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LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
  Racconti di
Rosa Maria Corti
ADUNATA
 
Era una formazione straordinariamente compatta quella che in molti videro avanzare nel cielo, a ridosso delle Alpi, in un tiepido mattino d'autunno. Considerata la stagione gli adulti dedussero che si poteva trattare di beccacce, ma i bambini, che hanno la vista più acuta, si accorsero subito che non si trattava di uccelli. Eh sì, proprio così, quella che avanzava verso oriente era un'enorme schiera di copricapo, tutti quanti guarniti da penne nere, (forse erano state proprio queste ultime a trarre in inganno i grandi).
Ora dovete sapere che una bambina, forse più curiosa di altri o, semplicemente, più sola, decise di unirsi a quell'insolito stormo e, prova e riprova, dopo essersi infilata nell'abitino di lana dai mille colori una penna qui e una penna là, (le gazze vanitose le cambiavano spesso nel suo giardino), aperta la finestra della sua cameretta, cominciò a sbattere le braccia nell'attesa di un potente soffio di zefiro, il vento di ponente, che l'avrebbe portata in quota.
Così avvenne e Iris (così si chiamava la bambina che in verità già da un po' si esercitava a volare) in poco tempo raggiunse la formazione.
Quando i cappelli la videro non si stupirono più di tanto poiché raramente avevano pronunciato la parola "impossibile". Uno di loro, in quel momento si trovavano al confine tra Francia ed Italia, a questo proposito, raccontò del suo tenente che, nel lontano 1896, invitato scherzosamente dai Francesi a brindare, con un balzo superò il tetro burrone largo cinque metri che separava le due nazioni; poi, vuotato il calice e salutati militarmente i Chasseurs des Alpes, con una bella rincorsa rifece quel salto incredibile e ritornò sul suolo patrio.
Mentre i cappelli così chiacchieravano amabilmente tra loro e si spostavano verso la Svizzera, Iris guardandosi intorno si accorse che non erano affatto tutti uguali. V'erano, infatti, cappelli di feltro nero di forma tronco conica, guarniti da una fascia di cuoio nero, da una stella a cinque punte di metallo bianco e da una coccarda tricolore; altri, invece, al posto della stella avevano un'aquila incoronata appoggiata su una cornetta sovrapposta a due fucili. La maggior parte però erano di feltro grigio verde con un'aquila in volo ricamata in filo ed una nappina di vari colori: bianca, verde, rossa. Tutti, proprio tutti, avevano una penna nera, in verità spezzata in due, mozza.
Questo fatto stupì un poco Iris che però non osò fare domande ai nuovi amici sembrandole di essere indiscreta.
Intanto vola e vola i cappelli erano transitati per il passo del San Gottardo, avevano passato lo Spluga e si avviavano a scendere in Valtellina. Il paesaggio era come quello delle fiabe, con i monti incappucciati dalla neve, le baite raggruppate a proteggersi reciprocamente, un laghetto azzurro ed una moltitudine di piccoli fiori che avevano i colori dell'autunno.
I cappelli che avevano il cuore tenero avrebbero voluto raccoglierne un mazzolino e donarlo alla bambina ma non c'era tempo, allora, per consolarla, intonarono una bella canzone che subito il vento, attraverso gole dirupate e balze ripide, portò giù nella valle, disperdendola sui sentieri fino alla pianura. Le parole vennero udite da altri cappelli che prontamente si levarono in volo e si unirono al gruppo. Fra questi ve n'erano alcuni un po' frusti, sfilacciati, bucati e Iris, preoccupata, chiese loro se stessero bene.
"Sai come succede...", rispose l'ultimo arrivato, "quando nel bosco un tronco pesa e fa male alle spalle, sotto il cappello! Quando sui ripidi pendii pesa la gerla, sotto il cappello! Quando i bambini giocano alla guerra e tutti vogliono fare il comandante ma uno solo è il cappello, chi va di mezzo? Il cappello! Ma non preoccuparti, abbiamo le ossa dure che hanno sopportato ben altre fatiche e sventure.
Poi il cappello tacque. Nella sua mente si erano affacciati tanti dolorosi ricordi: gli automezzi fermi, bloccati dalla neve, le marce a piedi, il gelo condensato in ghiaccioli attorno alla bocca, le incursioni dei carri armati russi, gli scontri tra le isbe, le grida di chi invocava aiuto, la fame, la stanchezza, lo sfinimento...
" Il vecio, il capo, Toni Cantore!"
