Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Monica Sapucci
Tutto come allora
 
Il lento avvicendarsi giù e su, su e giù, del copertone sospeso dalla corda al ramo più alto dell'olmo in giardino, mi fece tornare all'infanzia, come il dolce frinire dei grilli col loro ritmico cri-cri, che io comandavo con un filo d'erba, con i guanti candidi indossati su mani ossute, troppo piccole per vestirli al meglio e che, a volte, scivolavano dai polsi per aggrovigliarsi a dita di bambina, impacciando ancor di più i miei sforzi per comporre da tutto quel ciarlaticcio un'opera degna di merito, come quelle che si sentono alla radio nei giorni di festa.
Sul davanzale, ancora fumante, il profumo della torta invadeva l'atmosfera, tutt'intorno pareva come allora!
Nulla era cambiato, alterato, se non io, la mia età, il mio aspetto, ma non certo il mio cuore, i miei sentimenti.
Dietro casa, il laghetto d'acqua cristallina dove mille volte ci siamo tolti i vestiti e giù di corsa a starnazzare come oche.
Disturbavamo i pesci con i nostri schiamazzi, che importava? in quel momento aveva valore solo il nostro divertimento e null'altro; egoisti?
Sì, tanto quanto lo può essere la felicità e la spensieratezza di un bambino.
Nel suo specchio limpido, come allora per falsa vanità mi specchiai, il mio viso or ora che l'osservava apparteneva di nuovo a quella bambina pelle ed ossa, dalle tante lentiggini disperse in grandi occhi blu, tutto come allora.
Gli anni sfuggirono; tornò l'età dell'innocenza, delle gote rosee e piene, della spensieratezza.
I lunghi capelli neri raccolti in grosse trecce scure fermate da più elastici colorati mi facevano sembrare un grazioso, piccolo arcobaleno.
Mi sentivo la padrona del sole, si alzava al mio risveglio, si coricava con me, si annuvolava al mio solo imbronciarsi, splendeva alto, folgorante nel cielo alla mia felicità.
Ogni giorno rubavo al mio amico qualche raggio, posandolo sulle tenere gote rosee che la sera ardevano come ceppi incandescenti nel camino sempre acceso inverno ed estate, mattina e sera, sempre.
Sapevo che lì, al suo interno, abitavano i folletti del dolore e dell'amore, della guerra e della pace; assieme come amici avrebbero convissuto fino a quando il fuoco fosse arso intenso e schioppettante delle loro risa e dei loro bisticci.
Cosa fosse accaduto se le fiamme si fossero spente o abbassate a tal punto da scoperchiare le magiche dimore, nessuno voleva pensarci.
La cosa mi colpì molto, non lo nego, soprattutto quando la bomba scoppiò, fuori in giardino, davanti alla porta.
Con quel fragore la guerra bussò all'uscio di casa nostra, tutti gli uomini dovettero seguirla, incantati, come seguissero il pifferaio magico.
Da molto si era abbassata la fiamma ed i paggi magici erano sfuggiti al nostro controllo; così tutt'intorno a noi si ergevano le ceneri del loro passaggio, nulla potevamo fare se non pregare.
La mia folta chioma scura, sempre raccolta in due grossi appigli per la felicità, doveva sparire mi dissero.
Non dovevo più sembrare una dolce e brava bambina, era troppo pericoloso per me.
Un'informe massa scura si eresse sul mio capo, avevano tagliato troppo, erano troppo corti per stare composti, ora avevo le sembianze di un istrice arrabbiato, ne ero addolorata. Fino a quel momento non mi ero resa conto quanto tenevo alla mia femminilità, al mio aspetto.
Dovetti dire addio forzatamente a tutto: a gonne, a maniche a sbuffo, anche ai cappellini che tanto odiavo indossare nei giorni di festa.
Al loro posto comparvero vestiti smessi di uomini più grandi, vestiti da lavoro che dovevano nascondere e proteggere.
