Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconti di

Mario Giliberti

 
Una cena particolare
 
L'edificio comunale era antico, forse esisteva da oltre un secolo. Da un ampio portone si entrava nell'atrio. Alla destra e alla sinistra del piano terra vi erano due vani adibiti a aule scolastiche. Una scalinata a due rampe portava al piano superiore che comprendeva un salone per le riunioni, il gabinetto del Podestà e l'ufficio del Segretario. Una sola Guardia comunale badava all'ordine pubblico, faceva da applicato di segreteria e da scrivano per i cittadini analfabeti. Le pareti del salone erano tappezzate di scaffali pieni zeppi di registri di documenti vari e altre vecchie scartoffie.
Con questa situazione arrivammo al dopoguerra.
Come primo atto si provvide a costituire un'Amministrazione democratica. Furono indette per la prima volta le elezioni. Si fece la votazione e vennero eletti i rappresentanti della lista vincente. Furono poi designati a maggioranza il Sindaco, l'agricoltore Salvatore Renzulli e il Vicesindaco, la mia persona.
Le condizioni ambientali erano pessime. Il paese era rimasto indietro forse di secoli: strade dissestate, quasi impraticabili, scarsa o inesistente illuminazione pubblica, vicoli sporchi, con selciati tutti sconnessi, vecchie case pericolanti e senza servizi igienici. I contadini vivevano alla giornata con quel poco che ricavavano dal lavoro dei campi.
I benestanti erano pochi. Avevamo il parroco, il medico, il farmacista, i maestri e un paio di agricoltori facoltosi. Bisogna considerare che eravamo usciti da una guerra disastrosa e la vita, specie dei contadini e degli operai, era diventata difficile. Le famiglie si industriavano alla meglio per vivere dignitosamente. In quasi tutte le case, per esigenze di primaria importanza, si allevava il maiale, che veniva macellato nei mesi freddi di gennaio e febbraio. Il prodotto lavorato veniva consumato con parsimonia solo nei giorni festivi, eccetto casi eccezionali. Tuttavia, una volta all'anno, in questa occasione si chiudeva un occhio.
Per festeggiare l'avvenimento s'invitavano a pranzo i parenti e gli amici intimi. In genere il pranzo consisteva in una spaghettata, braciole di maiale, provolone piccante e vino vecchio conservato per l'occasione. Anche il Sindaco macellò il suo maiale festeggiandolo con numerosi inviti. Io non fui invitato, forse per distrazione. Salvatore riparò con una trovata geniale. Un sabato sera mi convocò sul Comune e volle farmi una sorpresa. Nel salone c'era una vecchia stufa a legna che veniva accesa solo nelle giornate molto fredde e quando nevicava.
Ma quella sera eccezionalmente venne accesa per farla funzionare da barbecue. Il Sindaco pensò bene di portare sul Comune un bel piatto di carne di maiale tagliata a fette. Non appena si formò la brace nella stufa, prodotta dalla legna consumata parzialmente, arrostimmo la carne, che intanto emanò un profumo invitante, e la mangiammo con gran piacere. Però, poiché la legna non era ben secca, fece molto fumo.