Queste parole, pronunciate all'improvviso, con foga, quasi gridate, distolsero il vecchio cappello dalle sue riflessioni ed egli, prontamente, si spostò per fare largo ad una "penna bianca" appena arrivata. Era una sorta di leggenda questo cappello e tutti lo guardavano con rispetto.
"Avvanti, avvanti, non perdete tempo a guardarmi, facciamo presto, andiamo!" disse con il suo inconfondibile accento e si mise alla testa della colonna come era sua abitudine di comandante, quando trascinava gli Alpini con l'esempio ed il coraggio.
Sorvolarono l'Engadina, Innsbruck, il Brennero, Bolzano, Trento, Bassano; furono infine a Gorizia, a Redipuglia, il luogo del raduno.
Planarono dolcemente, la penna tesa come una bandiera e si mescolarono a tanti altri cappelli.
" Sono proprio tanti", pensava Iris, "una massa enorme".
In effetti, tutti i battaglioni, tutti i reggimenti, tutte le divisioni erano presenti. Qualcuno aveva dovuto volare più di altri (si sa, la steppa russa ed il deserto africano sono lontani) ma erano arrivati tutti ed iniziarono ad avanzare compatti come una valanga.
Sfilarono le penne nere della sfortunata battaglia di Adua; sfilarono le penne nere che furono in Libia sulle brulle colline di Derna, a Sidi Garbaa, a Cirene; sfilarono le penne nere della grande guerra e, mentre i saggi "veci" e gli irruenti "bocia" avanzavano, cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, lacrime del cielo per coloro che avevano combattuto in mezzo alla tormenta e al rombo del cannone, dopo aver marciato nella neve, trascinato i pezzi dell'artiglieria a forza di braccia lassù dove nemmeno i muli riuscivano ad arrivare, dopo aver trasportato persino i sacchetti di terra per costruire un riparo dove la montagna non ne offriva di naturali.
E mentre il Col di Lana, il Monte Nero ed il Monte Ortigara rivivevano in quei cuori, monumenti perenni ad una storia scritta col sangue su tutte le cime delle Alpi, nel silenzio, davanti all'enorme cimitero di guerra, rimbombò come il tuono della valanga il richiamo del generale Martinat, rivolto agli uomini della Tridentina, della Julia, della Cuneense: "Alpini, con me, avanti".
E gli Alpini avanzarono con il loro passo eguale, cadenzato, da montanari, ricordando il tremendo fango albanese, il fronte greco, il Ponte di Perati, la Vojussa insanguinata. Passarono quelli del Cervino, più numerosi seguirono quelli del "secondo" Cervino, caduti nella steppa russa, a Rossosch. Passarono i battaglioni del primo, del secondo, del terzo, del quarto reggimento. Passarono i lombardi del quinto, Battaglioni Morbegno, Tirano, Edolo, il meglio delle valli lombarde. Sfilarono proprio tutti e sembravano dimentichi del loro calvario, del gelo, della fame, dello sfinimento, della disperazione, alla ricerca di una via d'uscita dalla maledetta sacca in cui i russi li avevano intrappolati, sembravano dimentichi della prigionia nei lager, del disprezzo del nemico. Si motteggiavano, parlavano di contrabbando, di prati da falciare, cantavano canzoni in cui si mescolavano il dolore, l'amore, la nostalgia della casa, il ricordo di un bacio, della ragazza lasciata in valle, delle battaglie combattute.
Quanti canti ascoltò Iris quel giorno, poi, le voci tacquero, l'adunata terminò e tutti i cappelli si apprestarono a fare ritorno nel "Paradiso di Cantore". Sapendo che a casa non avrebbe trovato nessuno ad aspettarla (i genitori erano sempre più impegnati dal lavoro), la bambina non voleva rassegnarsi ad abbandonarli. Aveva sentito le loro voci, aveva dato loro un volto, preciso, vero, aveva conosciuto in poco tempo emozioni, sentimenti, parole nuove, il senso della solidarietà.
Si arrovellava il cervello alla ricerca di un modo per rimanere per sempre con loro. Si ricordò che per i suoi amici niente era impossibile e allora con le sue manine si avvinse stretta all'ultimo cappello che si stava levando in volo.
Alla fine il prodigio si compì. Iris sentì il suo corpo bagnato dalla pioggia che diventava leggero, si allungava, si tendeva, si curvava. Chiuse gli occhi e quando finalmente trovò il coraggio di riaprirli si accorse che i suoi piedini erano rimasti sulla terra, lontani, la testa invece toccava le nuvole in cielo ed il suo corpo era un ponte colorato che univa questi due universi.
Iris sorrise mentre il vento asciugava il suo vestitino di mille colori e le sussurrava: " D'ora in avanti i messaggi degli Alpini sarai tu a portarli a tutti i bambini".
 