Il viso e le mani, le poche cose che ancora mi legavano ad uno spensierato passato, ancora non troppo remoto, dovevano essere concordi con l'immagine che mi avevano creato: dovevo rosicchiarmi le unghie, non lavarmi più tanto spesso, modificare persino parole e voce.
Tutto doveva essere appropriato al mio aspetto e all'attimo di vita che ci stava freneticamente passando accanto.
Dovevo cambiare modo di esprimermi, ed addirittura potevo, anzi dovevo pronunziare tutte quelle parole per cui prima venivo castigata, poiché non si addicevano a una bambina, anzi ad una signorina.
Com'è strana la vita!
Buffo come il passaggio di una tempesta come quella che esplodeva tutt'intorno a noi mi facesse amare ciò che fin d'ora avevo odiato, rinnegato a tutti i costi.
Amavo la mia libertà ed ora ero segregata in un corpo, in una parte che non comprendevo.
La paura, il dolore, ci facevano essere più uniti con tutti coloro che condividevano la nostra sorte.
Non capivo più nulla, pochi istanti prima ero una bambina spensierata, ora dovevo crescere di colpo, in un sol attimo mi trovai grande, adulta, ma in un corpo che non era il mio, di cui dovevo star attenta, ne ero responsabile, ne andava della mia stessa vita.
Stavo vivendo una storia che non era più la mia, vivevo all'ombra di una bambina imprigionata dal fato nella paura della morte; un tempo ero la protagonista della mia vita, ora solo una comparsa per un'apparizione tutt'altro che fugace in questa torbida storia che osiamo definire vita.
Uno strano cigolio mi risvegliò dal sonno dei ricordi, di nuovo sentivo il profumo della torta lasciata a raffreddare sul davanzale, il dolce profumo dell'erba pervase di sicurezza e felicità.
Tutto era passato, la nostra casa era stata ricostruita. Come allora, anche il vecchio olmo che aveva resistito a mille battaglie era ancora lì imperterrito a vegliare su tutti noi.
Nell'aria di nuovo udivo i grilli urlare la loro e la mia storia, gli uccellini volavano in alto, uniti, al sorgere del sole anche loro erano tornati.
Dal comignolo si ergeva denso, soave, continuo, un fil di fumo, questo significava che i folletti erano di nuovo magicamente rinchiusi e che di nuovo avrebbero vissuto assieme.
L'aria era fresca, la brezza mattutina portava canti di galli e cinguettii di uccellini, il suo profumo era ricco e dolciastro, stava arrivando la bella stagione, il sole splendeva alto e folgorante nel cielo azzurro, solo il fumo dei comignoli offuscava a tratti i suoi raggi, tutt'intorno era musica, soave silenzio di madre natura.
Di tanto in tanto risa di bimbo, nenie di tata e racconti d'amore cavalcavano le ali del vento e giungevano qua da me, dove si ampliavano a dismisura e fragorosamente esplodevano, trasmettendo il loro amore, la loro gaiezza, i loro sentimenti.
Non più l'acre odore della polvere da sparo, non più deflagrazioni, esplosioni, urla di terrore e dolore, non più sacchi alla finestra, non più la paura di uscire per strada.
Non ci si doveva più nascondere dai cecchini, dalle bombe, dagli uomini, dalla guerra, tutto era tornato come allora, ma in una parte remota del mio cuore il segno era rimasto, la ferita era ancora lì e sanguinava.
I capelli sono cresciuti, gli abiti di una signora, ma mai, mai potrò scordare quegli anni di terrore, d'indefinibile dolore.
Saranno ricordi che porterò con me finché vivrò, con cui dovrò convivere ogni giorno, come i giorni della mia gioventù.
Si tratta solo di far tesoro di ciò che viviamo per far sì che il nostro domani sia un domani migliore, di cui poi non dovremmo vergognarci.
 
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Agg.11-12-1998 1998