In breve nel salone si formò una nuvola grigia che impediva di vedere chiaro. Sembravamo fantasmi che si muovevano come automi. Eravamo giovani e non badavamo al disagio. Anzi il fatto insolito ci divertiva. Senonché questo maledetto fumo fuoriuscì dalle imposte sconnesse, invadendo la piazzetta antistante.
L'uscita a sbuffi del fumo dalle lesioni e la fioca luce della lampadina elettrica, che appariva a lampi dagli spiragli, dava l'impressione che era scoppiato un incendio sul Comune. Un giovane di passaggio, vista la piazzetta piena di fumo e la sua provenienza, si affrettò a gridare: Al fuoco! Al fuoco! il Comune brucia! Fu avvertito il Parroco che fece suonare le campane a martello.
In poco tempo la piazzetta si riempì di persone. Gli uomini erano pronti per dare una mano. Le donne piangevano invocando il Signore. I bambini strillavano impauriti. La Guardia corse dal Sindaco per avvertirlo del disastro e disporre i provvedimenti del caso, ma purtroppo era assente per urgenti impegni presi in precedenza. Il portone del palazzo comunale era chiuso e le chiavi, normalmente custodite dalla Guardia, per distrazione erano rimaste nelle tasche del Sindaco dal giorno precedente. Bisognava prendere subito una decisione. Occorreva chiedere l'immediato intervento dei Vigili del Fuoco di Avellino. Il numero di telefono era custodito sul Comune e le abitazioni ne erano prive. La Guardia Comunale, la più alta Autorità in carica presente, scelse un giovane ciclista molto bravo (era stato anche campione di velocità), il quale corse ad Avellino a chiamare d'urgenza i pompieri.
Intanto, visto che la situazione prendeva una brutta piega, per non suscitare l'indignazione della gente per l'incidente non voluto e non previsto, io e Salvatore ci affrettammo ad uscire da una porticina secondaria che immetteva in aperta campagna e ci allontanammo senza essere visti.
Dopo parecchio tempo arrivarono i Pompieri. Forzarono il massiccio portone di legno con il grimaldello. Corsero nel salone con la pompa pronta per spegnere l'incendio, ma fortunatamente non riscontrarono fiamme, documenti bruciati, distruzioni. Solo avvertirono un fumo residuo che andava diradandosi e un odore strano, acre, che sapeva di bruciato. Da persone esperte e competenti subito trovarono il movente dell'accaduto. La stufa aveva provocato la caduta sul pavimento della legna parzialmente accesa, sviluppando tutto quel fumo che aveva destato tanta preoccupazione. La Guardia si recò di nuovo dal Sindaco, che nel frattempo era rientrato dalla missione. Messo al corrente, si precipitò al Comune per accertare i danni, ma anche lui constatò che, per fortuna, nulla era successo di grave. Solo le pareti del salone erano un poco annerite. Volle però affacciarsi al balcone per ringraziare i cittadini che, con tanta premura, erano accorsi per dare un aiuto. La folla ringraziò commossa con un lungo applauso. I pompieri, da parte loro, si congratularono con il Sindaco per lo scampato pericolo e velocemente si allontanarono a sirene spiegate.
 
