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LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
  Poesie di
Michele Rizzo

Anche gli uccelli caduti di nuovo
saliranno l'aria, fosse
per un solo altro passo di tempo
Ed i fiori scuri s'arrosseranno.
Perché i giorni si contano sulla pelle
e non mancano sorprendenti bambini a cantare.
Prendimi le mani padre, ora,
e non curvarti tra i giunchi tenebrosi.
Adunerò, da me, sensi pieni
tra folle di spinaceti ed
acclamerò,
degni sovrani,
i lunghi stiletti dei cardi che
chiamano cielo.
Perché difficile è confonderti
nel disunito dolore
che mi atterra come spezia nobile
in un mercato, sul finire
di un teso vomito di braccia
che si vendono.

"Morte di un girasole" (taglio dei contadini per l'olio)

Ti hanno deposto mio re,
il popolo vuole le forche.
E tu muori
senza sangue,
accarezzando la terra,
ricoprendola d'oro.!!!



"Leviathan"

Ho scelto già il tempo giusto per la mia
sepoltura, qui nel profondo, dentro
tutte le parole degli uomini.
Come piombi esse cadranno tra desideri
inconfessati di soli parabolici.
Cadranno infittendosi a manti grigi
come la pioggia insistente e
sfilacciata d'autunno. Ma io, mi seppellirò
affiatandomi presto ai
nodosi, simili cipressi, presto dimenticando
il grido torrido ed iracondo
del suono.
Perché non è volontà divina
a farci di morte dolente
ma, incolta rozzezza nostra di
non sapersi sciogliere come un
qualsiasi seme brillante
che governa crociere di terra e
ammaestra punti di crescenza.
Sfacciato sarò nel mio regno ottuso, scelto
nei baci collerici d'amore
da bambine vogliose d'orgasmi di magenta,
in quel limbo di basalto
dal balzo unico.



"Quel che non sono"


Non prendete i poeti per pazzia
o per macchiata solitudine
o per malcomprensione.
Non sempre essi veleggiano
tra le bianche sete dei versi
e non sempre hanno rime
pronte a divenire.
È raro che si muovano non goffi
a mutare scheletri.
Non possiedono essi,
sempre corse di rondini
e note di leggere grazie
o contumelie rinfrancanti
di ruscelli ancorati
a morsi di aria serpentina
e non sempre
alitano frescure di ricciolo primaverile.
A quanti pianti luridi
rinunciano i poeti
e narrando
gli amori
li smarriscono
e i dolori dimenticano
perché di caldi
nuovamente accolgono.
Non accusateli,
i meschini poeti
di vostre perfette opere mancanti,
perché essi non entreranno
se non verso cigli a dirupo,
lontano dai vostri sicuri feltri d'arazzo
separati
per sempre
dai custodi vostri velluti odorosi.



Appunti e schiume

Non mi fermo mai a lungo
a guardare
uomini che rapinano
silenzio a circoli
d'aria.
È come se
volontariamente si
esiliassero al paese dei
vivi. Sono come
rossi perfetti d'uovo
rinchiusi nella propria
materna rotondità.
Eppure si evolvono proprio
come chiunque altro.
Inseguiti come ognuno,
come ogni figlio di dolore,
raggiunti ed ammucchiati
in salmastre rade o in
carcerati fossi stringenti dove
la adorna terra colta non
trova piacere mai.



"Scriverò... la mia poesia"

""Scriverò la mia poesia sulla pietra e
di cento morti malvagie sazierò l'artiglio del destinato.
Ma il tempo del giusto amore
per me sia stabilito.
Mi pungerò in lidi stentati
e smarrirò acque non svelate,
correndo per ammezzate terre
tra crepe esili
di scaglie d'atlante;
cucito tra ossi di vette
e saponate trame d'onda,
ma, testimoniatemi senza lode
un solo tempo di giusto amore.
Perché il mio legno
presto riposerà sulla granula di smosse sabbie;
e la rada già m'accoglie
come un'alga smessa
non vestita più di mare."



Qui... la distanza del mondo

Noi non viaggiamo per strade chiassose,
ne plaudiamo il generale giubilo...
Noi non ci allontaniamo
ammutiti tra folle sbandate al rumore.
Restiamo zitti nel corno calcigno di un mattone
ad addolcire tristezze.
Perché siamo figli di madri fedeli,
amichevoli ad anziani barattoli,
fraterni alle fruste marine.
Staccati dagli orti esausti dei padri,
stentiamo,
come gli unti steccati dei vecchi poderi sui cozzi;
come le zoppe pietraie fucilate da pettegole gramigne.
Eppure, siamo qui ad aspettare
acque ferrose di porti sgargianti,
mai abbandonati dal sole sovrano,
siamo qui ad aspettare
qui, lontani da petti caldi di preghiere
ad agguantare lucerne e fumi odorosi
al governo
di gravide corti di femmine pronte,
a chiederci magnifici domani di giorni venturi.



"Distese le notti...!"

