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Umberto Zucchi
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Umberto Zucchi - La grande battaglia
 
Collana I salici (narrativa) 14x20,5 - pp. 100 - L. 20.000 - Euro 10,33
ISBN 88-8356-222-4
Prefazione
Capitolo I

Prefazione
 
Capita a volte di leggere storie divertenti che fanno sorridere anche il lettore più serio ma questo racconto di Umberto Zucchi è a dir poco esilarante. In un susseguirsi di avvenimenti che porteranno il sorriso sulle labbra dall'inizio alla fine verremo a conoscenza della più strana delle battaglie mai combattute: quella "alimentare".
L'incontro sognante, o forse reale, con uomini che appartengono ad un ipotetico tempo di Domani ed il protagonista appartenente al tempo di Ieri: divisi logicamente dall'Oggi.
Un fantomatico comando militare di un esercito senza sentinelle sul campo, senza armi militari, tenuto alla fame per combattere al meglio la "guerra".
Una fantasmagorica trasfigurazione del concetto di guerra con due generali a capo degli opposti schieramenti che si fronteggiano avendo a disposizione una linea telefonica speciale per parlarsi e decidere il da farsi nell'imminenza della battaglia.
"La grande battaglia" inizia con una telefonata tra i due generali comandanti gli schieramenti che si contrappongono:
"Quando pensi di iniziare?"
"Fra un'oretta: verso le sette. Siete pronti voi?"
Niente male come inizio di una guerra!
L'umorismo di Umberto Zucchi riesce a mettere in ridicolo l'evento più tragico che l'uomo ha vissuto e lo fa con irriverenza, con derisione ed ilarità, mettendo a confronto la ragione e l'arguzia con la follia omicida delle guerre che l'uomo ha combattuto nel corso dei secoli.
Un'idea che sembra apparentemente semplice ed ovvia ma che in effetti nasconde ben più importanti retroscena.
Umberto Zucchi si muove nella sua storia toccando argutamente tutto ciò che nella normalità non viene toccato anzi risulta quasi estraneo ad ogni sovvertimento perchè illogico: come si può combattere una guerra senza eliminare il nemico per vincere?
Non v'è mai una caduta nella retorica o nel facile buonismo ma solo una grande capacità di riportare tutto nell'ambito della visione umana più razionale che prevede la convivenza in armonia.
"La grande battaglia" è un combattimento a colpi di prosciutto di Parma seguito di tutta risposta con un lancio di prosciutti di Langhirano ma affettato così i soldati affamati da tempo lo possano mangiare più velocemente.
Seguono lanci di speck, arrosti, formaggi grana lanciati con obici da campagna a lunga gittata e contraerea che spara caciotte a mozzarelle mentre le mitragliatrici sparano lunghe strisce di salsicciotti.
Un grande abbuffata che diventa strabiliante quando a mezzogiorno con le motosiluranti sbarcano sulla sponda opposta enormi quantità di lasagne, tagliatelle, maccheroni, ravioli e tortelloni.
Non mancheranno di certo i secondi a base di arrosti, polenta e faraona, tacchino al forno e quant'altro possa offire la miglior cucina.
Possiamo prevedere che il danno maggiore possa essere il ricorso alla lavanda gastrica quando la guerra viene condotta distribuendo cibo anzichè produrre fame e miseria e milioni di morti.
Questa guerra virtuale sostituisce le armi e in un susseguirsi di azioni esilaranti porta a riflettere forse in modo più profondo di qualunque saggio storico sui motivi sociali o politici che hanno portato gli uomini a combattersi e a spargere sangue innocente.
 

Massimo Barile

 
Capitolo 1
 
 
La grande battaglia
 
 
Di tanto in tanto guardava il cielo che era di un azzurro così intenso da confonderlo.
Tentava di ricordare cercando nei suoi ricordi, anche lontani, semmai l'avesse visto altre volte così colorato.
