Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconti di
Eda Marina Lucchesi

Occhi deboli
 
Paola aprì la porta. Nella penombra che soffondeva il pianerottolo, la sua figura sottile si stagliò nitidamente scura contro il chiarore dell'interno.
- Entra! - esordì gioiosa.
Entrai. Mi abbracciò schioccandomi due baci sulle gote, poi s'allontanò e sorrise strizzando i suoi occhi deboli. Da albina. Natura che la metteva fortemente a disagio e che tentava di nascondere tingendo i capelli di biondo e truccando ciglia e sopracciglia di nero. Non lo aveva mai confessato neppure a me, io lo avevo saputo da un'amica comune. La tradiva, però, un'assenza di colori: l'incarnato troppo bianco e le iridi di un'incerta sfumatura rosata. Risposi al sorriso con un sorriso e strizzai i miei occhi deboli. Ma la mia situazione era diversa
dalla sua, più grave. Patologica. I miei occhi non potevano mentire. Tuttavia anch'io m'illudevo di poter bluffare. Tingendo i capelli di biondo e giocando alla svampita.
- Come stai bene, sei dimagrita. - continuò.
Ripensai a una sera di un anno o due prima, in una palestra dove ci incontravamo, per fare teatro, con alcuni studenti del corso di laurea in spettacolo che tentavano un esperimento insieme a giovani minorati della vista. Lei naturalmente non figurava fra questi ultimi e nemmeno tra i primi. Era iscritta a Filosofia, ma riteneva "l'esperienza altamente formativa e interessante anche filosoficamente". Io non avevo la minima idea di che intendesse dire, ma non chiesi spiegazioni per non fare brutta figura. Ora mi domando se qualcuno avesse capito di che accidenti parlasse. Forse non lo sapeva neanche lei. La sua unica preoccupazione , probabilmente, era di tracciare una linea di demarcazione netta per non essere confusa con noi, i minorati della vista.. Ebbene, quella sera di uno o due anni prima, uno dei ragazzi del corso di laurea in spettacolo s'era complimentato con me dicendo che ero una bella ragazzona in salute. Paola, in piedi fra lui e me, torcendo naso e bocca, aveva commentato: - Anche troppo!
Forse era vero. Alta, soda, con un seno florido, le gambe tornite, ero proprio diversa da tutte le altre con quell'aspetto così tisicamente alla moda. Allora non me l'ero presa, e adesso mi schermii.
- Ma sì, ma sì ti dico! - tirò avanti lei - Sei in perfetta forma. - poi soggiunse con un imbarazzo affettato - Oh accidenti, mi dispiace sul serio per quest'inconveniente.
L'"inconveniente - " era un ragazzo di cui si era innamorata e che ora viveva con lei, mandando in fumo gli accordi presi prima dell'estate di dividere il suo appartamento con me. Infatti dopo la metà di agosto una lettera mi aveva annunciato la novità. Però mi tranquilizzava: mi avrebbe aiutata a trovare una soluzione. E ora eccomi lì, a piedi e speranzosa.
- Comunque stai allegra, - stava dicendo - io non pianto in asso un'amica. Guarda, ho preparato una lista di affittacamere. - Mi sventolò davanti un foglio. - E ora che ne diresti di un tè? Accettai.
- Accomodati pure dove vuoi...
Raccolsi l'invito e andai in camera. Quell'appartamentino all'ultimo piano del decrepito stabile lo conoscevo bene: due stanze scalcinate e un bagno che meritava senz'altro il titolo di cesso. Mi sedetti sul letto posto sul parete di fronte alla finestra. Un altro lettino era messo ad angolo contro il muro adiacente.
"Il mio letto!", non potei fare a meno di rammaricarmi fra me e me. - Le lezioni d'inglese me le darai lo stesso, vero? - chiesi da una stanza all'altra.
- Sicuro! - trillò Paola dalla cucina.
Roteai lo sguardo incerto tutt'intorno fermandolo sulla chitarra in piedi per terra, la parte posteriore addossata all'armadio..