Racconto pubblicato in "Una fiaba per la montagna" G.S. Editrice 2003


MAMUSCA
 
 
Era l'inverno del 1942: dopo una lunghissima marcia di trasferimento eravamo finalmente giunti al nostro caposaldo, in riva al Don.
Davanti agli occhi non avevo che le rovine di un villaggio, il bianco della neve, il grigio delle canne palustri irrigidite dal gelo; nella mente, nel cuore, il profilo delle mie amate montagne della Valle Intelvi, dove falciavo prati e custodivo mucche. Ogni tanto facevo anche qualche "viaggio" oltre il confine. Per questo motivo nel mio battaglione, il Morbegno, gli alpini mi avevano soprannominato sfroos 1 e, la sera, mentre tenevamo d'occhio il caposaldo dei russi sull'altra sponda del fiume e insieme fumavamo una Milit 2, raccontavo storie di bricolle 3, di strüse 4, d'inseguimenti, di ragazze che ci tenevano bordone, fino a quando si facevano sentire i morsi della fame. Allora uscivamo dai camminamenti e andavamo a frugare, speranzosi, nei rifugi davanti alle isbe bruciate, dove i contadini russi proteggevano dalla luce e dal gelo patate, cavoli e barbabietole da zucchero.
Il più delle volte non si trovava nulla e allora non ci restava che sognare le nostre baite, il latte appena munto, un bicchiere di vino fresco di canvetto 5 e una fetta di polenta calda.
Fame e freddo sembravano aumentare ogni giorno di più, anche se erano sempre meglio delle pattuglie russe che tentavano azioni di sorpresa, delle pallottole di mitragliatrice che ci piovevano addosso come grandine e dei colpi di mortaio che sbriciolavano il terreno e bucavano l'acqua ghiacciata del fiume. Che sconquasso quando rispondeva la nostra artiglieria con i suoi mortai!
Si andò avanti così fino a quando i Russi, dopo aver sfondato le linee rumene ed ungheresi, riuscirono ad intrappolarci in un'enorme sacca. Cominciammo allora a ripiegare cercando di rimanere uniti e di portare con noi quanto più possibile di viveri e di munizioni. La debolezza, il gelo, il nemico, ci azzannavano con i loro artigli ogni giorno di più, costringendoci ad abbandonare molto materiale e purtroppo anche i nostri compagni caduti nella neve che gridavano e ci chiedevano aiuto che, seppure col cuore straziato, non potevamo dare loro poiché non avevamo slitte su cui poterli caricare.
Andavamo avanti attraversando balche 6, paludi e fiumi gelati, seguendo la colonna col volto coperto da un passamontagna che non riusciva a difenderci dal gelo, ombre scure in un inferno bianco dove, ormai, ci si poteva riconoscere solo per la voce. Quando dalla steppa si levava il vento forte di tormenta si barcollava come ubriachi, si gemeva come punti da sciami di vespe. Una notte mi accorsi di essermi perso nella bufera. Disorientato e solo, con i piedi doloranti, tanto da camminare a stento, andavo avanti col pensiero di potermi riposare, di poter mangiare, senza altra certezza all'infuori di quella che la mia baita sui monti di Ponna, la mia casa, mia madre, erano lontane.
