Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Rolando Maria Cimicchi
Con questo racconto ha vinto il nono premio del concorso Città di Melegnano 2000, sezione nerrativa
 
Luci di confine
 
Quanti si sono mai chiesti se un mondo possa essere trattenuto all'interno di una stanza? Io credevo che non fosse assolutamente possibile. Tra quattro mura doveva esistere un vero limite fisico allo spazio di una persona. Un perimetro angusto. Credevo. Un tempo molto lontano.
 
Ricordo che andavo alla continua ricerca di spazi e di emozioni che non fossero solo interiori, ma anche di qualcosa che potesse congiungermi in qualche modo con i sublimi piaceri esteriori che solo la vista e l'approccio tattile del mondo potevano donarmi. Peregrinagli estenuanti tra le pieghe talvolta oscure di ciò che mi circondava; visione d'insieme di cui assaporavo i risvolti, anche i più minuti. Credevo. Un tempo molto lontano.
 
Ricordo di prati verdi, ch'erano di verde acceso d'estate e di verde spento d'inverno, accerchiati da nugoli di cemento e mattoni. I fili d'erba parlavano di tempi lontani quando i loro avi scrutavano l'orizzonte libero, quando le loro famiglie erano così numerose da non richiedere adunanze a scadenza per censimento; loro raccontavamo del "prima", pur non avendo mai conosciuto nient'altro che cemento e mattoni per orizzonte.
Io ascoltavo il verde manto sussurrare lamenti e ne traevo consiglio con devota attenzione. Ascoltavo e silente meditavo sulla questione dello spazio, osservando l'esistenza di quei verdi e flebili steli scossi da un vento che non aveva provenienze remote. Riflettevo sulla necessità di spazio vitale.
Spazio fisico. Credevo fosse logico e giusto. Un tempo molto lontano.
 
Ricordo di corse infinite alla ricerca di significati.
Domande che rincorrevano altre domande e che disperatamente tentavano di arrivare a conclusioni che invece non giungevano mai. C'erano idee e tentazioni a ghermirmi nei momenti di pausa, fulminee stoccate spesso di pura follia, o almeno questo era il giudizio datogli dai bipedi miei simili.
C'erano nottate sotto la pioggia battente passate in mezzo a vie scure e solitarie parlando con me stesso; lunghi viaggi dentro e fuori la città che silenziosa non proferiva e i cui funerei figli proteggeva dalle mie incursioni. Libertà è una parola che la città non vuol sentire e piangono i suoi figli quando la sentono. Erano nottate d'estasi dove io ero solo ciò che ero, per me stesso e per nessun'altro.
Tenebre a volte come velluto. Le sentivo toccarmi mentre stavo fermo su qualche panchina di qualche solitario giardino; le sentivo sfiorarmi mentre la mia pelle si deliziava della sensazione di assoluto che quella aperta solitudine riusciva a darmi.
Ricordo di opache e indistinte figure notturne che mi passavano accanto. Ricordo di sguardi fissi e di stupide manifestazioni di meraviglia e pietà insieme, in un collage insulso e ignorante.
Ricordo il mio disappunto e la certezza di essere sul superiore piano della comprensione della libertà. Credevo. Un tempo molto lontano.
 
Così, tra le flebili onde di pensieri, talvolta umidi e appiccicaticci come nebbia, arruffate rimembranze ondeggiano tra il passato e il futuro, senza per questo ignorare il presente, pur nella sua evidente limitatezza.
Tempo e spazio. Possono realmente coesistere all'interno di una stanza nella reale ed unica enfasi della parola libertà?
Le quattro mura che mi circondano sussurrano dolcemente le voci del mondo di fuori e del mondo di dentro; onde di forte insofferenza scuotono senza avvisare quella che viene definita la stabilità interiore... Ma chi può dire se sia stabile questa stabilità? E poi che significato ha la parola stessa?
Stabilità. Di cosa?
Il mondo non è stabile. La libertà non è stabile. La vita stessa non è stabile. La stabilità fa rima troppo facilmente con staticità e quest'ultima cozza rumorosamente con l'ampiezza sonora ed empatica della ricerca e dell'evoluzione che la vita stessa sprigiona con forza.
Sussurrano le mura. Annuiscono.
Ricordo di giorni dove il tempo non esisteva, dove gli orologi colavano spenti da pareti spoglie.
Interminabili camminate attraverso parole e musiche confuse che somigliano alle cacofonie dei luna park: le magiche fiere dell'irreale, dell'effimero e dell'insensato, il condensato principale della società in cui viviamo.
Viaggiano con la mia fantasia cabriolet e la mia sognante ricerca a tutto volume. Ricordo di strade a volte piene e a volte vuote dove io costruivo contorni pastello attorno ai desideri e ai sogni che di volta in volta le immagini mi suggerivano.
Strade che spesso non esistevano, se non tra i fumosi angoli della mia stanza; il mondo non aveva confini ed io lo attraversavo...
Vagavo da un mondo all'altro, ora fuori dalle mura ora dentro, e mi facevo accompagnare da ombre indecise, spesso solamente ricordi di persone.
Avevano un senso nel mio cuore insensato. Un tempo molto lontano.
 
