LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti

 

Paolo Malinverno
Velate ombre alla riva
Terra capitano! A prua guardate! È la nuova terra! Salparono e ...
 
Si narra d'un vetusto popolo
cresciuto dalla prim uman etate,
in un loco avvolto d'acque salate.
Per l'orbe terrestre da polo a polo
 
niun mai lo vide o l'indicò d'un dito!
In capanni, fra immaculate alture,
protetti dalle silvestri creature
viveano, seguendo un antico rito.
 
Presso il focolare, d'arcane gesta
d'occhi alti, usavano mirar l'ignoto
e là, volti da un sempiterno voto,
cantavan, portando natura in festa.
 
Gran rispetto diceano le parole,
d'abbracci risuonava la melodia
e in guisa d'onda, un'unica armonia
dalla terra salia mirando il sole.
 
Per mesi giocondi, ai pie' d'un gran rivo
onoravan l'acqua e l'opima terra
il cielo e il foco; ... il tutto che sol serra
d'altri tempi il lor filosofar vivo.
 
Un simbiotico abbraccio risuonava
fra quelli e la natura. In una notte
di plenilunio dalle più alte vette
un aborigeno, mentre seguiva
 
fero sull'onde l'argenteo riflesso
vide nerastre macchie fra i flutti
addurre ira e stridii agli augelli tutti.
Dallo stupore gravò seco stesso
 
la novella e l'ammutì al cor logora.
Tali ombre agl'occhi fattesi maestose,
e riuscendo con qualsivoglia pose
niuno a ristar l'avanzar dell'aurora;
 
divenute poi ai primi albori sculti,
miri, lignei galleggianti atrezzi,
frangean l'onde or fra i corali grezzi.
Cento gl'occhi e i salubri paghi volti,
 
ch'attinsero su tremuli vaselli
la riva. Altri culti parean nutrire,
d'altri ingegni usavan grave fedire,
sicché le natie figure da quelli
 
spaurite e turbate al core, silenti,
orbate dalla feerica novella,
già pur prive d'ogni fiducia in quella,
si ristaron, ove taccion i venti.
 
Salparono aurei, lucenti obietti
portati da turpi, pallidi visi.
Un drappo s'erse dai colori lisi,
s'erse, vegliato da alti canti schietti,
 
e in sì buon loco, che parea vigere
al vespro e quasi il tutto dominare.
Note del sempiterno mareggiare
confusero e nascosero all'äere,
 
il favellar del silvestro popolo
guardingo e ancor tremante fra le dune.
Là! un parvolo, fra aculei arbusti, immune
d'ogni periglio, sedea triste e solo.
 
Già parea un saggio d'aprico senno,
e come per un insito genoma,
leggeva gl'affanni al cor d'ogni chioma,
sicché chinò l'imberbe viso e d'un cenno
 
sì lesto qual d'un pardo, mirò d'un dito
il mare e lacrimando disse cheto:
Oh tu, gran signore cangia in secreto
l'ordine dei flutti e sì d'un ardito,
 
silente gesto, libraci da queste genti,
libra l'acque da l'ostico intruso.
Oh terra, cielo e foco, che illuso!
Alzo preghiere e canti ai mille venti
 
e onni specie che bagna vostr'essenza
v'è devota, e niuno è istruito al possesso
e a portar corona seco stesso.
Io reclamo l'impunita sentenza!,
 
Già li odo i pugnaci nostri padri
canticchiar la morte mirando il mare.
Dunque! vi prego ditemi che fare;
li veggo avanzar quegl'inferi ladri.
 
Tacquero!
 
 
Papaver somniferum
 
Trovaron fra elvetici, alpestri colli
le teste e i semi tuoi in lacustri avelli.
Le vestigia dell'opra tua sepulte
parlan ancor come pagine sculte.
Dalle carni tue attinser la nepente
oli e succhi pel dolor della gente.
E di tal sorso a Sparta si favella.
Nel vin intinta per sopir la novella.
È d'Ulisse che si suol portar l'oblìo,
gocce, e s'alza novo il pugnace disio;
s'alza per agir privo di periglio,
domato lui dall'infuso vermiglio.
Gl'attributi tuoi chetano il parvolo,
e alzano lo spirto dei saggi in volo.
Dopo un gran viaggio cavalcando eoi flutti
sbarcasti e in guisa di morbo i tuoi frutti
si diffusero ogni dove fra mura
e castelli d'umil e ricca fattura.
I raggi alle carni tue adducon forza,
e sì nasce un succo sotto la scorza,
nascon gocce condensate d'un latteo
colore, onde s'attinge l'umor leteo.
L'arte tua maga di gloria s'avvalse
lasciando infin, per feeriche vie false
malati spirti vagar ignudi nella selva,
orbati al core dall'oppiacea belva.
Restasti al buio chiuser l'aprica regge;
nacque in parlamento una nova legge.
 
Or sol cresci sui dirupi nascoso.
Si dice: «Sei tossico e voluttuoso!»
 
 
Il totem
 
V'era una mislea d'anime silenti
ai pie' della lignea grande figura.
Sculpita, si narra, dalla natura,
vestuta per grazia o celia dai venti,
 
s'ergeva in auge alla sacra altura.
Sculta in uman parvenza parea addurre
speme e gaiezza ai tristi, e forza apporre
negli arti d'infermi pargoli in cura.
 
Addo a lei auliva un squisito sentore;
la devozione, un atomo in amore.
 
 
Il sogno
Incontrai in un sogno la voce mia poetica e Le parlai...
 