Mi parve abbandonata. Come me. Io l'avrei trattata meglio, pensai. Io, però, non possedevo una chitarra, non sapevo nemmeno suonarla, riuscivo sì e no a fare tre accordi in croce. Lei invece suonava bene, o almeno così mi pareva. Credo che avesse imparato in Inghilterra, forse addirittura all'isola di White, dove aveva anche praticato il libero amore. Io la invidiavo apertamente, nel senso buono: non per il libero amore: per l'isola di White! E per quegli anni di differenza fra noi che la rendevano grande e irraggiungibile ai miei occhi. Inoltre era abile in varie attività nelle quali io stessa avrei voluto cimentarmi: ballava, recitava, cantava. Soprattutto parlava e scriveva correttamente l'inglese.
Mi raggiunse, due tazze di te su un vassoio di legno decorato e un contenitore di latta con dentro qualche frollino superstite. Si sedette di fianco a me.
- Ottimo! - apprezzai dopo un paio di sorsate.
- L'ho portato da Londra. Senti, - cambiò discorso - che hai deciso? Fai ancora teatro?
- Non so, forse lascio. - risposi infilando la mano nella scatola di latta - Anche i frollini sono inglesi?
No, danesi. Ridacchiò: - Però non li ho portati da un viaggio all'estero, ma da uno al supermercato.
- Ecco, - risi di rimando - quel viaggio lì lo faccio spesso anch'io.
- In ogni modo, per il teatro, hai ragione. S'è tutto arenato. All'inizio c'era un entusiasmo! ma poi...-, s'interruppe.
- All'"inizio" - sottolineai con il tono della voce - "quando tu non c'eri", non immagini nemmeno quante idee, quanti progetti!
- Finisce sempre così. - sospirò. - Quando si comincia qualcosa, fuochi d'artificio, e poi giù, flop!
- Non è il tuo caso - dissi.
- Non è il mio caso? Scherzi? Guarda che schifo con l'università, non riesco ad andare avanti. Spero davvero che tu saprai fare di meglio, matricolina.
E il tuo ragazzo che fa?
- Suona.
- E' un musicista?
- Di strada. In questo momento, come ogni giorno, è al sottopassaggio con la sua chitarra e col suo piattino.
- Affascinante! - esclamai sincera. Lo avrei voluto anch'io un ragazzo così, seppure mia madre lo avrebbe bollato come "zingaro", che nel suo vocabolario non significava Rom, bensì perdigiorno e accattone.
- Affascinante, sicuro, - fece lei - ma soldi pochi.
- Però chissà che belle serate e che gioia in questa casa..
- Vallo a dire ai vicini - rise forte strizzando ancor di più i suoi occhi deboli. Io abbassai i miei su un'improvvisa tristezza. E così l'"inconveniente", quello che mi aveva fregato il posto letto, stava acquistando un profilo, uno spessore. Doveva avere anche un qualche nome, tuttavia non lo chiesi.
- A che pensi? - domandò.
- Mi fa strano essere all'università, mi sento diversa. Grande.
- E così all'inizio - disse poggiando sul pavimento la tazza ancora piena per metà. Posai la mia accanto alla sua.
- Non ne vuoi più?.
- E' tanto, neanche tu l'hai finito.
- Oh, ma io lo bevo tutti i giorni! - Poi, subito dimentica del tè, come rapita soggiunse: - Guarda che luce! - E sfarfallò lo sguardo nel bagliore che aranciava la stanza.
Mi alzai, presi la chitarra per il manico e gliela porsi.
- Perché non suoni qualcosa?
- Certo. - assentì, ma le sue mani restarono inerti sulle corde, estatiche come i suoi occhi deboli.
- Suona! - le intimai implorante.
- Non qui, non qui. - Scattò in piedi, la voce e le mani percorse da un'improvvisa eccitazione. - Vieni!
Uscì dalla camera in fretta, io la seguii in cucina.
- Vieni! - ripeté prendendo a salire la scala che conduceva a un terrazzino in mezzo al tetto.
Un fuoco d'oro rosso incendiava l'aria. Ci sedemmo per terra. Spinsi lo sguardo fra i tetti, tra i muri rossi dei palazzi. Non volevo pensare che un giorno nel futuro, non sapevo quale, tutto quel colore nei suoi particolari, nei toni, nelle sfumature, sarebbe rimasto solo un meraviglioso ricordo. Ma intanto ci pensavo.
"Quando accadrà?" chiesi tra me e me, ascoltando i tonfi del mio cuore, mentre Paola già suonava e cantava strizzando i suoi occhi deboli:
- Risposta non c'è, o forse chissà...