 
 
Il Letto
 
La "Corriera" partiva dal paese tutte le mattine per trasportare gli studenti che frequentavano le scuole medie funzionanti solo nel capoluogo. Usufruivano di questo mezzo anche i paesani che si recavano al Centro per fare gli acquisti o sbrigare eventuali pratiche presso gli uffici provinciali. Il ritorno avveniva nel tardo pomeriggio. Non esistevano mezzi di trasporto alternativi, perché bisogna considerare che eravamo nell'immediato dopoguerra. Solo un signore benestante del posto possedeva una vecchia 'Millecento' con la quale mi avrebbe accompagnato volentieri nella sede scolastica col ritorno a casa la sera stesa, evitandomi il pernottamento.
Ma c'era un inconveniente. Per avviare la macchina bisognava spingerla a mano con l'aiuto di altre persone. Mi avvertì pure che il moto spesso faceva i capricci e si fermava lungo il percorso. In questi casi occorreva, a volte, attendere delle ore prima che una macchina di passaggio si fermasse e l'autista fosse disposto a dare una mano. Per questi motivi era più sicura la 'Corriera'. Infatti in un paio d'ore, con questo mezzo pubblico, che in fondo era un 'pulmanino' con dieci posti, si poteva giungere a "Consolazione", piccolo paese dell'entroterra irpina, dove funzionava una scuola popolare. Dunque preferii prendere la 'Corriera'. La strada non era asfaltata. Molte buche e avvallamenti facevano sobbalzare il 'pulmanino', provocando fastidiosi scossoni tra i viaggiatori. Durante il percorso non mancarono incidenti. Una donna anziana avvertì un forte mal di stomaco e pregò l'autista di fermare un istante, onde evitare incresciose conseguenze antigieniche nel chiuso del mezzo di trasporto. Un altro signore, che aveva trovato posto in fondo all'abitacolo, in un forte sobbalzo, andò a finire con la testa contro la tettoia bassa del 'Pulmanino', procurandosi numerose ecchimosi. Come Dio volle giungemmo nella piazza del paese. Fui ricevuto dall'insegnante fiduciario e da altre tre maestre che risiedevano sul posto.
Dopo i convenevoli, mi accompagnarono in una scuola popolare ubicata in una casa di campagna non molto lontana dal paese. Cinque banchi con dieci alunni e la maestra. Tutti presenti. Evidentemente erano stati avvertiti dell'arrivo del direttore. Dopo i saluti rituali, la maestra fu invitata a fare lezione. Un dettato in mia presenza diede buoni risultati. Seguì una conversazione sulla coltivazione dei campi. Gli alunni, tutte persone adulte, rispondevano da esperti alle domande specifiche. Erano contadini e conoscevano alla perfezione i sistemi di lavorazione e la rotazione delle diverse colture agricole. La visita ebbe termine con la stesura di un verbale. Intanto si era fatto tardi, quasi notte. Tornammo al paese.
Pregai il fiduciario di prenotarmi una camera d'albergo o, in mancanza, un posto per dormire in una locanda.
Il maestro sorrise divertito annunziandomi che in paese non erano mai esistiti alberghi e nemmeno locande. E aggiunse che i precedenti direttori, quando venivano per le visite alle scuole serali, accettavano l'ospitalità del fiduciario. D'altra parte, considerando la lontananza della direzione didattica dai numerosi plessi scolastici e le difficoltà del viaggio, le scuole venivano visitate raramente.
