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Piero Massimo Andreoni

Perché mi è venuto in mente questo titolo?
 
Semplicemente perché è la storia di queste poesie.
Furtive, attimi rubati al tempo, tempo da dedicare a cose più importanti e gratificanti: lo studio, il lavoro, la carriera, le cose della vita...
 
Eccomi allora in piovosi e freddi pomeriggi, in serate inquiete o in radiose giornate di luce isolarmi, chiudermi in un a stanza, recuperare uno spazio tutto mio, lasciare la mente e il sentimento liberi di fluttuare, senza vergogna, senza "la volontà" d'essere, o forse, sembrare.
 
E scrivere. Vergare fogli bianchi, angoli d'agenda, post-it volanti cercando le parole, le espressioni, le immagini, la musica, o meglio i suoni, capaci di esprimere le angosce o la tenerezza, la rabbia o l'impotenza, i sogni o i desideri profondi, lo scetticismo esasperato o la struggevole nostalgia, la volontà cinica o l'utopia segreta, il rimpianto ironico o l'acerba consapevolezza dei 40 anni ormai alle porte.
 
Si sa, ci si vergogna molto ad affermare che si scrivono poesie. È una debolezza che la gente concede benevola sino ad una certa età, poi suscita sospetto, se non fastidioso distacco, compassata superiorità, facile ironia, impietosi giudizi.
 
C'è qualche cosa di vero in quest'imbarazzo.
 
In effetti, è presente una vena infantile nello scrivere poesie.
Il problema è che oggigiorno si confonde l'adolescenza, i suoi miti e riti, il suo linguaggio, le sue forme, i suoi valori, la sua energia incompiuta, la sua esasperata immaturità integralista, con il cuore profondo dell'uomo, con il suo originale costitutivo, fatto d'aneliti inconsci, di desideri esistenziali, di ricerca, di curiosità creatività, di forte individualità, di tensione, di profonda solitudine.
 
Queste caratteristiche però, tendono nel tempo a trasformarsi in altro, generamente la brutta copia dell'originale.
 
Si ritrovano, allo stato puro, solo in pochi individui, oppure, ampliando il campione, solo in determinati e forti momenti della vita o, geneticamente, nei bambini, anche se in un numero d'anni progressivamente ridotto, grazie alla corrente tipologia e sovrastruttura educativa.
 
Purtroppo, i bimbi non sono di moda.
 
Accade, però, talvolta, che nel corso delle giornate affiori ancora, sempre più raramente o comunque impacciata, questa forza intrinseca, questo bagliore originario.
Un fatto, spesso doloroso, un incontro, una lettura, un'inspiegabile stanchezza o una vitalità insperata, squarciano il quotidiano e, allargandosi su di noi, ci sorprendono, lasciandoci nudi.
 
Queste poesie nascono così, dal tentativo di non passare oltre queste preziose, ma scarse occasioni.
 
Le cose, però, non sono mai semplici. Il momento, infatti, non lo scegliamo noi, ed è sempre quello più inopportuno.
Un esame da preparare, un report da finire, una serata da organizzare, il telefono che suona, il budget che non torna, il foglio di lavoro che non gira, il collega che non esce mai o che è sempre dal capo...
 
Già, il capo. La moltitudine di capi che costellano la nostra vita: dai genitori, ai compagni più bravi, da quelli da imitare a quelli che contano, dagli amici, che hanno sempre qualche cosa in più, a chi c'è accanto, che pretende sempre di più di quello che si riesce a dare, ai capi veri e propri quelli che sul lavoro sembrano messi lì apposta per provare la nostra pazienza o intelligenza o, forse, semplicemente l'educazione.
 
Tutti quelli di fronte ai quali ci si deve giustificare, cui rendere conto, oppure, meritare l'approvazione.
Tutti quelli cui si deve nascondere il tempo speso in cose futili, in parentesi che ci allontanano dall'obiettivo, che non sono funzionali al progetto, inefficienti, costose, assolutamente non prioritarie o, peggio, dispersive.
 
E allora?
 
Allora speriamo che non entri il capo in quei rari momenti dove siamo scoperti, nudi all'inizio della meta, assolutamente in balia di un testardo stato d'animo che continua a buttarci a galla tutto ciò che faticosamente cerchiamo di rimandare giù.
 