Pensavo alla cartolina con l'immagine del presepe e di Gesù Bambino che ella mi aveva spedito per Natale e alle parole che mi sussurrava quando ero bambino: " Nella legge del monte è scritto che ogni fatica abbia un premio" e piangevo. Mi rivedevo bambino mentre salivo l'erta del prato con la gerla così carica di concime che sembrava voler spezzare le gambe. Dopo, quando finalmente arrivavo in cima e la scaricavo, tornava leggera ed io, senza l'oppressione del peso sulle spalle mi precipitavo giù a corsa pazza sentendomi come le ali ai piedi. Anche in quei momenti avrei voluto correre ma riuscivo soltanto a trascinarmi stancamente mentre pensavo: "Mio Dio, fai che resista ancora" e avrei voluto buttarmi sulla neve a sognare il caldo del focolare, il suono dei campani, il profumo del fieno appena tagliato, lo scrosciare del torrente. Ma andavo avanti, anche se sempre più lentamente, tormentato dal dolore ai piedi, oppresso dal freddo tagliente, dalla stanchezza, dalla fame.
All'improvviso, dopo aver superato a fatica un avvallamento, mi trovai davanti ad una piccola isba dove brillava un incerto lumino. La raggiunsi. Bussai. Si affacciò sulla porta una donna russa, osservò per un istante il mio cappello d'alpino con la penna, poi mi sorrise e mi fece cenno d'entrare. Aveva il sorriso di mia madre. Entrai e la mamusca7 in silenzio mi aiutò a svestirmi. Si prese cura di me come di un figlio; disinfettò i miei abiti, mi diede da mangiare frittelle di patata e zuppa calda e infine mi porse un paio di valenchi, i famosi stivali di lana pressata, senza cuciture e molto caldi che volli subito infilarmi nonostante i dolori. Poi mi sdraiai sul pavimento dove vi era della paglia e, finalmente, nel caldo dell'isba mi addormentai sognando la capanna del presepe ed il Bambino nella sua culla di legno che dormiva col viso illuminato da un raggio di luna.
Dormii molto a lungo e quando mi risvegliai cercai invano la mamusca. Provai a chiamarla ma nessuno mi rispose: era scomparsa.
Ripresi allora la ritirata col pensiero a quanto era avvenuto quella notte. Mi sembrava di avere sognato ma avevo i valenchi ai piedi e, anche se il freddo era ancora insopportabile, l'ansia e l'angoscia erano scomparse.
 
1 Sfroos. Da sfrosare, ovvero esercitare il contrabbando, attività diffusa nei paesi di confine
2 Milit. Sigarette molto forti che venivano solitamente distribuite ai soldati.
3 Bricolle. Contenitori di sacco sostenuti da due rametti di nocciolo snervati ed attorcigliati che contengono merci per un peso di oltre 30 chilogrammi. La bricolla veniva trasportata a spalla, da qui il termine spallone, sinonimo di contrabbandiere.
4 Strüsa. Traccia.
5 Canvetto. Piccola cantina
6 Balca. Avvallamento.
7 Mamusca. Mamma.

