Letteratura


Itala Vivan
 
 LA COMPLICE STRATEGA NEI SOBBORGHI DI UN SEGRETO AMERICANO: LETTERA A MARISA BULGHERONI *

Cara Marisa,
da brevissimo spazio di tempo sono emersa dai sobborghi del segreto dickinsoniano e sto ancora gasping for air, perché l'immersione è stata totale e mi ha tolto il fiato. E però sono restìa ad abbandonare quei luoghi metaforici in cui le tue pagine mi hanno attirato e quasi costretto, con la forza di una suggestione che mi ha accerchiato su più fronti.
Il tuo libro infatti riesce a creare un eccezionale ibrido di narrativa e biografia, di invenzione ed esplorazione critica. Non so dire che cosa mi aspettassi quando l'ho cominciato, ma certo partivo da una generica consapevolezza di sapere già molto, forse moltissimo, su Emily. Invece mi sono dovuta convincere che non sapevo quasi nulla, e che quello che sapevo era impresciuttito a forza di ripetizioni di stereotipi e percorso di zone vuote che avevo, dentro di me, lasciato tali preferendole così alle chiacchiere spettegolanti, alle teorie fantasiose, al riempimento fasullo creato da egotismi altrui, che poco o nulla avevano a che fare con Emily Dickinson. Lei, per me, se ne stava rintanata in un'ombra che aveva come luce solo la sua poesia: sciabolate fulminanti, rovesci di lava, zolfo di vulcani, terribili sguardi sul suo tempo - gente e idee. Il tuo libro precedente su di lei - la raccolta completa delle poesie dickinsoniane - mi aveva aiutato a sentire l'intensità e la violenza del suo discorso poetico, la terribilità della sua presenza. Ma rosicchiando piano piano le pagine biografiche di ora (perché le ho proprio rosicchiate, come un roditore affamato ma cauto) mi sono vista aprire dinanzi dimensioni nuove e inattese. Intanto ho capito che la vita di Emily Dickinson è stata imprevedibilmente affollata: di presenze, persone, amori, passioni, giochi, attività; ma ho anche misurato la tremenda capacità sua di costruirsi da sé, a dispetto di ogni cosa altra, e di farsi poeta.
Nei sobborghi di un segreto percorre con precisa e personale attenzione ogni piegolina di questa storia che vorrei chiamare titanica, se non fosse che so come Emily farebbe dell'ironia, magari insinuerebbe che vengo da Chillon, accusandomi così obliquamente di byronismo. Tanto più epica perché non visibile come tale, certo non allora, ma neppure oggi a chi non sappia guardare come invece tu fai e porti a fare. Nello scrivere biografia non hai preteso di essere estranea al tuo argomento, anzi, hai continuamente denunciato la tua intromissione e la tua integrale partecipazione volte però non a sovrapporre il tuo sguardo al suo, bensì a farlo coincidere con l'oggetto del suo. Sei sempre visibile come biografa, ma senza spostare su di te il centro, mantenendo una tua posizione di osservatrice e complice segreta, e distinguendo: distinguendo in un modo particolarissimo, che fa sì che mai ci si senta irritati da un frapporsi di un corpo estraneo al compito che noi lettori ci proponiamo, compito di vedere. Così ogni lettore si trasforma in quel semblable e quel frère invocato dall'altro poeta che tu citi.
La cosa strana e fantastica è che verso la metà del libro il mio leggere è diventato via via diverso; se fino allora riflettevo criticamente, combinavo dentro di me le varie emilies, i mille frammenti fulgidi di poesia, ripensavo alle presenze, anche di cammelli ed elefanti e zingari (oh, oriente stupefacente!), decrittavo i codici degli emblemi cuciti fin dentro i risvolti degli abiti, da un certo punto in poi mi sono trovata dentro un romanzo, e come romanzo ho letto il resto, condotta anche da tensione e suspense - incredibile, in such an uneventful life! - così che alla fine sono stata travolta dall'emozione. Ricordo che una emozione simile, anche se più in piccolo, l'avevo sperimentata leggendo la minibiografia che avevi scritto per l'opera poetica. Ma qui è stato fortissimo; c'è quell'ala di morte, quella consapevolezza di immortalità, quell'implacabile e sereno ateismo (non proprio ateismo, ma qualcosa di simile, tutto dickinsoniano, originale ed evasivo) e quella percezione di destino che fanno eroico il personaggio che mai viene 'descritto' come eroico. Emily parla soltanto attraverso la propria voce poetica, e via via sempre più ci assorda, e sconquassa, e stordisce. È veramente un grande libro, e non solo una biografia inattesa e una indagine critica spettacolare; è un grande libro di narrativa, così come l'ho sentito io, approdando commossa alle pagine serene che si incamminano verso la morte, spiando l'inevitabile ladra che arriva furtiva ma viene essa stessa sorpresa da uno scenario accuratamente preparato, predisposto secondo l'andamento di una volontà significante che sottende ogni particolare degli eventi.