Poi il tentativo di ricerca fallì perché un'aria frizzante gli faceva produrre piccoli brividi di freddo, per fortuna c'erano gli odori del bosco, del prato in cui camminava, profumi di fiori, di pini e desiderio di ricordare il sentiero per uscire da quel bosco: si era perso. Così, si ritrovava in quella piccola radura d'erba, espressa in quel tratto di bosco, la quale tuttavia non gli indicava alcuna via per il ritorno, non ricordando d'averla percorsa prima. Si fermò per guardarsi attorno cercando un punto conosciuto orientativo ma non lo trovò.
Gli alberi erano troppo alti e la radura troppo piccola. Il sole era nascosto ad un lato di quel bosco ma: da dove era sorto? Dove tramontava? Sentendo quelle sbuffate di fresco venticello pensò di capire da dove venissero: dall'alto scendendo dalla collina o proveniva dal basso salendo la collina.
Lo spiazzo di quella radura era pianeggiante sicché stava cercando altri motivi di riconoscimento quando degli uomini uscirono dalla parte del bosco che era alla sua destra.
Lo circondarono e, per un momento ebbe paura: vedeva degli individui che sembravano dei militari in attività addestrativa oppure impegnati in esercitazioni militari oppure no?! Perché? Indossavano tute mimetiche con appiccicati rametti di pino sicché se si accovacciassero sembrerebbero piante di pino in crescita, un piccolo zainetto alle spalle ma, erano magrissimi.
Visi scafati, orbite incavate.
Capì che fossero stati all'ultimo pranzo almeno trenta giorni prima: forse l'ultima cena.
Non erano armati.
Ma allora che ci facevano lì, in quel bosco quegli uomini così mimetizzati, così affamati, così disarmati? I giochi di luce, poca luce, del bosco rendevano quei volti ancora più orribili.
Con voce calma, quasi confidenziale chiesero chi fosse.
Ancora intimorito dalla sua autosuggestione non rispose, non avendo capito, inteso quelle parole.
"Come ti chiami?", chiese uno di loro ed il suo tono di voce era perfino "dolce" non sembrando quello di gente disperata o di fuggiaschi che si nascondevano nel bosco per fuggire a chissà quali reati.
"Non so. Credo di essermi perso", bisbigliò.
"Non sai il tuo nome? Ti sei perso in questo bosco? Se non lo conosci significa che sei un nemico".
"È un nemico ragazzi. Abbiamo catturato un nemico", gridarono in coro tutti i presenti.
"Ma che dite", osservò il disperso. "Chi siete voi? Dei residui dell'ultima guerra?".
La voce si era fatta sicura, forte ed autoritaria, ritenendo di trovarsi di fronte a dei maniaci oppure ad un manipolo di soggetti che trascorrevano le loro vacanze in corsi addestrativi di sopravvivenza ma, da com'erano patiti dovevano essere veramente dei sopravvissuti.
Con quella reazione orale d'autorevolezza voleva ripristinare un codice etico di comportamento.
"Sentite ragazzi, non so come mai mi sono perso in questo bosco, per la verità non ricordo come mai possa trovarmi qui, gli ultimi miei ricordi sono quelli in cui ero in compagnia d'amici, ma mi sembrava fossimo in un casolare. Villa di campagna: mi trovo qui e va beh! Sapete indicarmi la direzione, il sentiero per raggiungere il più vicino paese?".
"Sarai accompagnato da tutti noi. Ci segui pacificamente oppure vuoi essere costretto?".
"Stiamo calmi ragazzi. Non so chi siete e neppure voglio sapere che cosa fate qui. Se vi esercitate in manovre vi dirò che non sono un vostro presunto nemico. So come sono queste esercitazioni poiché anch'io sono un capitano della riserva. Non volevo dirlo perché mi vergogno di essermi perso in un bosco ma deve essere successo qualcosa di traumatico per non ricordare, aiutatemi ad uscire dal bosco e vi ricompenserò".
Vide il volto di quei militari accendersi di una folgorante luminosità seppure uscente da quelle scarne ossa facciali ed ancora tutti in coro gridarono:
"È un ufficiale. Un ufficiale. Abbiamo catturato un ufficiale. Ci aspetterà un premio. EVVIVA".
"Lo dicevo io che non eri un semplice soldato: paffuto ed un poco anche grasso tu non soffri la fame. Devi mangiare a sazietà". Così era convinto quello che lo interrogava sembrando il capomanipolo anche se non aveva insegne e gradi militari.