Menzione per il simbolo universale della maternità 2° Premio Letterario Nazionale "E. Trione"

 

Il cantore di Natale
 
 
Un velato sole di Dicembre era ormai scomparso da un pezzo e nell'aria fredda le ombre erano scese a fugare la pallida luce dell'ovest che aveva indugiato sui muri delle cascine.
Allora dal minuscolo campanile della chiesetta di Erbonne si propagò il suono dell'Angelus e i rintocchi salirono attraverso la Val Breggia fino all'Alpe e al passo di Orimento e si diffusero anche oltre il confine svizzero verso Scudellate e Muggio.
In quell'inverno del 1915 la neve era venuta presto e ce n'era talmente tanta che per andare alla fontana del lavatoio bisognava camminare dentro una bianca trincea orlata di lucenti merletti e cristalli che parevano capolavori di traforo. Così per andare di casa in casa, per raggiungere l'unica osteria.
Ma, in quell'ora di attesa, di Vigilia, quei sentierini stretti scavati dentro un bianco candore s'erano di colpo svuotati: anziani, donne e, ultimi, i ragazzini con le guance arrossate dal gelo, si erano ritirati nelle loro abitazioni lasciando fuori degli usci i primi fiocchi di neve che vorticando scivolavano lentamente verso terra.
Nel silenzio greve di malinconia che era calato sul piccolo paese nemmeno la presenza amica del Monte Generoso sembrava di conforto a coloro che avevano figli o mariti al fronte. A tutta la comunità sarebbe mancata in particolare la presenza di Pietro che aveva il dono di saper consolare tutti e una bellissima voce; senza di lui il canto della mezzanotte sarebbe sembrato spento e l'armonium sarebbe rimasto muto.
Sandro e Maria nella loro baita all'Alpe di Gotta, al centro di una grande conca prativa situata a circa 1200 metri di altitudine, sorridevano finalmente contenti per essere riusciti, invero dopo aver molto insistito, a convincere la loro mamma a lasciarli scendere a Erbonne dai nonni paterni. Fra questi ultimi, d'origine svizzera, e i nonni materni, d'origine italiana, c'erano stati in passato forti screzi per via di un campo di patate e di un bosco maldivisi. Anche se non erano una novità queste storie in quel piccolo lembo di terra dove tutti erano imparentati fra loro, (pochissimi, infatti, erano i cognomi che si potevano leggere sulle lapidi del piccolo cimitero, per lo più Cereghetti e Puricelli), la giovane donna non riusciva a metterci una pietra sopra. Ma, si sa, anche in guerra vengono ordinate delle tregue e per la notte di Natale Teresa decise di accontentare i figli che volevano vedere il presepe fatto dal nonno e speravano in una licenza miracolosa per poter ascoltare le dolci melodie del cantore di Natale. Pietro, infatti, che sapeva suonare l'armonium, aveva una voce sonora che incantava tutti, grandi e piccini, ciascuno nel suo canto udiva le parole desiderate, il conforto sperato ed era come se, dimenticata ogni offesa ed affanno, tutta la comunità si allacciasse in un unico abbraccio.
Nel primo pomeriggio dunque i bambini partirono contando di giungere dai nonni prima del tramonto del sole. La mamma sarebbe rimasta nella baita per accudire all'ultimo nato, mentre il padre avrebbe badato alle mucche, alle pecore, alle capre, che abbisognavano d'altrettanto amore e che producevano tante cose necessarie alla famigliola che era destinata ad ingrandirsi ancora.
Arrivati al valico detto "Barco dei Montoni" Sandro e Maria, che avevano percorso la ripida salita a passo sostenuto, si fermarono a prendere fiato ma, recuperate in breve le forze, incominciarono a giocare.
Il sole faceva luccicare la distesa immacolata del pascolo e fu divertente osservare le evoluzioni di uno scoiattolo sui rami di un larice, leggere sulla neve, come fosse il sussidiario di scuola, le orme dei selvatici e seguire quelle di un capriolo forse alla ricerca della corteccia di maggiociondolo, per lui gustoso nutrimento dell'inverno, imitare il "crit crit" dello scricciolo, gettarsi l'urlo ed ascoltarne l'eco mentre si perdeva lontano.
Quando Sandro si accorse che s'era fatto tardi decise di prendere una scorciatoia che, dopo aver superato alcune radure dove nel mese di luglio egli andava con la sorellina a raccogliere mirtilli, s'inoltrava in ripida discesa nel bosco.
 