Ricordo di spazi aperti che gli occhi non coglievano. Ricordo di sogni in bianco e nero mutati per magia in capolavori technicolor. Erano i primi incroci con la "realtà". Spesso però confondevo le cose, perché ancora non capivo, cogliendone solo l'esteriorità... credevo che la libertà fosse soprattutto questo. Credevo. Un tempo ancora lontano.
 
Oscuri silenzi intrecciano mistiche armonie.
Il buio recita la sua parte
ampliando la visione dell'invisibile.
Quattro mura come i "quattro cardinali".
Rondini in attesa
sul cornicione di una casa vuota.
 
Quante persone si sono mai chieste il vero significato del vivere dentro a se stessi? E quanto questo ha importanza nel comune senso della libertà? I cocci sparsi a terra rammentano solamente la perdita di un oggetto e la sensazione di fastidio che generalmente provoca?
Io ricordo fumosi ambienti colmi di fatiscenti ombre alla ricerca di una compagna, generalmente ambrata. Ricordo suoni che sembrano parole, come serpenti attorcigliati ad una preda e intenti a finirla; lamenti acuti e fastidiosi di burattini insoddisfatti. Vecchi dischi inchiodati al proprio portafoglio e al proprio lavoro, alla crudeltà del destino e all'inutilità di respirare ancora il giorno dopo.
L'inferno dantesco non avrebbe affatto sfigurato in quegli antri di scontata psicologia da Venerdì sera.
Ricordo di punti interrogativi dipinti sulle mie labbra che mutavano in sorrisi di sdegno che non mostravo e che altresì interrogavano l'aria tutt'intorno. Essa sapeva di rancido ma anche di lontane reminiscenze di fili d'erba e muri di cinta.
Allora pensavo di essere unico. Come bipede.
Credevo. Un tempo ancora lontano.
 
C'erano sogni che crescevano rigogliosi. Avevo tasche piene di questi e giravo e giravo spendendo senza sosta. Facevo banchetti e feste e radunavo agnelli per gioire delle libertà dell'arte e dello spirito; osservavo il cielo sopra di me e lo vedevo scuro e minaccioso. Comparivano sorrisi sul mio volto bagnato ancora d'infante. Gli agnelli attorno al desco rispondevano mostrando fauci di fiere che io non vedevo.
Rammento il mio cuore grande. E anche l'alto concetto della fratellanza. Io sapevo.
O almeno così credevo.
Un tempo molto lontano.
 
Le mie labbra soffici baciavano il vento. Ricordo ch'esso rispondeva con carezze ai miei lunghi fili castani. Il mio alito sapeva di tabacco americano e le mie orecchie si facevano penetrare da sussulti talvolta rabbiosi, in amplessi musicali pieni di sdegno e rabbia.
Cercavo spesso la mia via di fuga in cavalcate strozzate da urli di verità e verbo. Carta filigranata usciva dalle mie mani per tanto sapere ed io godevo agitando le braccia della certezza e della giustizia; gioivo colmo di libertà che sapevo certa e sinceramente predicata. Credevo. Un tempo non troppo lontano.
 
Ricordi chi eri?
Cosa abbracciavano
le tue braccia nude di tenera e stupida arroganza?
Quali venti ornavano il tuo capo?
Avvoltoi. Sciacalli.
Anni venduti e trattenuti in sudari neri.
 
Ricordo di richiami. Ricordo di forti e insistenti richiami.
Voci che venivamo sommesse a tirare le mie vesti per condurmi sulla via del ritorno. Voci insistenti che pronunciavano il mio nome con grazia e fermezza.
Quattro mura come i quattro venti che spirano ricordando l'effimero che spesso ci pervade.
Ricordo quelle voci come qualcosa di assolutamente vero eppure allora mi sembravano lontane, come ombre dipinte su un muro fatiscente.
Chiudevo le mie orecchie perché non volevo che nessuno mi distogliesse da ciò che credevo sacro e assoluto. La mia via, la mia strada.
 
Ma le voci non si sono mai fermate. Hanno attraversato il tempo e hanno resistito, anche quando io fuggivo senza remora in quello che era un corridoio che credevo mi avrebbe portato alla luce e alla libertà. Credevo. Un tempo non troppo lontano.
 
Così, ora, osservo rapito ciò che mi circonda. I lamenti del passo ubriaco di un viandante mi riportano ad una strada smarrita. Luci di miele incoraggiano i pensieri e davanti allo specchio c'è un viso che non riconosco, un viso che ha rughe e deboli fili grigi qua e là.
C'è del vero nell'aria, che odora di fili d'erba mai nati tra confini di cemento.
Quattro mura fatte di pensiero che fuggevole s'innalza e senza paura vola. Quella libertà che non avevo mai visto si presenta tra le mie mani, che callose ridono felici di un tempo che appare come mai passato. O forse mai esistito.
Luci di confine nella mia stanza.
Luci di confine nella mia casa.
Luci di madre e padre e pochi amici che sinceri applaudono il mio arrivo.
Luci che ricordavo solo come recinti e confini invalicabili, come queste mura che ora accarezzano il mio spirito.
Libero da quell'Inferno mai troppo lontano.
 
Fili d'erba ondeggiano nell'aria.
Il vento sostiene tesi che appoggio
e dalla mia finestra odo cantare un corvo.
Sorrido e non mi muovo nel mia anfratto d'Universo.
 
 
 

 

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Classifica Concorso Città di Melegnano 2000 sez. narrativa
 
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inserito il 13 dicembre 2000