Marco Restelli

 
Pinuccia Caracchi, RAMANANDA e lo yoga dei sant, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 1999
 
 
 
 
Quello dei Ramanandi è oggi probabilmente il più diffuso e articolato ordine religioso (sampradaya) dell'India settentrionale, e uno dei più importanti dell'intero paese. Il suo prestigio viene confermato ad ogni celebrazione delle maggiori festività religiose, quali il Kumbha Mela, e il nome del loro guru, Ramananda, è venerato in tutto l'immenso bacino di diffusione della Rama-bhakti, la corrente devozionale che vede appunto in Rama la propria divinità d'elezione. Eppure, ai numerosi studi di carattere storico-religioso e antropologico dedicati negli ultimi decenni ai Ramanandi non fa riscontro, almeno al di fuori dell'India, un'attenzione nemmeno paragonabile, in campo indologico, nei confronti di Ramananda stesso. Se a ciò si aggiunge la ben nota labilità delle fonti tradizionali indiane in campo storiografico, non stupisce più di tanto che la personalità storica di uno dei guru maggiormente venerati in India sia a tutt'oggi ancora da definire in molti tratti. E ciò potrebbe spiegare perché il suo nome non compaia fra i lemmi di affermate opere di consultazione, in campo storico-religioso, come il Who's Who of Religions (edited by J. R. Hinnels, London, Penguin, Books, 1996), dove questo guru appare citato solo a proposito di alcuni dei più celebri sant (maestri spirituali) che, durante il cosiddetto medioevo indiano (VIII-XVIII sec.), la tradizione vuole suoi discepoli: Kabir e Raidas.
 
Alla base di tale paradosso sta la questione centrale dell'"enigma Ramananda": fu egli un maestro vaisnava "ortodosso"? O il guru dei sant nirgun (fedeli ad un Dio "senza attributi")? O addirittura esistettero due personaggi con lo stesso nome? Un importante passo avanti per risolvere il quesito e colmare una grave lacuna nel campo dell'indologia occidentale, è rappresentato dal nuovo studio di Pinuccia Caracchi. L'Autrice, docente di Lingua e Letteratura Hindi presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Torino, si era già occupata di Ramananda traducendone in italiano la biografia tradizionale in sanscrito (Vita di Ramananda - Il Rama-nandajanmotsava dell'Agastya-samhita, Torino, Promolibri, 1989); ma nella sua nuova opera si spinge oltre, delineando la figura storica del guru attraverso una comparazione puntuale delle fonti primarie e degli studi storico-religiosi, e presentando la prima traduzione dei canti hindi a lui ascritti. A Rama nanda, vissuto fra il XIV e il XV secolo e attivo sopratutto a Benares (dov'è venerato a tutt'oggi) viene infatti attribuita una gran mole di opere in hindi, fra le quali, com'è noto, un celebre inno incluso nel sacro libro Guru Granth dei Sikh (sul quale si veda anche S. Piano, Canti religiosi dei Sikh, Milano, Rusconi, 19992, pag. 259); l'analisi linguistica, tuttavia, porta Caracchi alla conclusione che
 
(...) l'insieme delle opere hindi attribuite a Ramananda presenta nel suo complesso una mancanza di omogeneità che sembra spiegabile soltanto attribuendone la redazione a mani diverse e a epoche diverse..." (pag. 118)
 
cioè che in sostanza esse siano ascrivibili a suoi discepoli.
Ed è proprio riguardo ai suoi discepoli, alla sua "linea dinastica" di guru (parampara), e al samprada ya che a lui si richiama, che l'opera di Caracchi contiene pagine illuminanti. Riguardo, per esempio, ad una delle figure più note e influenti della Bhakti medievale, il mistico e poeta Kabir, Caracchi (contro l'opinione di C. Vaudeville e in accordo invece con H. P. Dvivedi) si schiera decisamente a favore della tesi che considera "indubitabile il fatto che Ramananda sia stato il guru (o almeno uno dei guru) di Kabir" (pag. 76).
 
Una seconda questione non meno importante è quella relativa alla nascita del samprada¯ ya dei Ramanandi : ebbe origine autonoma o derivò dal più antico e illustre ordine religioso vaisnava dell'India, quello del filosofo Ramanuja (XI sec.)? Per quanto i Ramanandi, per intuibili ragioni di prestigio, da tempo sostengano la tesi della propria autonomia, Caracchi illustra i legami culturali dei Ramanandi stessi con lo Srivaisnava samprada ya di Ramanuja, chiarendo altresì come in Ramananda si debba vedere non il "fondatore", bensì il "capostipite" della corrente che da lui prende nome, in quanto
 
"Ramananda probabilmente si limitò a dar vita a una comunità di discepoli più aperta e meno rigida sul piano della purità, senza alcuna vera intenzione scismatica" (pag. 202)
 
rispetto allo Srivaisnava sampradaya.
E questo ci introduce a un terzo tema: perché la questione della "purità" rimanda naturalmente al diverso atteggiamento dei due sampradaya di fronte al problema castale, problema ricco di implicazioni storico-religiose, ma anche di contraddizioni politiche tuttora aperte nell'India contemporanea. Strappando Ramananda alle interpretazioni "politiche" e "comunitariste" di certa storiografia odierna, Caracchi osserva che
 
le fonti non ci autorizzano a credere [che egli fosse] un rivoluzionario o un riformatore sociale che lottava contro le caste. In realtà Ramananda, accettando fra i suoi discepoli persone d'ogni provenienza sociale, non fece altro che mettere in pratica i presupposti teorici della bhakti contenuti nella stessa Bhagavad-gita, e il suo raggio d'azione in questo campo non andò probabilmente mai oltre la cerchia dei suoi discepoli, anche se ben più vaste furono poi le risonanze del suo agire (pag. 143).
 
E la vastità e la profondità di tali risonanze si devono proprio a quella che Caracchi definisce, delineandola con chiarezza, "la doppia personalità di Ramananda, al tempo stesso aca rya vaisnava e guru dei sant " (pag. 118): è questo il nodo centrale, perché Ramananda, rivestendo di fatto un ruolo di riformatore dell'induismo dall'interno, ovvero in termini non scismatici, divenne anello di congiunzione fra l'universo vaisnava e quello dei sant nirgun, ispirando la nascita di un sampradaya che ha nella propria "apertura" la principale ragione di affermazione in tutta l'India del nord.