra i popoli dell'URSS, 1950
 
 
 
Solo a guerra vinta, ma a tensioni e paranoie acuite al massimo, la raffigurazione iconografica lo porterà a cercare una rassicurazione alle sue fobie in un a maggior ragione sempre più virtuale contatto fisico con i suoi cittadini. E la sua sicurezza di detentore del podio d'osservazione, di essere colui che contempla, tradirà un'incrinatura pesante nel suo addobbarsi con la divisa di grande ufficiale e le onorificenze applicate alla casacca bianca. Cadranno barriere ed elementi separatori. Sentendosi osservato, studiato, la sua immagine avrà bisogno di orpelli e sostegni esteriori.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Lavora con militante costanza, affinché il kolchoz diventi esemplare! Per un lavoro onesto ti aspetta una ricompensa: agiatezza, gloria e rispetto!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
B. Vladimirskij, Rose per Stalin, 1949
 
 
Paradossalmente l'idolo scenderà tra la gente, ma toccherà al suo look la responsabilità di segnalarne quella superiorità e quel distacco che non saranno più spontanei. E a stigmatizzare questa situazione arriveranno delle vere e proprie icone.


Sotto l'insegna di Lenin, sotto la guida di Stalin, avanti verso la vittoria del comunismo!


Noi siamo per la pace e difendiamo la causa della pace.
 
 

 

 
 
 
 
Arriveremo all'abbondanza!
 
Uno Stalin ringiovanito, con il volto rilassato e lo sguardo invariabilmente volto altrove rispetto al punto di vista di chi osserva. La sua immagine elegante e imponente e uno slogan: l'essenza del pensiero. Talvolta l'aura-ombra leniniana alle spalle a confermare l'ispirazione e l'impronta del grande predecessore. Il resto dei manifesti di propaganda prodotti negli anni Cinquanta, prima della sua morte, avrebbero continuato a fornire modelli di mondo sempre più artificiali e "laccati", in barba alla disastrata situazione dell'economia e dell'agricoltura. La parola chiave "abbondanza" (izobilie), riportata anche in una delle "icone" staliniane dei primi anni Cinquanta, avrebbe improntato di sé manifesti e film, inserendo nell'epopea del non-flâneur sovietico il rapporto con la merce. Con lo spettacolo della merce, non il suo utilizzo o tanto meno fruizione. La contemplazione di beni di consumo, che già raffigurazioni degli anni Trenta avevano inserito nella realtà virtuale di quell'universo, sarebbero esplose a convincere la popolazione di vivere in uno stato non soltanto ricco, ma eccezionalmente agiato. Non solo prodotti alimentari, ma ogni genere di bene materiale sorrideva allo spettatore dai muri e dagli schermi.
 
 
 
 
 
 
Alla terra, acqua. Al popolo, ricchezza!
 
 
 
 
 
 
 

Più verdura e frutta per le città e i centri industriali!


Più tessuti solidi e abiti belli!
 

 
Concludo citando il testo che più di ogni altro incarna queste posizioni, un film del 1949, Kubanskie kazaki (I cosacchi del Kuban') di Ivan Pyr'ev. La scena dei cosacchi in festa e in riposo alla fiera più virtuale della storia, del cinema e in assoluto (Piretto: 2001, 216-219), offre una vera orgia visiva di abbondanza. I visitatori non consumano nulla di quanto esposto sui banchi. Prendono liberamente, senza la banale e capitalistica mediazione del denaro, e la gioia è tutta per gli occhi. Guardare, riempirsi lo sguardo, per personaggi e spettatori, pare essere l'unica ragione di vita, l'esigenza primaria. Necessaria e sufficiente. Guardare e credere. Che importa se a casa la tavola è vuota, la credenza pure e l'armadio altrettanto. Dai manifesti e dalle pellicole la vita ci sorride, basta osservare e credere.
 

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