Il maestro fiduciario, quindi, faceva da collaboratore, assumendo pacificamente la veste di dirigente del plesso. Infatti i paesani lo chiamavano direttore. Intanto dovevo prendere una decisione poco piacevole, relativa all'invito del fiduciario, perché il regolamento non lo consentiva. Ma questo benedetto regolamento nemmeno indicava come bisognava risolvere la questione in eccezionali circostanze. Fui costretto, quindi, ad accettare il cortese invito. L'abitazione del fiduciario era ubicata al centro del paese. Una bella casa antica con portici e giardino. Ci accomodammo in salotto per prendere un caffè caldo. Il fiduciario ebbe l'occasione di riferire sull'andamento scolastico e sull'assiduità delle maestre, mettendo in evidenza il buon lavoro svolto, ma anche facendo rilevare i pettegolezzi e gli intrighi che non mancano mai nell'ambiente.
Frattanto si presentò in salotto la moglie, una bella donna, napoletana di nascita, che si dimostrò nei miei riguardi, molto cordiale e garbata, come è costume dei veri napoletani.
Mi pregò di accomodarmi nella vicina sala da pranzo. Venne servita una cena coi fiocchi dalla stessa padrona di casa. Dopo una lunga e non troppo piacevole conversazione, oltre che su argomenti scolastici, anche su fatti e misfatti accaduti in paese, la signora augurandomi la buona notte, prese commiato. Il fiduciario, visto che si era fatto tardi e che, preso dalla stanchezza, desideravo riposare, mi accompagnò nella camera da letto, appositamente predisposta per gli ospiti. Il letto era antico, costruito in ferro battuto, di colore nero. Alle estremità delle spalliere, da capo e da piedi, al posto dei pomi erano state sistemate quattro piccole lampadine elettriche elicoidali, che vennero subito accese, non essendoci altra fonte di luce. Il fiduciario, per non apparire troppo pedante, andò subito via, dopo avermi augurato una santa notte. Rimasto solo, alla vista di quelle luci sporgenti ai quattro angoli del letto, rimasi atterrito. Ebbi l'impressione di trovarmi in una camera funeraria.
Il cuore cominciò a battere forte. La pressione arteriosa saliva. Un tremito insolito passò per il mio corpo. Mi assalì il presentimento che doveva accadermi una disgrazia.
Si presentarono davanti ai miei occhi immagini di defunti su letti funebri, con quattro candelabri accesi intorno nel silenzio sepolcrale della notte. Non ebbi il coraggio di entrare in quel letto: sarebbe stato di cattivo presagio. Mi sistemai alla meglio su una vecchia poltrona, di quelle antiche e dure. Vi rimasi tutta la notte senza chiudere occhio.
Una sveglia sul comodino scandiva i secondi col suo tic-tac inesorabile, come per dire che tutto ha fine nella fuggitiva nostra esistenza. La mente vagheggiava. Vedevo fantasmi dappertutto. Fantasmi che ballavano sul letto. Risate sataniche che mettevano i brividi. Ombre che si avvicinavano, si allontanavano facendo schiamazzi terribili. Avrei avuto voglia di uscire, di fuggire all'aperto, di gridare, di chiedere aiuto, ma mi trattenni per non amareggiare i padroni di casa che mi avevano ospitato con tanto piacere. Dopo una lunga notte piena di incubi, finalmente intravidi una tenue luce attraverso le persiane della finestra. Incominciava a fare giorno. Ripresi coraggio. Per ovvi motivi mi adoperai a disfare il letto. Poi spalancai la finestra respirando l'aria pura. Mi sembrò di rinascere rivedendo gli alberi, le verdi colline e il primo biancheggiare del cielo. E attesi. Verso le ore sette venne bussato alla porta. Era la signora padrona di casa che gentilmente mi portava il caffè. Dopo essersi assicurata che avevo dormito a mio agio, mi annunziò che alle otto partiva la 'Corriera' per il capoluogo.
 