"Sei degli altri, non dei nostri e sei passato di qua per spiarci: dì la verità?".
Il capitano capì di trovarsi fra soggetti almeno vicini alla pazzia, se non già folgorati da quella situazione fisica maniacale. Dovevano essersi persi anche loro e dovevano avere patito la fame. La sofferenza e l'indebolimento fisico aveva minato anche la capacità di esprimere lucidi ragionamenti logici. - Chissà da quanto tempo erano lì dispersi - pensò; così decise di stare al gioco per non irritarli.
Avrebbe tentato di fuggire o svolgere qualche altra forma di reazione nel momento ritenuto più opportuno, lui era ancora integro fisicamente, almeno si riteneva essere tale, quindi più forte, più veloce, capace di difendersi e di offendere quella gente così "scafata".
"Va bene ragazzi, sono un ufficiale, non vi sono nemico ma tant'è, lo crediate o meno mi appello alla convenzione di Ginevra: portatemi al vostro campo, dai vostri superiori in grado, sono vostro prigioniero".
Contenti di averlo convinto a seguirli, indicarono al capitano di porsi al centro della fila con cui quei militari si erano incamminati per ritornare in sede. Camminarono per un paio d'ore in quel fitto bosco, non solo formati da alberi di pino, d'abeti, ma anche da larici, querce e perfino pioppi e faggi, con un sottobosco piuttosto fitto di vegetazione cespugliosa.
Il capitano cercava di osservare bene quell'ambiente onde ricordare qualche segno così da riconoscere in quale zona di regione si trovasse, rimanendo nitido solo l'ultimo ricordo: quello in cui era in un casolare di campagna in compagnia d'amici.
Finalmente si arrivò al campo, era proprio un vasto attendamento, ne fu sorpreso. Anche e proprio perché non capiva come mai quegli uomini fossero così patiti in volto ma anche con evidenza nel corpo, tutti seppure mascherato all'interno della tuta mimetica.
Non era possibile che tanti uomini, quali e quanti dovevano essere in quel campo, patissero tutti la fame, non solo, ma in quelle due ore di camminamento in un sentiero a volte risalente anche per lunghi tratti, oltre a delle discese ripide che quasi facevano scivolare lui e la lunghezza del percorso stesso, neppure un attimo di sosta fecero e nessuno di loro ansimava. Lui, invece sì, si stancò e ansimava tuttora.
Tuttavia continuava a notare facce e fisici cerei, quantomeno anemici più espressioni di malati che visi di soldati atti a combattere... combattere chissà quali nemici.
- Forse - pensò - saranno uomini scelti per provare su di loro eventuali scoperte scientifiche. Chissà! Vedremo -
Si arrivò alla grande tenda dove era il comando, presunto tale, di quella armata di morti di fame: così la battezzò lui, il capitano.
Lo fecero sostare davanti all'entrata della tenda, in attesa di essere presentato a qualche ufficiale, magari lì, all'esterno della tenda oppure anche al suo interno.
Il capomanipolo entrò. Gli altri attesero fuori schierati sull'attenti, in fila frontale all'entrata stessa della tenda, dopo un paio di minuti uscì il comandante: era niente popò di meno che un generale. Riconoscibile dai tanti gradi e dalla sua corporatura robusta, niente affatto famelica; alto, anche grassottello, dovendo pesare certamente oltre i cento chili, con baffi lunghi, bianchissimi o meglio, grigio bianco.
Guardò il prigioniero, lo squadrò bene. Sembrava tentare di ricordarlo, infatti, come generale conosceva tutti gli ufficiali dell'esercito nemico, ma quello gli sfuggiva.
"Bravi ragazzi, bravi. Vi aspetta un premio, disporrò per voi una licenza straordinari per alti meriti di guerra. Andate pure a riposare: bravi, bravi ragazzi".
Con ancora più sorpresa del capitano che già non capiva le parole: per alti meriti di guerra, si vide essere rimasto solo con il generale comandante in capo di quell'esercito che si riteneva essere in guerra con qualcuno, presumibilmente con qualche altro esercito, nessuna guardia armata a proteggere il generale.