Naschtmarkt
 
L'ascensore s'aprì.
In un mirabile gioco di luci e specchi, la hall ci accolse nel cuore di un prisma scintillante come un diamante della KärtnerStrasse. Voci sconosciute e tra loro straniere vorticarono nell'aria, seguendo il ritmo luminoso dei cristalli.
Poi lasciammo che la periferia viennese ci abbracciasse, pungendoci il viso.
Vacanzieri da poche ore, eravamo alquanto incerti su come muoverci attraverso la città. Sulla MariahilferStrasse, la stazione della metropolitana e degli autobus sembrava deserta. Poco distante ammiccava la WestBahnhof. Forse al suo interno avremmo trovato qualcuno.
Una ragazza ferma sul marciapiede ci guardò. Ignorandola entrammo nella stazione ferroviaria.
C'erano poche persone e quelle poche andavano di fretta.
Tornammo indietro.
Come da manuale, il mio compagno domandò alla ragazza ferma sul marciapiede: "Excuse-me could you help me?".
"Parla italiano" fu la risposta. Sorpresi le esponemmo la situazione: volevamo andare al Naschtmarkt, ma non sapevamo come raggiungerlo ed ormai mancava soltanto un'ora alla chiusura.
"Siete fortunati, aspetto un amico. Doveva essere già qui. io sono ancora qua perché lui ritarda. Lui può spiegare bene". Si esprimeva con chiarezza, seppure con un imprecisato accento straniero.
"Siete in vacanza?". Sì, lo eravamo, ma solo per qualche giorno. E Vienna era un contagio, uno struggimento che attanagliava di sospiro in sospiro. Ci tenevamo stretti l'uno all'altra, respirando il vento che scorrazzava secco e pulito. Faceva molto meno freddo di quanto avessimo immaginato prima di partire. Lo dicemmo alla ragazza ferma sul marciapiede e lei disse: "Io mi frego di freddo. Porto minigonna anche con freddo. Non mi fa paura. Nulla mi fa paura, nemmeno la polizia. Visto quanta? A Zurigo non era così, ho abitato quattro anni e mai visti tanti poliziotti come qui in un giorno solo. Un angolo, un poliziotto. Sempre addosso. Sempre. Fumate?". Lui ringraziò rifiutando. Io accettai ringraziando.
Mi venne pensato che soltanto un paio d'ore prima, il mio compagno ed io avevamo commentato con meraviglia il fatto di non aver incontrato nemmeno un poliziotto. Eppure avevamo girato per tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio. La ragazza con la minigonna disse ancora: "Nemmeno in Italia poliziotti danno fastidio. Mi piace Italia perché italiani sono come noi".
Il fumo mi bruciò nella gola.
Qualcosa d'imprevedibile aveva preso ad agitarsi dentro di me, sillabando smozzicati balbettii. Con l'innocenza di chi inconsapevolmente conosce già una risposta che non vuole sentire, domandai:
"Sei di Zurigo?"
"Chi io? Sei matta? Sono albanese, io".
L'imprevedibile dentro di me fece un tonfo, si fermò, poi ricominciò ad agitarsi balbettando qualcosa di molto improbabile. Dissi che si stava facendo troppo tardi e che dovevamo proprio andare, se volevamo giungere al Naschtmarkt prima della chiusura. La ragazza con la minigonna m'interruppe: era colpa sua se avevamo perduto tutto quel tempo e lei avrebbe rimediato proponendo al suo amico di darci un passaggio.
Schiacciai con forza la cicca sotto il tacco.
Andammo avanti a chiacchierare, l'amico non arrivava ed io perdevo di continuo il filo del discorso. Imprevista la coda di una frase mi sferzò come un colpo di ramazza: "...presento. Faccio spettacolo".
Non feci domande sul genere di spettacolo. Avevo già la risposta. Dissi: "Sei gentile, però se rimaniamo ancora il Naschtmarkt chiuderà ed io voglio andarci. Subito." Salutando frettolosamente, spinsi il mio compagno nella FelberStrasse. Attraversammo di corsa e finalmente detti voce ai miei timori: non potevamo fidarci di quell'albanese, chissà chi era! Probabilmente una prostituta. Non sapevo se lui avesse avuto i miei stessi pensieri, ma ora non avrebbe potuto più ignorarli.
La scala che scendeva verso la sotterranea era ormai a pochi passi, quando la voce della probabile prostituta arrestò la nostra fuga. C'era una macchina ferma accanto a lei, con dentro un uomo: il probabile protettore.
L'improbabile che avevo dentro prese a contorcersi disperato. Vigliaccamente mi sottomisi all'ineluttabile.
Sedemmo sui sedili posteriori.
Il probabile protettore parlava in albanese, la probabile prostituta traduceva. Egli trovava che la nostra lingua fosse straordinariamente bella e con i suoi amici si pavoneggiava fingendo di conoscerla. Loro lo ammiravano ed erano un po' invidiosi. In realtà le cose non stavano così e davanti ad un italiano non avrebbe osato pronunciare nemmeno una parola.
Conversavamo come un gruppo affiatato e scherzavamo ridendo, ma intanto frenetici mozziconi di telegiornale da edizione della sera zoomavano dalla memoria.
Notai che anche Vienna aveva strade strette e buie. Non sarebbe stato difficile immobilizzarci e rapinarci. E avevamo portato tutto con noi, documenti, soldi, tutto, però ora dovevo rimanere calma. Se ci avessero derubati il consolato avrebbe sistemato ogni cosa. Ma era necessario mantenere la calma. Istintivamente toccai la mia fede nuziale: no, non sarebbe stato possibile sistemare ogni cosa. La probabile prostituta stava dicendo che il suo amico e lei provenivano da regioni distanti tra loro e con differenti usanze. Anche loro due erano diversi, pensavano diversamente e in modo diverso parlavano.
"Lui come Sicilia, io come Toscana. Si può capire questo?"
Sì, questo si poteva capire, e poteva anche capitare di andare a morire in un vicolo di Vienna.
L'automobile si fermò.
La probabile prostituta disse: "Ecco questo è Naschtmarkt". In alto sopra di noi, intermittenti iridescenze annunciavano il Natale ormai prossimo. Con un sospiro di sollievo schizzai in strada e la vergogna mi schiacciò. Era giunto il momento dei saluti e i saluti furono calorosi e calorosi gli auguri e i ringraziamenti per quel provvidenziale passaggio.
Mi dissi che in fondo non avevo mai creduto di essere seriamente in pericolo, ma l'improbabile pregiudizio che aveva scalpitato imprevedibilmente dentro di me, ora pareva guardarmi e non appariva più tanto improbabile.


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Agg. 11-04-2005