 
 
Il cappotto
 
Ai miei tempi si andava alle 'medie' a Avellino, perché solo nel capoluogo esisteva tale ordine di scuole. Spesso si andava a piedi, lungo la strada ferrata, che era il percorso più breve. Erano tempi difficili. In famiglia le entrate erano limitate. Mio padre, stimato farmacista del paese si era spento a 44 anni, lasciando cinque figli in tenera età. Bisognava essere parsimoniosi in tutto, specie nel vestiario. Le circostanze, infatti, consigliavano, nella stagione invernale di mettere in uso un capotto che, con gli anni, era diventato consunto e anche con qualche toppa. La mattina si partiva presto per andare a scuola. Bisognava imboccare la stradina laterale alla linea ferroviaria, prima che i 'Militi' (eravamo in periodo fascista) comparissero per le ispezioni.
Infatti era severamente proibito usufruire di quella stradina laterale. Pena: multe salate e perfino l'arresto. Si temevano attentati ai convogli. Eravamo in dicembre. Il freddo era intenso. Ma bisognava andare a scuola lo stesso. La mamma era severa al riguardo. Non tollerava la perdita di una sola ora di lezione. Che differenza tra allora e adesso!
Oggi, in simili circostanze, sono gli stessi genitori a far rimanere in casa i ragazzi, anche contro la loro volontà. Io ero più accomodante. Mio fratello Rocco, più grande di me, quasi un giovanotto, era più esigente. Non voleva andare a scuola con quel cappotto sdrucito e pure con le toppe. Con le scarpe poteva rimediate, perché erano state rinforzate dal ciabattino, con i chiodi alle suole per farle durare più a lungo. Rocco piangeva, strillava, non voleva uscire in quelle condizioni nonostante le insistenze e qualche schiaffetto della mamma. Come fare? Bisognava escogitare un sistema per convincere il ragazzo. In certe situazioni le mamme sanno trovare sempre la soluzione adatta. Mia madre si ricordò di suo fratello Lorenzo, che viveva nel vicino Comune di S. Lucia. Mio zio era benestante. Aveva una bella casa grande, quasi un palazzo, piena di comodità. Di fronte alla casa c'era un terreno arborato, con frutti di ogni specie. Dietro la casa esisteva un giardino, con viti di uva da tavola dolcissima. Il palazzo era solido, costruito con pietre scalpellate fino al primo piano. Mio zio possedeva anche una discreta cultura. Aveva frequentato il Ginnasio al 'Colletta' di Avellino. Avrebbe potuto fare l'impiegato, approfittando dell'amicizia personale del 'Federale' il quale era in grado di fargli avere il posto di Segretario Comunale nel suo stesso paese. Lo zio rinunziò. Preferiva vivere di rendita. Beato lui! Mia madre pensò subito a zio Lorenzo. Occorreva chiedere consigli e aiuti all'unico fratello rimasto.
Di buon'ora, molto prima dell'inizio delle lezioni nelle scuole, si recò a S. Lucia. Dopo ragionamenti accesi e ripetute insistenze, zio Lorenzo si convinse e, per accontentare il nipote, prestò il suo cappotto di un bel colore grigio ferro, nuovo di zecca, custodito nell'armadio per le grandi occasioni. La mamma, felice e contenta, ritornò in fretta a casa col prezioso indumento. Chiamò Rocco che, nel frattempo, si era nascosto nel sottoscala e faceva orecchi da mercante. Poi, alle continue chiamate, che divennero perentori ordini, uscì allo scoperto. La mamma gli mise addosso il cappotto nuovo. Purtroppo era lungo, arrivava alle scarpe. Comunque la mamma preparò la cartella con i libri, aggiungendo anche la merenda come contentino e spinse Rocco verso l'uscio. A questo punto il ragazzo incominciò a piangere, a sbraitare, a battere i piedi per terra. Non voleva uscire in quelle condizioni. Diceva di sembrare un fantoccio. L'ora si avvicinava. Bisognava fare presto. Ma come? in pochi minuti si organizzò il consiglio di famiglia, unitamente alle nostre due sorelle. L'altro fratello, direttore di dogana, viveva lontano. Fu richiesto il suo parere telefonicamente. Bisognava decidere. La mamma ebbe un lume improvviso, un lampo di genio. Non badò più a nulla. Non richiese altri pareri. Rocco non doveva perdere il giorno di scuola. In un attimo afferrò il cappotto nuovo dello zio Lorenzo. Lo distese sul tavolo da pranzo e senza andare per il sottile, con quattro forbiciate, irregolari e approssimative per la fretta, mozzò il cappotto, accorciandolo di circa trenta centimetri. Poi, stanca e disfatta, si lasciò cadere su una sedia dando un sospiro di sollievo. Rocco, più o meno accontentato, indossò il cappotto, anche se era molto largo di spalle, ma in compenso era almeno di lunghezza normale. Si avviò, brontolando, per la strada ferrata, accelerando il passo. Tutto andò liscio fino al suo ritorno e per i tre giorni successivi. I guai incominciarono la domenica mattina, quando arrivò lo zio Lorenzo per ritirare il cappotto, perché doveva partecipare alla cerimonia nuziale della cognata. Figuratevi quello che successe, quando vide il suo cappotto nuovo ridotto in quello stato: mozzato, sfregiato, diventato inservibile. Apriti cielo! Lo zio litigò con la sorella per più di mezzora, con parole dure, anche con minacce. Poi, inviperito, si allontanò in bicicletta, senza nemmeno salutare. E per alcuni mesi non si fece più vedere.
Il fatto, se da un lato provocò polemiche, dispiaceri e danni, dall'altro lato appagò mia madre, perché il cappotto restò a Rocco.
 
racconti tratti dal volume 'Un antico contemporaneo', Edizioni Fermenti
 
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inserito il 4 maggio

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