Cultura e Storia

 
Stefania Lodi Rizzini
 
 IL VOLTO FEMMINILE DELL'ARTE CONTEMPORANEA BRITANNICA:
JENNY SAVILLE, TRACEY EMIN,
MONA HATOUM, GILLIAN WEARING*
 

Negli anni Novanta in Gran Bretagna si è assistito alla nascita di uno dei movimenti artistici più interessanti degli ultimi decenni, definito yBa (young British artists).
Il terreno estremamente fertile prodotto dalle scuole d'arte britanniche, un forte senso di solidarietà tra gli artisti combinato al laissez faire liberista della Thatcher, e la capacità di sfruttare al meglio la relazione sempre più stretta tra pubblicità, televisione e mondo dell'arte sono stati gli elementi principali che hanno contribuito alla nascita del fenomeno degli yBa.
All'interno di questo movimento le donne hanno assunto una posizione decisamente dominante, infrangendo i ruoli di musa, modella e amante storicamente assegnati loro nel mondo dell'arte. Waldemar Januszarak scrive: "Sarah Lucas, joined by Tracey Emin, Gillian Wearing, Georgina Starr have all had significant shows and made noisy contributions to the broadcasting of a loud new voice in British art: urban, cocky, female, fearless" (Blazwick: 1998,120).
Victoria Miro ricorda che sin dagli anni Ottanta ci sono state molte donne artiste che hanno goduto di grande stima e autorità; ma il mondo dell'arte concorda sul fatto che esse siano un fenomeno nuovo (Borzello: 2000). Molte delle artiste britanniche non si riconoscono nelle problematiche e nella tradizione femminista delle generazioni precedenti. Maureen Paley sintetizza il loro pensiero in questa frase: "It is just art, not women's art" (Deepwell: 1995, 45); che la loro arte venga definita in termini del loro sesso è ciò che desiderano evitare.
 
 
Identità e trasgressione dei limiti corporei
 
Per analizzare la tematica dell'identità è necessario considerare la contemporanea iscrizione nel corpo delle differenze di genere. Nella teoria si è spesso invocato il termine 'donna' per poter delimitare l'identità, ma l'introduzione della distinzione tra sesso e genere ha notevolmente cambiato le prospettive.
Originariamente tale distinzione è stata creata per sfidare la formula "la biologia è il destino" (Betterton: 1995,14), sulla base dell'argomentazione che il genere è culturalmente costruito e non è un risultato accidentale del sesso e nemmeno fisso, come invece lo è il sesso. L'unità del soggetto è potenzialmente contestata dalla distinzione che permette di identificare il genere come distinto dal sesso.
Se il genere è il significato culturale che il corpo sessuale assume, ne consegue che il genere non è in nessun modo consequenziale al sesso. Portata a un limite logico, la distinzione tra sesso e genere suggerisce una discontinuità radicale tra il corpo sessuale e il genere culturalmente costruito. Se si dà per assunto la stabilità del sesso binario, ne consegue che la costruzione culturale dell'uomo non proverrà esclusivamente dal corpo dell'uomo, né ovviamente la costruzione culturale femminile dal corpo femminile.
Il genere destabilizza la vera distinzione tra naturale e artificiale, forma e contenuto, interno ed esterno. Se i sessi sembrano essere binari nella loro morfologia e costruzione, non c'è nessuna ragione di affermare che i generi debbano essere due. Quando lo status costruito del genere è teorizzato come radicalmente indipendente dal sesso, il genere stesso diviene un artificio variabile, con la conseguenza che l'uomo e il maschile possono significare sia un corpo femminile che un corpo maschile, e donna e femminile possono analogamente indicare un corpo maschile come pure un corpo femminile.
Judith Butler afferma che il genere non è sempre costruito coerentemente in contesti storici diversi perché il genere si interseca con il razziale, la classe, l'etnico e il sessuale e in infinite modalità regionali di identità costituite discorsivamente. Il risultato è l'impossibilità di separare il genere dalla dimensione culturale e politica in cui è invariabilmente prodotto e mantenuto (Betterton: 1995, 6).
Susan Bordo afferma che la produzione di un corpo normale è una delle strategie disciplinari centrali della nostra società (Betterton: 1995,131). Negli anni Novanta il corpo è diventato un veicolo per l'espressione di perdita dell'identità corporale e dei suoi limiti; è stato associato a immagini di morte, di distruzione e smembramento. In un clima culturale e politico di incertezza e di impotenza l'inquinamento e la disgregazione del corpo sono diventati una metafora potente del collasso delle certezze morali e sociali. Lois Keidan sostiene che il concetto di corpo è completamente mutato e rivoluzionato. Keidan afferma:
 