 
Al posto di vedetta sopra il Gavia, il giovane alpino Pietro in quella vigilia di Natale osservava la vallata sottostante bianca di neve e pensava ai suoi cari, alla sua casa, al suo villaggio, piccola frazione del comune di San Fedele Intelvi, in cui ci si conosceva tutti, dal bambino più piccolo al pastore più anziano. Com'era lontano ciò che amava di più e che gli apparteneva. In quei mesi in cui s'era assoggettato ad ogni sorta di fatica con la stessa umiltà con cui si avviava alle fatiche dei campi e dell'alpe, aveva però imparato a comprendere il senso tragico della vita e il pensiero della morte gli si affacciava alla mente senza procurargli angoscia.
Una cosa gli dispiaceva: di non poter occupare in quella notte santa il suo posto in chiesa, accanto all'armonium. Gli sembrava di vedere il banco dove sedevano le donne del coro, di sentire il fruscio delle loro vesti, i bisbigli dei bambini, ma era solo la voce del vento che annunciava l'arrivo della tormenta. Così, quando Pietro si sporse dal suo appostamento per controllare se stessero salendo i portatori con i muli carichi di rifornimenti e le lettere dei parenti lontani, confuse quella voce col sibilo della pallottola che lo colpì in fronte.
 
 
Sandro e Maria scendevano velocemente sulla neve ghiacciata che scricchiolava appena sotto il peso leggero dei loro corpi quando ad un tratto una nebbia grigia prese a discendere dalla pineta del Monte Generoso che s'erano lasciati alle spalle e fu subito un mulinare di fiocchi, di grani di neve rabbiosi che picchiavano con forza sul viso. In breve le nuvole furono ai piedi dei due piccoli, li avvolsero e oscurarono tutto.
"Così ci perderemo" disse Maria con un accenno di pianto nella voce.
"Non avere paura" rispose Sandro aggiustando alla sorellina il passamontagna di lana grezza fatto dalla nonna, "presto arriveremo ad Erbonne". In realtà non ne era così sicuro. Si sentiva colpevole per essersi attardato nel gioco e gli tornavano alla mente certi spaventosi racconti fatti dai pastori più anziani, senza contare che tutto quel buio lo aveva completamente disorientato.
Continuarono a camminare senza sapere se quella seguita fosse la direzione giusta. Intanto le ore passavano.
"Sandro", piagnucolò Maria, "ho le mani e i piedi gelati".
"Non preoccuparti, adesso ci ripariamo in quella grotta che ci ha mostrato papà dove un tempo si rifugiavano gli orsi con i loro piccoli e facciamo quella "conta" che ti piace tanto".
Sandro però sapeva che la grotta era molto più in alto, lontana da loro che si erano sicuramente persi nella bufera di neve.
All'improvviso, come ad una muta invocazione d'aiuto, davanti ai due bambini si materializzò un'ombra possente.
"Oh, ma è Pietro" esclamò Maria, "Siamo salvi!".
Intanto come se qualcuno avesse tirato un immaginario tendaggio la nebbia scomparve e nella vallata tornata limpida e illuminata dal chiarore delle stelle i due bambini poterono scorgere il piccolo campanile di Erbonne.
Si precipitarono allora correndo verso la chiesa facendovi ingresso proprio mentre il parroco di San Fedele che quella sera aveva parlato molto di amore, invitando a pregare per chi era lontano, al fronte, intonava il Credo.
I bambini, raggiunto il banco dove stavano i nonni, unirono la loro voce al canto sul quale si levò altissima e piena di tono anche quella di Pietro, mentre il suono dell'armonium risuonava nella piccola navata fumigante d'incenso con note ora dolci, ora tristi, ora alte e solenni, ora basse e fievoli, proprio come fanno i fiocchi di neve che dopo aver sfarfallato nell'aria come risucchiati verso l'alto si posano dolcemente a terra.
Quando canto e suono si spensero i due bambini corsero con lo sguardo all'armonium ma ciò che videro fu solamente un raggio di luna che illuminava la tastiera proprio là dove erano solite posarsi le mani di Pietro, il cantore di Natale.


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Ins. 08-11-2004