Anche perché la tua scrittura appare qui a un picco di raffinatezza e flessibilità, di sottigliezza e acrobaticismo, da dare i brividi. Credo sia anche il risultato di una prolungata tortura, l'auto costrizione a mettere da parte la scrittura creativa pura, la consapevolezza di avere dinanzi un compito arduo quanto altri mai, soprattutto per te, che ti ha spinto sempre più in là, facendoti inarcare la schiena per saltare più alto e più lontano, per rimanere in aria più a lungo in modo da distillare la parola ed esasperare la tensione, raggiungendo comunque una libertà di invenzione e rappresentazione. La scrittura tua è davvero splendida, ulteriormente impreziosita dagli influssi di Emily che ti hanno portato a scrivere a sprazzi e bagliori, con frasi strutturate in modalità imprevedibili.
Però è anche un omaggio di profonda comprensione e com-passione nei confronti della donna Emily, di ammirazione per la sua immensa grazia e la sua aerea pazzia. Ho trovato affascinante l'indagine casta ma penetrante nel suo eros complesso, intrigante e ambiguo, da vero trickster americano.
E infine, a proposito di America, sono rimasta incantata da come risulti sapientemente illuminata l'americanità di Emily Dickinson: il suo tempo, il suo luogo, le sue stratificazioni puritane esterne e interiori, la sua selvaggità avventurosa, la sua implicazione obliqua nei fatti dell'epoca - come ad esempio la lacerante tragedia della Guerra Civile, la vicenda cupa della schiavitù. Il senso della natura e del paesaggio, la convivenza da eguale con gli animali, la percezione degli spazi, dei vasti cieli su cui scrivere un nuovo epos. Il suo modo tutto New England di essere aristocratica e patrizia. E quel suo stile nel rapportarsi con gli uomini (intendo, con i maschi): ottocentesco, certo, ma non vittoriano nel senso europeo del termine, con un fondo di sfida e di libertà anche arrogante, sebbene spesso coperto da merletti di ironia. Quel suo stare in compagnia delle donne, a combriccola, esigente e totalizzante sebbene a mo' di gioco. E' una Emily inedita che ne esce, una che si abbandona ad amori appassionati sui divani della Homestead (quantunque con un anziano giudice, ahimè, che sarebbe morto di lì a poco...), una che cavalca oltre i bordi della radura hawthorniana, una che sempre incontrollabilmente trasgredisce e oltrepassa confini e barriere; e il fatto che magari la strada della trasgressione porti 'soltanto' dalla Homestead agli Evergreens non vuol dire nulla, poiché il gap permane smisurato, immenso. Davvero stregonesca è questa Emily che intinge il pennino nella luce di platino della luna del Massachusetts; come l'avrebbero bruciata volentieri, tanti di loro che la stavano a guardare, molti di loro che la temevano senza capire perché. Ho ritrovato spesso in lei movenze e rivolte delle dilette streghe secentesche, e ho riconosciuto in lei il loro sguardo fisso verso un altrove, lontano dall'ombra lunga di ministri e magistrati; ho risentito la spinta in direzione di una rivolta pazza, per gioco, ma sul serio. Che gran donna, questa Emily fuggitiva, inafferrabile pure nel suo essere sempre presente.
Anche i titoli dei capitoli sono assolutamente belli. Un incanto. Riconducono il filo della biografia alla voce poetica, collocandosi come seducenti emblemi affissi alle stanze del tuo libro, in cartigli che richiedono decodificazioni multiple. E le utili fotografie inserite al centro del volume contribuiscono a raffigurarci i personaggi di quel mondo; mentre leggevo, ogni tanto andavo a guardarmi il volto un po' byroniano di John Graves, quello da ragazzone audace di Emmons, e l'atteggiamento intenso e teso di Lyman. E la povera Martha Dickinson, così marziale e fiera, finita nelle braccia del malandrino conte Bianchi; e i tre solidi irlandesi, guardie del corpo coloniali, veri ascari della nostra Emily. Sono contenta di sapere che lei portava i capelli arricciolati intorno al viso, e non sempre tutti lisciati come nel dagherrotipo che tutti conosciamo. Peccato non esistano foto che la ritraggano così.