Coricatomi dopo un lungo e opimo
banchetto, caddi in un sopor profondo
ritrovandomi in un arcano sogno.
Là, navigavo ansioso fra i dedali
dell'alma mia quando scorsi un'aprica
figura ai pie' d'una scoscesa ripa,
e avvicinatomi a quel greppo dissi:
«Chi sei». Ella, mirandomi lo sguardo,
mosse il labbro e d'un vocìo lieve disse:
«Son l'umil apollineo estro e dì e notte
divulgo la brama mia teco stesso».
Dallo stupor m'assisi genuflesso
fissando il suo sguardo e aggiunsi: «sol scruto
ogni dove e apparecchio al tuo pio desco
pietanze che sol letiziano il core,
e in oblìo lascio il corpo mio negletto.
Miserere di me; frale coltivo
il mio ancor giovine pugnace corpo,
lasciandolo in solio pascer l'acri erbe
della vita. Penso lesto e m'arranco
per mille vie in balìa della brama tua,
e più m'addentro fra i tuoi arcani flutti,
più sento il morso d'un esser che serra
e mi consuma il core. Ascolta, rosa
dell'ortiva mia terra, dimmi; perché
stolto mi gitto in quelle fauci se già
in senno mi spauro?». Egli, gaio in viso,
mirò pria assorto l'aere e poi infin fisse:
«Io, laureo tuo disio, t'assecondo drudo
e silente per la tua via e m'è d'uopo
sempre e sempre coprire i tuoi pensieri
infin che tu possa coglier l'essenza.
Seguo le tue teodie, t'ascolto e t'offro
l'atarassia. Con un argenteo filo,
di vitrea trasparenza, ti dirigo
pio traverso i perigli, e mi diletto
a mirar il tuo volger alla meta».
Zittitosi; ripresi io a discorrere:
«M'esiliai allor fra discoscesi meandri
dell'alma mia remando cheto e triste
su questo vasello alla sol ricerca
di savie parole e vano m'apparve
il navigare quando il tuo vocìo
venutomi in eco, m'addusse forza,
e sì negletto in un marmoreo anfratto
vidi l'aprico tuo poggiolo e un radio
tesser lesto la tua figura tutta.
Sicché amarrai e or eccomi sol... dinanzi
all'eloquenza tua che pia s'inciela.
Meco ogni dove porterò in secreto
le tue parole e or scusami riemergo,
pria ch'el core mio spaurito s'inceppi.
Spintomi lesto traverso la regge
che separa il mortal dal sempiterno,
venni scosso da un suono che diceva:
«È ora alzati, farai tardi al lavoro!».
 
Padre
 
Pria dell'etate padre, nella quale
si suol col senno e il core ragionare,
ti vedevo sì al desco familiare
quale un re, e io ero il vassallo stolto e frale.
 
Imparai poi a rispettar il tuo alto ruolo,
e a mimar le gesta tue. Cambiai muta
mi risvegliai, non più con la voce acuta,
ma aggravata per alzarmi com'altri in volo.
 
Con sembianze d'omino reclamavo
l'ingiusta clausura. Uscir, altro,... niente.
Dinanzi alla tua gran figura osavo
 
alzar pugne verbali, ch'or ancor schiavo
delle mie parole soffro silente.
Amor e ironia dal cor tuo ancor ricavo!
 
 
Codice Genesi
Dal libro di Michael Drosnin «Codice Genesi» Rizzoli, prima edizione, giugno 1997
 
Nelle sacre scritture Iddio nascose
il fato dell'uman etate.
Sculto e poi nascoso fra le righe
in un simmetrico gioco,
percorse mille e mille rote
intorno al foco mastro,
in un sopor profondo
senza risveglio.
Or eccolo è desto!,
e arcane date
giaccion là silenti in codice,
ma aspettate...
popolo dell'orbe terracqueo,
siete ancor voi assisi al volante,
indi ogni dove volge il fato
non ponetevi domande
siete voi ad aver guidato.
 
 
Lacrime (inedita)
 
Eccola!,
da silvestre vie la vecchierella,
avvicinarsi passo a passo,
nelle ore tarde,
ove il carnal manto terra opima.
 
La veggo sì ...pria del vespro,
portando al core quel sempiterno foco dono d'Artemide,
passando fra lapidi ignote,
portar fiori al suo caro.
 
Guarda nonno d'alto loco!,
a capo chino lacrima sul tuo litico avello.
Guarda è lei, fra le sue dita il vostro anello!
 
Dì e notte d'amor tuo il cor mio ammenta
e l'imago del manto tuo lasso
ancor mi strugge e mi tormenta.
La viperea goccia vagò teco stesso
lasciandoti adusto, privo di forza,
assiso a contemplar il fato.
Oh! nonno,
dal tuo cerulo poggiolo,
ascolta!
Sono solo.
 
 
Umiltà (edita).
Mi piange l'anima saper di tanto vanto;
son sazio d'ascoltar cose
che servon solo per apparir tanto.
Mio Dio!, perché non si può parlar
sol di cose vere, sol di sentimenti,
senza dover aggiunger colori!
Non riesco ad agir com altri che parlan
di se stessi, quasi fossero fieri.
Sol tendendo l'orecchio
riesco a saper chi si nasconde dietro
qualsivoglia specchio.
Che disgusto parlar e insaporir la salsa,
perché si sente il sapor di quella falsa!
Vi prego bastaaaaaaaaa!
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Aggiornato 26 marzo 1999