Ci troverebbe ciondoloni, arricciati su noi stessi, in preda ad un'apatia sconsolata, lontani da tutto e tutti e ci costringerebbe a raccattare quel poco d'energia rimasta, o buon senso, per cercare di dimostrargli che non stavamo aspettando altro che quella visita per riempire il vuoto della nostra giornata.
 
Una meschina figura, insomma: del resto intonata al nostro stato d'animo.
 
Eppure, forse, più piccini al reale di quanto abbiamo il buon senso di ammettere.
 
Rimangono due ultimi punti da chiarire in questa faticosa introduzione: come nascono le poesie, o meglio chi sono, e perché ho deciso di metterle a P.C.
 
Il primo punto spero di liquidarlo in poche battute, il secondo anche.
 
Uno qualsiasi, milanese di famiglia e di cultura, con quella vena protestante che contraddistingue la vecchia natura di questa città.
Una natura che accentua il senso della responsabilità individuale di fronte alle cose del mondo, una sorta di senso di colpa davanti agli eventi negativi e di timido imbarazzo di fronte a quelli buoni. Un senso del dovere e del fare le cose al meglio delle proprie possibilità perché è giusto che sia così, un senso della vita dove esiste ancora spazio per una logica d'ordine e di proiezione nel tempo di qualche cosa per cui valga la pena.
 
Trentasettenne (è importante l'età per attestare che ho attraversato consciamente i più recenti momenti costitutivi della storia italiana), laureato, sposato, con una parabola d'esperienze personali scivolate da un variegato impegno nel mondo cattolico sino ad un nostalgico laicismo pieno d'interrogativi e senza adeguate risposte.
Con il grande pregio, però, di una certa disillusione e di una certa accondiscendenza di fronte ad un mondo, ormai troppo esuberante per le strette logiche che stanno ancora dominando la mentalità del nostro paese.
 
Nulla a che fare nella vita con letteratura, accademie, arti liberali, se non per alcuni interessi personali, bensì spesa nel più prosaico e impalpabile mondo economico definito aulicamente dei servizi, forse per dargli una dignità per molti versi ancora da dimostrare.
Non aggiungo altro per quel minimo di pudore che l'età ancora mi conserva.
 
Detto questo, ho svelato la storia delle poesie che altro non sono che stonati canti di fronte ad eventi vissuti (normali) o fatti reali non sempre edificanti, musicati secondo il punto della parabola in cui ero collocato in quel momento.
 
Il fatto è che più le leggevo in questi anni, segretamente e in solitudine, più mi accorgevo di un pensiero ricorrente: che mi piacevano.
 
Mi sono quindi interrogato su questo strano fenomeno, scartando progressivamente una serie d'ipotesi, che per modestia non vi elenco.
 
Alla fine di questo inglorioso inventario, ormai sul punto di abbandonare la ricerca, è balenata un'intuizione, che diventava sempre più consistente, tanto più l'approfondivo.
 
Mi piacevano perché mi descrivevano, e lo facevano con espressioni vive e con un linguaggio asciutto, sintetico, essenziale, ma ricercato.
Anzi: asciutto, sintetico, essenziale proprio perché ricercato, sfrugugliato, carpito dalla memoria del vocabolario, pescando parola dopo parola quelle più adatte e opportune per costruire le immagini, per dare corpo ai veloci pensieri, per riempire di voce gli stati d'animo, per dare colore e calore ad inibite energie.
 
Continuando su questa riflessione sono giunto ad elaborare una teoria del tutto personale e quindi innocua: il bello della poesia non è la struttura, la musicalità, la tecnica, il linguaggio, lo spessore, l'innovazione, la lirica o quant'altro la scuola ci ha insegnato.
 
No!
 
Il bello della poesia è che ci costringe a descriversi, ci stimola alla sintesi e quindi alla conoscenza, ci obbliga a ricercare un linguaggio adeguato, ci aiuta ad imparare, in ultima analisi, ci riconduce all'essenziale di noi, ci mette a nudo, ci rimanda ad immagini, ci riempie di colori, ci da forma.
 