Dal momento in cui la scienza è riuscita a portare il corpo in un'altra dimensione, da quando il body piercing e il tatuaggio sono diventati accessori rigorosamente di moda, da quando l'ortodossia delle religioni occidentali ha perso il suo ruolo e la sua rilevanza, da quando le nuove tecnologie hanno rivoluzionato le nostre relazioni interpersonali, da quando i media dell'informazione hanno sostituito i luoghi della spiritualità, e da quando gli individui hanno intrapreso una ricerca personale dei rituali contemporanei, le domande sul corpo nella società hanno acquistato urgenza e potenza (Franko: 2000).
 
La metafora della trasgressione dei propri confini corporei è stata utilizzata largamente dalle donne artiste per identificare il corpo femminile. Secondo Barbara Creed la trasgressione dei confini, particolarmente quello tra l'uomo e il non umano, è centrale per la costruzione del mostruoso. Creed si rifà al pensiero di Julia Kristeva e al suo Power of Horror per la definizione di abietto, dove abietto è il luogo in cui i significati crollano, il limite, il confine tra ciò che si definisce umano e ciò che non lo è... Ciò che costituisce la linea di confine o intermedia è potenzialmente pericoloso perché ambiguo. Il confine più importante è quello che separa l'interno dall'esterno del corpo, il sé dall'altro. Cibo, secrezioni fisiologiche e attività sessuali sono tutte chiavi del sistema simbolico in quanto attraversano il confine esterno del corpo.
Nella tradizione del nudo dell'arte il corpo sessuale irregolare è sempre stato represso al fine di mantenere l'unità e l'integrità del soggetto vedente, mentre l'arte contemporanea esplora largamente l'estetica dei corpi trasgressivi, spesso simboleggiati dal corpo femminile.
La preoccupazione di interiorità ed esteriorità nelle metafore del corpo permane; il potere del corpo di sovvertire la razionalità e di evocare il disordine è ciò che appunto si esprime nelle opere d'arte più recenti. Gli anni Novanta hanno segnato un cambiamento rispetto alla figurazione del corpo femminile percepito come un tutto unico e integro dall'arte femminista, verso una direzione di rottura delle barriere del corpo al fine di invocare la disturbante fantasia del 'corpo in pezzi'. Molte artiste hanno adottato una pratica artistica che si relaziona con il cibo e il sesso, implicitamente anche con il cambiamento e il decadimento, e agli aspetti dell'orrore che sono stati specificatamente identificati con il corpo femminile e i suoi appetiti.
Douglas sostiene che non tutti i margini corporei sono egualmente pericolosi né sono interpretati nella stessa maniera. Ogni società costruisce i propri sistemi di marginalità, per cui la pericolosità che si attribuisce a certi cibi o a certi aspetti del corpo è storicamente e culturalmente variabile (Betterton: 1995,139).
I riferimenti al corpo sono ovunque, da una nuova tattilità nei dipinti all'esplorazione del corpo virtuale nel cyberspazio. Ciò che colpisce nel corrente eccesso corporeo è l'eterogeneità in cui nessun mezzo o contenuto in particolare è proibito o privilegiato. Se in questo secolo il progetto della modernità si è sviluppato in termini di crescente razionalizzazione del corpo sociale, economicamente, socialmente e sessualmente, il suo corollario può essere percepito nella resa incorporea nella pratica artistica, particolarmente nell'epoca successiva alla seconda guerra mondiale. La reiscrizione del corpo femminile nell'arte in modo che trasgredisse i suoi confini può essere percepita come un tentativo di visualizzare gli aspetti repressi, corporali e non regolati del nostro stesso essere. Accettare e riconoscere quella parte del sociale, sessuale e corpo psichico che è stata esclusa non significa solo celebrarlo, ma smitizzare il suo spaventoso potere.
 