- Certo che si sente al sicuro - pensò il capitano.
"Entriamo prima nella mia tenda, capitano. Parleremo con più tranquillità e semmai mangeremo "qualcosa". Avrà certamente fame ed anche sete". Entrarono. Il generale si sedette al di là dell'ampio tavolo su cui era tracciato il disegno di una vasta zona di territorio e dove erano evidenti due accampamenti posti l'uno di fronte all'altro, divisi da un fiume che attraversava esattamente a metà della zona disegnata.
Per un militare sbirciare una pianta, dove si indicano schieramenti di truppe, loro collocazione visibilmente chiara dell'ambiente e cioè boschi, monti da una parte e mare dall'altra parte dello schieramento, sbirciare era istintivo, naturale.
Così fece il capitano nell'attesa di essere invitato a sedersi al di qua del tavolo. All'invito di accomodarsi così fece il capitano.
"Sicché lei è un capitano. Si vede, si vede che certamente lo è. Ma mi dica perché si trovava al di qua, da "noi"? Che bisogno c'era di venirci a spiare: sapete e sappiamo noi di voi, delle truppe, delle dislocazioni: aspettiamo solo di decidere l'ora dell'attacco e sarà la guerra".
"Senta signor generale: con lei posso essere franco e presumo possa credermi, sono un capitano delle riserva ma noi, il mio paese, non si trova in guerra con nessun altro paese e, non capisco il perché lo siate voi. Non so neppure perché mi trovo qui. Presumo di essermi perso nel bosco ma non so dire il perché e come sia successo. Vorrebbe lei farmi uscire da questo equivoco?".
"Vuol dire che lei non è uno "degli altri"?".
"No, sono io e mi sono perso".
"Capisco, capisco. Lei è fortunato. Sa perché?".
"No, me lo dica lei. Fino ad ora non mi sembra proprio di esserlo".
"Lei è fortunato perché sono l'unico a capire della sua provenienza, non so il perché e come sia arrivato fino a noi ma lei è un abitante di terre oltre il confine".
"Oltre il confine? Quale confine? Conosco tutti i popoli e nazione della terra e non mi risulta esserci uno Stato vicino a casa mia, o meglio vicino all'abitazione del mio amico, su da bravo generale, mi dica dove siamo veramente e quale scherzo mi hanno giocato gli amici: il gioco è bello quando è breve".
"I confini del tempo: tu appartieni al tempo di Ieri e noi siamo il Domani, ci divide l'oggi; è quello il confine tra Ieri e il Domani".
"Già, e mentre stiamo parlando ciò che diciamo diventa Ieri appena detto. Sei un filosofo scarso, generale. Torniamo alla realtà: che ci faccio qui?".
"Mi piaci. Diventeremo amici, anzi non ti chiedo quale sia il tuo nome: ti chiamerò Ierino. Vuoi sapere dove siamo, o meglio dove sei? Vieni".
Uscirono dalla tenda. Il capitano osservò che non c'erano sentinelle all'esterno come ogni comando militare di qualsiasi esercito ha sempre, sia si trovi in edifici solidi quali sono le caserme, sia si trovi sul campo d'operazioni militari.
Già aveva osservato che l'interno della tenda era disadorno. Non c'erano aiutanti di campo, neppure armi di nessun genere. Solo quel lungo e largo tavolo con disegnato sopra i due campi di battaglia, almeno così presunti, perché si vedevano disegni di attendamenti divisi dal fiume. Anche i presunti militari che si vedevano camminando fra le tende non avevano armi di sorta, tuttavia erano come quelli che lo avevano catturato: tutti scarfati, pelle ed ossa, sembravano colpiti da anoressia.
"Che ne dici di questi soldati? Sei capitano e te ne intendi di uomini, che te ne pare?".
"Chissà dove era veramente. Chissà cosa gli era successo?", pensava il capitano, parendogli il tutto un incubo o chissà quale scherzo.
Così rassegnandosi accettò di stare al gioco, sperando fosse un sogno e che presto si sarebbe svegliato. Sapeva che non bisogna mai opporsi ai sogni nemmeno quelli "brutti", poiché tanto prima o poi ci si sveglia.