Se fosse vero questo, allora, non esisterebbe una poesia bella o brutta, esisterebbe una poesia vera o artificiale, vissuta o accademica, sentita o costruita, esistenziale o intellettuale.
 
In sintesi, si potrà parlare di poesia elementare o matura, embrionale o compiuta, semplice o artefatta, spigolosa o armonica, balbuziente o lirica.
 
Se solo la scuola ci avesse insegnato questo, ci avesse costretto ad intraprendere questa esperienza, accompagnandoci negli anni e dividendo equamente il tempo, invece di dedicarlo esclusivamente a temi e riassunti, marginalizzando la poesia a soli esercizi mnemonici o aride elucubrazioni storico-letterarie.
 
Avremmo imparato a conoscere e ad accettare noi stessi con più benevolenza, avremmo acquisito una proprietà di linguaggio e una capacità di sintesi ai più sconosciuta, saremmo capaci di relazionarci agli altri con una sensibilità insperata, perché abituati a guardare alla vita con stupore e passione.
 
Queste considerazioni rispondono anche al secondo punto, sebbene solo parzialmente.
Non sarebbero, infatti, sufficienti a giustificare il tempo che perdo a caricarle, rubando ancora una volta spazio a mia moglie, al poco tempo libero e a Vittorio.
 
La vera ragione legata a quest'ultimo nome, la new entry di casa, il piccolo che è nato da 16 mesi.
 
Uno dei più urgenti interrogativi che accompagnano questa esperienza formidabile è se sarò un buon padre.
 
Se avete capito qualcosa del sottoscritto leggendomi sino ad ora e se avete l'occasione di parlarne con mia moglie intuirete che propendo per una risposta negativa.
 
Ecci costruirai nel corso della giovinezza e dell'adolescenza.segnerà la tua vita, di provare di rivedermi con una prospettiva diversa da quella che probabilmente ti costruirai nel corso della giovinezza e dell'adolescenza.
 
Quanto meno dimostrarti che tutto quello che costituirà motivo di delusione, almeno embrionalmente, l'avevo già intuito.
 
Mi accontenterei di spostare il tuo giudizio dal piano della critica sulla sostanza a quella sul metodo, dal pensiero all'azione tanto per dirla breve.
 
Sarebbe già un risultato grandioso sapere che non mi giudicherai con le sufficiente o arrogante superiorità di chi condanna la vita stessa del padre, le sue scelte, la sua coscienza, in sintesi il suo Io, dall'altro delle convinzioni assolute che ti contraddistingueranno.
Mi piacerebbe che ti limitassi a scuotere la testa, con ironia certo, ma anche con benevolenza, sulle mie debolezze, la mancanza d'energia e la disillusione che stanno, inequivocabilmente, affiorando.
Mi accontenterei di questo e scusa se è poco. Almeno significherebbe che un poco di me si sta prolungando nel tempo...
Sai, sono un milanese e poi, a differenza di molti, mi è sempre piaciuto il Foscolo.
 
Non sono stato del tutto sincero.
In realtà c'è un terzo motivo, ma riguarda quel delicato ordito che prende il nome di matrimonio e quindi il buon senso mi sussurra che è meglio tenerselo per se.
 
Posso solo affermare che la dedica di questo libro a mia moglie va oltre il tardivo tentativo di sopperire alla sua ormai rassegnata affermazione: "...non mi scrivi mai!".
Chiudo qui.
Chi ha avuto la pazienza di leggere questa introduzione potrà capire perché inizio con due delle ultime poesie composte, dedicate a... "indovinate un po'...?"
 
Un'ultima cosa.
Scrivete, scrivete, scrivete.
Se qualcuno avrà la compiacenza di essere arrivato sino a questo punto, non si limiti, tra il sornione e l'ironia a sfogliare distrattamente il resto per poi passare a frettolosi ed impietosi giudizi estetici o di gradimento.
Non ha nessuna importanza se le poesie raccolte piacciano o no, evochino suggestioni o facili battute, stimolino sensazioni o altro.
L'importante è che sia riuscito a farvi intuire la forza di pensiero che sorregge l'atto di prendere una penna e un foglio per imparare a raccontarsi.
 
Milano, Dicembre 1999
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