 
Jenny Saville
 
La pittrice Jenny Saville è l'artista degli yBa che più si è ispirata alle teoriche femministe Julia Kristeva e Luce Irigaray. La produzione recente della pittrice, in particolare l'opera Matrix (1999), è incentrata sulla tematica del genere e sulla tematica transessuale. Il dipinto raffigura la fotografa underground Del LaGrace Volcano che ha assunto testosterone per tre anni e mezzo al fine di cambiare la sua identità femminile.
Il dipinto è uno scorcio diretto dell'ambiguo corpo nudo transessuale e del viso maschile con i baffi, i tatuaggi e i capelli rasati. L'alterazione del corpo e le ripercussioni fisiche e psicologiche di questi cambiamenti sono evidenziati nel dipinto attraverso le dimensioni e la monumentalità.
Questa figura fluttua nell'ambito della rappresentazione postmoderna del genere, brillantemente teorizzata da Judith Butler come una zona di identità sessuali in cambiamento e di rigetto delle differenze essenziali tra donna e uomo.
Il dipinto sfida la rappresentazione sociale della transessualità e l'immagine stereotipata che abbiamo del corpo femminile e maschile. Il discorso transessuale parte dal concetto che il corpo (sesso biologico) esprime e riflette la mente (genere), che il sesso deve coincidere con il genere in quanto il corpo è lo specchio dell'identità.
Nel transessuale il corpo non coincide con la mente e non ha nessun significato predeterminato. Il cambiamento sessuale non rappresenta una capitolazione ai discorsi e alle norme del genere, ma liberandoci dall'altro che è in noi stessi si trasforma in un atto individuale e radicale di attivismo di genere (gender activism). Il corpo leggibile è solo un problema di rappresentazione che inibisce l'espressione del soggetto e il suo vero essere.
Il cambiamento sessuale diventa un progetto vitale al fine di riordinare le aspettative e le norme sociali del genere.
Il sesso nella teoria del transgender è un sistema virtuale, la cui riorganizzazione produce effetti reali nel mondo 'reale' del genere. Rothblatt sostiene che per ripensare al genere abbiamo bisogno di essere in uno spazio dove il nostro corpo non ha alcuna importanza (O'Farrell: 1999, 191).
 