Del resto quel sogno era strano ma niente affatto brutto.
"Mi scusi generale: lei vuole fare una guerra con simili truppe? Sembrano tutti dei morti di fame o meglio, dei futuri morti di fame".
"Sapevo che lei se ne intende di uomini e mi avrebbe detto la verità ma, capitano diamoci entrambi del tu, fra noi ufficiali ce lo possiamo permettere. Con questi uomini sono certo della vittoria finale. Lei me ne ha dato conferma".
"Ma la guerra la farà lei, mi scusi la fai tu? Sei l'unico finora che ho visto fisicamente "eccessivamente normale"".
"Dì pure grasso. Oppure più diplomaticamente, robusto. Io sono generale in capo ed ho diritto di mangiare, il diritto l'ho meritato sul campo. Ti dirò della mia carriera poi, magari quando giocheremo con i soldatini di piombo e rifaremo le grandi battaglie che si sono combattute nella storia degli eserciti di Ieri. Le conosci vero?".
"Certamente. Ti dirò che mi sono permesso di rievocarle nascostamente dai miei figli e da mia moglie perché mi piacciono i soldatini di piombo. Sarà infantile ma rievocando quelle battaglie mi rilasso e libero la fantasia così facendo scomparire ogni condizione di stress o di nevrosi: accetto".
"Vedi capitano, sei capitato nel bel mezzo di un quasi immediato scoppio di un conflitto. Gli altri ci vogliono invadere ed i tempi per farlo sono oramai prossimi, ciò perché altrimenti andrebbero in malora tutte le loro scorte, anche le nostre, sicché se non aprono le ostilità loro, lo dovremo fare noi".
"Perché siete costretti a farlo voi? Se non vi attaccano si vede che riconoscono la vostra superiorità. Potete così vivere in pace stando all'erta, addestrati e forti negli uomini e negli armamenti, insomma una pace armata ma sempre pace è".
"Ma dico, sei un militare tu? Non ricordi cosa ti hanno insegnato alla scuola di guerra? Se il nemico è debole devi attaccarlo tu, così lo vinci, lo sconfiggi. Altrimenti lui avrà il tempo per rafforzarsi e diventare lui il più forte. Mai lasciare il vantaggio al nemico".
"Scusa generale, ma perché volete a tutti i costi fare la guerra. Quali sono le ragioni che vi spingono a farvi reciprocamente la guerra?".
"Ma tu non ragioni da militare, capisco perché sei solo capitano della riserva. Vedi capitano, la guerra, le guerre sono il lavoro necessario per un soldato. Per mantenere gli eserciti. Se non ci fossero le guerre noi saremmo tutti privi di lavoro, dovremmo andare a lavorare in qualche ufficio, in qualche fabbrica, in qualche cantiere o nei campi agricoli, ciò sarebbe disdicevole per un guerriero.
Le guerre ci vogliono, i giovani le vogliono, le ragazze le vogliono. Un bel militare da baciare, da essere stretto fra le loro braccia. Da sognare come padre dei loro figli, forti, gagliardi, come i loro padri.
E poi la festa della vittoria. L'orgoglio di raccontare le gesta che sono sempre epiche, pericolose, ardimentose. Poter dire: "C'ero anch'io. Ho combattuto ed abbiamo vinto. Vedrai che festa ci sarà quando vinceremo"".
Il capitano ascoltò in silenzio, compatendo quell'uomo che si diceva essere generale. Generale di un esercito di morti di fame, di cui ne andava orgoglioso.
"Non ho visto altri ufficiali, né di grado superiore, né di grado inferiore e neppure sottufficiali. Come intendi guidare la difesa e poi l'attacco di questa presunta futura guerra?".
"Ci sono, ci sono. Gli ufficiali stanno banchettando, sai devono avere la forza di resistere allo stress della battaglia, i sottufficiali assieme ai graduati di truppa preferiscono dare l'esempio ai loro soldati e digiunano con loro".
"Non capisco: i soldati che dovrebbero combattere, sostenere l'urto del nemico oppure andare all'assalto, fanno digiuno, quelli che "ordinano" stanno banchettando, vuoi dirmi perché?".