La partecipazione di Emily Dickinson ai fatti del suo tempo è tutta speciale, e nella biografia viene illuminata sapientemente. La poetessa era stata spesso presentata come un essere staccato e persino avulso dal contesto dell'epoca, remoto, disinteressato ai fatti che oggi, nei libri di storia, caratterizzano quell'epoca, il cuore dell'Ottocento, che portò a compimento l'occupazione del continente nordamericano e segnò, nel mondo, l'apogeo degli imperi coloniali europei. Qui invece traluce, attraverso citazioni e annotazioni, insieme alle lettere e alle stesse poesie, una Dickinson che sa molto di quanto accade e ne fa materia espressiva, tramutando tutto in lingua, in immagini, in metafore, come nella lirica 443, "La mia vita era un fucile carico/in un canto della casa: un giorno/passò il padrone, egli, ravvisatami,/ mi portò con sé/ e ora vagabondiamo in regali foreste/ora diamo la caccia al daino...", a proposito della quale tu osservi che "con sicurezza medianica Emily parla qui la lingua della violenza che pervade la storia americana, dallo scontro con gli indiani alla caccia alle streghe fino alla Guerra Civile" (p.182). Altrove la consapevolezza storica appare ancora più sottilmente mediata, come quando Emily scrive alla cognata Susan, dopo la morte del prediletto nipotino Gilbert, ricordandolo così: "la sua vita era piena di tesori - i giocattoli dei dervisci erano meno stravaganti dei suoi..." (p.282), dove il tocco dal sapore esotico serve implicitamente a datare un evento che risale al 1883, ossia nel bel mezzo del rivolta del Mahdi, quando le schiere sudanesi che avanzavano su Khartoum rovesciando il dominio anglo-egiziano vennero definite mad dervishes, con una classificazione denigratoria che fece il giro del mondo e rimase stampata nell'immaginario occidentale, perpetuandosi, nelle sue variazioni, sino ai tempi odierni.
Anche sotto l'aspetto biografico, dunque, questo libro sovverte il canone agiografico fissato dalla tradizione precedente, che sublimava Emily Dickinson in un alone di immaterialità sospetta. Ora la vediamo a tutto tondo, reclusa ma non rinchiusa, più viva di prima, capace di esplorare con lo sguardo il mondo che la circonda e che lei non trascura affatto. Come tu osservi, "il suo sguardo di donna può cogliere le vicende della storia, decise e messe in scena da uomini, solo di sbieco, come da una feritoia" (p.175).
Mi ha colpito anche apprendere le notizie che tu fornisci sul personaggio di Higginson, del quale ignoravo gli aspetti sovversivi. È illuminante scoprire che Emily si sia così fortemente legata a un uomo associato alle grandi ribellioni della sua epoca: uno che combatte al fianco di John Brown a Harper's Ferry nel 1859 e poi, "nel 1862, prende il comando del primo reggimento della Carolina del Sud, composto interamente di schiavi neri liberati" (p.173). Il rapporto di questa donna con le figure patriarcali così caratteristiche del suo tempo e della sua cultura è complesso e non esente da propositi bellicosi e però seduttivi, mediati tuttavia attraverso il linguaggio e poetico e femminile, fusi insieme. Non è un caso che l'ultimo, fulminante grande amore di Emily sia stato un giudice, figura archetipica del suo panorama culturale e familiare, padre/antagonista sotto il segno della stregoneria.
Di tante altre cose vorrei dirti, come della scelta sapiente delle liriche attraverso cui Emily ci parla, insieme a te. La stratega, qui, sei anche tu, Marisa, che complotti e organizzi scenari insieme al Mito, alla silhouette elusiva della Donna in Bianco che guarda di sbieco, tra le siepi e dal fondo di un sentiero sprofondato nel magico giardin
o di Amherst. Penso che questo libro darà grande gioia ai lettori, vivrà a lungo e servirà a entrare, attraverso i sobborghi, nel cuore del segreto.
Un grazie,
Itala, da Soglio (Bergell), domenica 19 agosto 2001