 
Mona Hatoum e Tracey Emin, esilio ed expanding self
 
L'opera di Tracey Emin e Mona Hatoum è influenzata dalla metafora dell'expanding self. Lucy Lippard afferma che l'uso da parte degli artisti dell'expanding self è una metafora per rimuovere i confini dell'identità individuale verso l'esterno allo scopo di includere altre donne e altre persone.
Il postmoderno afferma che il sé è un ibrido e non è un essere fissato o una data essenza. Il sé è iscritto in diversi luoghi e diverse tradizioni discorsive, che cambiano e mutano. Mona Hatoum rappresenta un "estranged self ", in esilio dalla lingua e dalla sua identità originaria (Betterton: 1995, 162).
L'artista palestinese connette distanza, memoria e identità al corpo materno. In Measures of Distances, del 1988, lo straniamento dal corpo materno e dalla terra madre è codificato figurativamente nelle iscrizioni arabe delle lettere inviate dalla madre alla figlia in esilio. Hatoum stabilisce una serie di collegamenti tra il corpo femminile, l'identità soggettiva e lo sguardo etnocentrico. Nonostante nelle opere iniziali l'artista abbia usato il suo corpo nelle performance come una metafora dell'oppressione razziale e sessuale, qui il corpo dell'artista è assente dalla rappresentazione.
Measures of Distances è costruito su fotografie e nastri registrati della madre nella sua casa di famiglia di Beirut, nel 1981. Nel video, le immagini della madre che si lava in una doccia sono sovrastate da scritte arabe che appaiono come un velo. La colonna sonora è formata da estratti di lettere scritte dalla madre alla figlia e tradotte in inglese mentre si sentono dialoghi arabi in sottofondo. L'immagine multistrato dei frammenti della lingua materna, della tristezza della voce narrante suggerisce un continuo dialogo tra madre e figlia oltre la distanza e il tempo. L'identificazione nella sessualità della madre e del suo esilio dal corpo e dalla terra materna sono costantemente evocate. Le linee della scritta formano una barriera permeabile quasi come un filo spinato tra il soggetto e il pubblico, distanza resa ancor più potente per coloro che non parlano arabo e che non sono in grado di leggere la scritta. La parola scritta diventa la life-line, un cordone ombelicale che collega la figlia alla madre.
Secondo Desa Philippi l'opera di Hatoum richiama la proposta di Paul Gilroy secondo la quale noi, come soggetto, abbiamo bisogno di posizioni altre rispetto a quelle del carnefice attivo o della vittima passiva (Betterton: 1995). Gilroy auspica la figura dello spettatore attivo, dell'osservatore impegnato in grado di riflettere e interagire col mondo piuttosto che lo spettatore passivo, incapace di elaborare e chiuso nel proprio mondo. La nostra posizione come testimoni può sfidare l'interpretazione degli eventi e conferire loro nuovi significati. L'identità presuppone l'abilità di agire con le proprie narrative, con la storia e nella cultura (Betterton: 1995, 192).
Grosz chiede se è possibile pensare all'alterità senza presumere che l'altro sia una versione del sé. La risposta alla questione della soggettività artistica giace nella creazione di un luogo "in between". Come ha suggerito Keith Piper, significa occupare uno spazio dove l'artista possa produrre opere che siano espressione della propria particolarità e possano essere lette dagli altri all'interno delle loro diverse soggettività sociali e locazioni culturali (Betterton: 1995, 193).
 
Tracey Emin, l'arte come vita
 
Tracey Emin è l'artista britannica più discussa e celebrata del fenomeno degli yBa. La sua arte trae ispirazione dalle memorie e dai ricordi più intimi della sua famiglia, nonché dai temi della morte e del sesso, filtrati attraverso le circostanze della sua vita, particolare ed estrema. Vorrebbe che attraverso le sue esperienze le persone riconoscessero aspetti della propria vita quotidiana e si identificassero in essi. Le opere sono di forte impatto e denotano una grande abilità di espressione delle proprie emozioni.
Per Julian Stallabrass, Tracey Emin è l'incarnazione del postmoderno primitivo nel mondo dell'arte. Le sue parole, le sue fotografie, i suoi dipinti pongono il consumatore d'arte in uno stato di incredulità. La sua eccentrica e originale identità appare più importante della classificazione dell'opera che può emergere dall'essere semi cipriota, o dall'appartenere alla classe operaia, o dall'essere donna.
L'arte che Tracey Emin realizza viene definita confessional e autoesplorativa. Nonostante la sua arte sia sostenuta da un'educazione scolastica e da una formazione filosofica (l'artista ha seguito un corso biennale di filosofia al London College), ella si sforza di non lasciare traccia della propria istruzione nell'opera (in antitesi alla scelta di apporre il proprio marchio su tutte le sue realizzazioni).
Matthew Collings sostiene che l'opera di Tracey Emin è diversa da quella degli altri artisti della sua generazione e della sua classe sociale, perché ha un impatto emotivo immediato. La domanda che lo spettatore si pone davanti alle sue opere: But is all what it seems?
Stallabrass riconosce che di fronte alle sue opere rivelatrici di sesso adolescenziale, di rabbia, i critici dimenticano la 'teoria', in particolare la critica dell'espressionismo e dell'autenticità, la morte dell'autore, la frattura del sé e le politiche di rappresentazione del genere.
La letteratura critica si è fissata in ampia misura sull'integrità personale dell'artista, riempiendo il divario tra vita e il sé fino a farla diventare una stessa cosa; rigettare l'arte è anche rigettare l'artista, che nelle parole di Stallabrass è rappresentata a chiasmo come una vulnerabile-dura combattente-vittima (vulnerable-tough fighter-victim) (Stallabrass: 1999, 42).
Stallabrass sostiene che Tracey Emin occupa un posto necessario e distinto nell'arte contemporanea mondiale, un sistema che si alimenta delle distinzioni sociali. Il lavoro dell'artista rappresenta una protesta contro il buonismo e la falsa raffinatezza che pervadono il sistema dell'arte contemporanea.
 