"Sbadato che sono. Mi ero dimenticato di dirti che noi non usiamo le armi di una volta. Di Ieri. Oggi le guerre si fanno con altri strumenti: vedrai, vedrai".
"Avete strumentazioni elettroniche? Ma armi od altri strumenti strani non ne vedo".
"Abbiamo strumenti naturali, genuini, desiderati".
"Non farete mica a pugni, oppure usate le fionde?"
"No, no. vedrai, vedrai. Rimarrai sorpreso".
"Ma chi è il vostro nemico?".
"Gli altri. Quelli che stanno al di là del fiume".
"Perché ce l'hanno con voi? Che gli avete fatto?"
"Niente. Loro vogliono venire da noi o noi vogliamo andare dagli altri, da loro e viceversa. T'ho detto, sono guerre che almeno una volta all'anno si devono fare, che tutti aspettano di fare e si addestrano per farle. Le guerre. Guai se deludessimo le loro attese".
"Non capisco. Tu e l'altro comandante in capo degli altri, vi mettete d'accordo per fare la guerra almeno una volta all'anno? Ed il popolo desidera ciò? Ma siamo matti. I politici che dicono perché una guerra la si deve finanziare e costa, anche se la combattete con la fionda".
"I politici sono d'accordo con noi dovendo accontentare il popolo che li elegge".
In quel momento arriva un sottufficiale e riferisce al generale che delle scaramucce sono scoppiate ai limiti estremi del campo con delle pattuglie avversarie.
"Bene, bene. Sono ottimi segni, massimo un paio di giorni e sarà l'inizio della battaglia. Questa sera unirò il comando e rifiniremo il piano sia quello di difesa sia quello di attacco. Verificheremo le scorte e lo stato dei soldati. Vuoi essere presente anche tu? Così capirai e, se vuoi potrai suggerire eventuali tue strategie".
"Va bene, ci sarò. Permetti che vada a riposarmi almeno per un paio di ore: sono piuttosto stanco e c'è da restare svegli stanotte".
"Sì, sì. Ti faccio accompagnare dal sergente. Anzi se vuoi puoi cenare anche".
"Dopo il riposo, dopo. Non ho fame ora".
"Bravo. Stai dando anche tu un magnifico esempio di giudizio. Bravo, bravo".
Dormì più di un paio d'ore e quando si svegliò era già sera inoltrata, chiese l'ora e così si accorse della sua lunga dormita.
"Perché non mi avete svegliato?".
"Non abbiamo ricevuto nessun ordine e noi ubbidiamo solo agli ordini, signor capitano", rispose il sergente, quello stesso che l'aveva accompagnato nella tende dove era un pagliericcio su cui l'ufficiale ospite dormì. Si guardò attorno e chiese: "Ho dormito qui?".
"Sì, signor capitano".
"Dovevo essere veramente stanco. In quanti dormono qui?", chiese, osservando altri pagliericci.
"In quindici, me compreso. Il generale ci ha detto che noi sottufficiali dobbiamo essere d'esempio per la truppa, la quale deve avere fiducia in noi, credere in noi. Solo così ubbidirà senza discutere e sarà pronta, totalmente, ciecamente a...".
"A combattere", finì lui l'ultima frase.
"Combattere? Non capisco. Siamo soldati noi", ribatté il sottufficiale.
"Il generale ha dato l'ordine di portarvi da lui quando vi foste svegliato. Se volete seguirmi, signor capitano".
Il capitano ospite seguì il sottufficiale nel mentre usciva dalla tenda scosse il capo in segno di incomprensione sia perché in un'ultima occhiata all'interno della tenda riscontrò che non vi erano armi di sorta ma solo pagliericci in nudo terreno, sia perché non capiva quel ribattere sulla parola "combattere" che il militare fece. Così si ritrovò a ripensare alla famosa frase storica o forse era un motto, non ricordava bene, ma le parole erano proprio: credere, ubbidire, combattere.
"Che strano esercito. Avranno delle armi sconosciute, tecnologicamente fantastiche che tengono segrete in qualche parte del campo. Mah! Vedremo", pensò il capitano.
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Prefazione del libro"Il mio uomo"
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Inserito il 12 ottobre 2001