Nessun che canti d'uomo insegni e
nessuno che d'uomo si conti impari e
del dolore che nessuno accorda in verità
perché esso sempre pende da sbaglio di labbra,
ed ansima e si disperde e vaga
nel suo smarrirsi come belare confuso
dentro gli echi delle rupi, lontano
dal saldo gregge.
Perché di dolore si spina ogni zocca fonda e si nutre al
suo fallo utile quasi la falda di
intero riflesso.
Non chiedetene al giornaliero
governante la macina scelta ne
godrà solo la destrezza del
suo rabbioso rubino che corre verso intuizioni
scurate da indiscusso impero.
Per esso ne seguiamo le trame nel solco,
e gridiamo idioti al sole che edifica.
Ed abitiamo rigidi ciò che è sfera limpida e intatta.
Ed insultiamo senza pause la morte che
ci invita a cibi diversi.
Ecco, vorrei, ora, fermarmi come
l'ulivo padroneggia l'amara rocca
muta, ascoltando come chi
nasce la voce solo di una creazione,
solo l'assenzo di un vergine fiore
al tuono giovane
di un nuovo vento.



"Inno impersonale"

Nella meraviglia semplice d'esser poeta,
io poeta mi muto.
Non concerto liriche glorie ed il mio verso duetta fuggendo
nell'abbandono di ridicole danze di mosche predone.
In verità, solo amo, dividermi in giochi vari
nelle erbe o tra rivoltosi avanzi di decenza, nelle addomesticate piazze,
in qualche varco di inesplorata civiltà dove io mi taccio.
ovunque mi invita l'umano accoppiamento; io proseguo e percuotendomi
nel cuore mio convulso a voi m'arrendo: perché lunga è alla vita la dolce età
della penna.



"Per chi sempre s'accompagna"

Domani, con voi, in un piccolo campo
scalerò
immerso
nella buia pelle druda
debole
d'umana invenzione.



"Passano i gendarmi"

Passano i gendarmi e poi
le guardie rosse e poi
quelle nere e quelle grigie... passano
nelle loro sconce, grosse divise
e schizzano di materia estorta
le malte che alzano i muri bolsi.
E passano... e le viole stramazzano;
e i fiori di camomilla stramazzano
e sventrano le rose gialle
e quelle bianche
e quelle rosse dalle vene di rovi
ricamati dalle grasse, corrotte signore
e da quelle affannate da carni lucide
come porcellana.
E passano i gendarmi, nemmeno più
aspettano le tristi albe attorcigliate di
rattrappiti uomini.
Hanno chiuso la vita in un ricordo
e per loro gela la notte... e per loro la notte gela.
Ma, intanto... passano e passano e passano...



“Canto di vittoria”

Gli stronzi li ho incontrati
in questo mondo rosa, cretini esemplari
erano; uomini tipici, scordati
come violini deformi di ubriachi,
grassi cantastorie.
Eppure non li ho odiati,
almeno non più di quanto
si possano o si debbano odiare
le mosche maleducate e sbarazzine
che ti succhiano la pelle placida e dolce
di miele solare.
Se fosse possibile li butterei in catene,
tutti,
su di un fusto di rampicante
così, finalmente sconfinerebbero
negli alti strati evoluti,
che non siano la cintola perforata
dei loro pidocchi.
Ma, tanto, infervorandosi,
anch’essi distinguono,
in circostanze rare,
tra satana e il Dio testamentario.
Anche essi si macchieranno
del peccato della morte,
in particolare perché
quello della vita l’hanno già consumato.
Ed è, amen,
solo, con la pietà,
che ve li ho raccontati
svestito da abiti di principessa,
senza oli aggiunti,
con la fede colpevole
di chi prega per un posto
denso d’ombra, anche malfatta,
al riparo di una quercia senile
che ti piscia sgravate ghiande
che riparano,
aspettando le piogge nuove.



"Un riporto, una crosta... un fremito di freccia."

Scusate se piango ogni tanto anch'io
e scusate se rido anch'io ogni tanto,
scusate se sono appartenuto alla notte e pure
inequivocabilmente alle aperte porte del giorno.
Scusatemi fratelli d’anima
figli della stessa carne.
E scusatemi se ho bisogno di dire
e non lo faccio;
Scusate se offendo la vita nutrendomi
del suo tempo.
Scusatemi se non sono un Dio,
né un eroe vivente,
ma, io non compio miracoli e
come voi,
verso sangue,
ed intero ed intatto è il fregio del mio dolore.
E scusatemi se non ho arredi bianchi e profumati
dal sapore di violette
da offrire alle probe lavandaie della fonte.
E scusatemi se non saprò mai far crescere
il grano e l’ulivo di Cristo;
se non coltivo la vite e non libero
le bocche dei camini
dai soffocanti fuochi dell’inverno.
E scusatemi se qualche volta turbo le
vostre menti quiete e curate di progresso o se
sbadatamente vi importuno bestemmiandovi,
e scusatemi se quando l’oscura unghia
mi chiude;
io suono l’arpa maledetta degli uomini.
Scusatemi,
se salvo i vostri bambini,
mascherandogli le facce con i trucchi
di grassi pagliacci.
Scusatemi miei uccelli senza cielo
se io me ne volo via
lasciandovi solo
il fetore prigioniero della mia morte.


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Ins. 03-04-2003