Gillian Wearing e il video
 
In campo artistico, la videocamera digitale è oggi uno degli strumenti espressivi più diffusi grazie alla sua maneggevolezza e all'alto livello di prestazioni professionali.
La diversità dei supporti utilizzati, trasmissione su uno schermo televisivo o su più schermi, proiezione in un ambiente, installazione insieme ad altri mezzi quali disegni, sculture e fotografe, ha permesso al video d'arte non solo di sperimentare strumenti e linguaggi nuovi ma anche sconfinamenti tra discipline e tecniche diverse, le cui frontiere appaiono ormai sempre più labili e che di fatto impediscono una precisa definizione di genere.
Il video, che viene usato indistintamente dalle altre artiste, è il mezzo preferito da Gillian Wearing.
Il mondo di Gillian Wearing non è un mondo felice, e la sua opera Drunk (2001) è in parte un esorcismo di ricordi personali e dolorosi, non elaborati. L'artista ha detto di aver sperimentato in prima persona gli effetti dell'alcolismo sulle persone.
Proiettato su tre schermi allineati in una stanza buia, Drunk mostra un gruppo di alcolizzati che parlano, litigano, si scontrano e si ubriacano. I protagonisti appaiono come attori che emergono dai lati dello schermo e a poco a poco spariscono nel retroscena. Ad un certo punto un membro del gruppo deride un altro personaggio, innescando un violento litigio. La teatralità è evidenziata quando uno degli uomini, George, inciampa e cade, occupando l'intera lunghezza dei pannelli di proiezione sulle pareti: in quella posizione appare frammentato e i suoi organi divisi dagli schermi. Giace lungo disteso, immobile, ridotto quasi alle condizioni di un cadavere (Corrin: 2000). L'esperienza della percezione, dinanzi a quest'opera di Gillian Wearing, è molto difficile da definire, ponendosi a metà tra il guardare un documentario e l'osservare un trittico in una galleria d'arte o in una chiesa.
Eliminando il sonoro dalla sua opera Gillian Wearing esplora la natura del silenzio, della soppressione della parola e della difficoltà di esprimersi verbalmente. I soggetti che sceglie non possono rappresentare se stessi, ma devono essere rappresentati. Quando Wearing li rappresenta sembra essere molto cosciente di quello che Gilles Deleuze ha chiamato " the indignity of speaking for others" (Corrin: 2000). C'è un deliberato tentativo di evitarlo, di aprire uno spazio alternativo in cui i suoi soggetti possano parlare per se stessi sebbene il risultato possa condurre al silenzio.
L'opera di Gillian Wearing con il suo alone di 'autenticità' suggerisce che la vita e i suoi livelli più nascosti sono infinitamente più complessi delle situazioni che un artista può descrivere. Ci ricorda che il ruolo dell'arte è di accrescere la nostra esperienza della realtà per rimettere in discussione le nostre posizioni, la nostra aderenza alle convenzioni, i nostri tabù, i modi in cui ci comportiamo rispetto al mondo intorno a noi. Gillian Wearing infrange lo stereotipo di una società britannica conformista e repressa mostrando come i britannici si siano significativamente aperti alla terapia o al voyeurismo che informa un numero crescente di programmi televisivi quali The Big Brother.
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