Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Maria Grazia Catanzani
Ha pubblicato il libro
Maria Grazia Catanzani - ...oltre lo specchio


 
 
 
 
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
 
14x20,5 - pp. 116 - Euro 11,00
 
ISBN 978-88-6037-294-9


Pubblicazione realizzata con il contributo de

IL CLUB degli autori in quanto l'autrice è risultata finalista

nel concorso letterario "J. Prévert" 2001


Incipit

..oltre lo specchio
 

I PARTE
 
 
 
La pioggia scivolava sui vetri in quella grigia giornata di novembre.
Angelica era appoggiata alla finestra.
Quelle brutte giornate sapevano di malinconia. Anche per questo lei odiava i mesi invernali.
Era tanto tempo che non metteva mano al suo diario: altre cose l'avevano tenuta occupata. Delle sue cose questa volta aveva deciso di parlarne con persone di carne ed ossa in grado anche di darle una risposta, cosa di cui, evidentemente, il suo diario non era capace.
Pensava e ripensava. Ma a cosa?
Alla storia che proprio il giorno, anzi, la notte precedente la sua amica e collega Bianca le aveva raccontato.
Aveva dell'incredibile: lei pensava che queste storie si vedessero solo nei film o in televisione, invece erano più reali di quanto pensasse.
Le aveva telefonato due giorni prima.
- Angelica, ciao, sono io, Bianca ... - le disse.
- Bianca? Ma dove eri finita per tutto questo tempo ... sono stata terribilmente in ansia per te, va tutto bene? - le chiese Angelica sorpresa di risentire la sua voce dopo tanto tempo.
Erano passati la bellezza di tre lunghi mesi da quando Bianca scomparve dalla redazione e dalla vita di tutti i colleghi, ma la più preoccupata era proprio Angelica.
Con Bianca aveva instaurato un rapporto molto forte dovuto anche al destino che le ha accomunate fin dalla nascita: e cioè quello di essere entrambe figlie adottive, della stessa età ed anche compagne di lavoro.
Anche le loro famiglie avevano costruito un ottimo rapporto di amicizia, tant'è che i genitori di Bianca avevano, tanti anni prima, chiesto consiglio ai genitori di Angelica sul come fare per adottare un bambino.
Bianca da qualche tempo era tesa e preoccupata, anche se cercava di dissimulare tutto con il suo consueto senso dell'umorismo.
 
 
Al giornale si occupava di cronaca nera, argomento di cui Angelica, per scelta, non si era mai voluta interessare. Angelica intuì che questo suo comportamento derivava proprio da un caso di cui Bianca si stava occupando.
Il caso c'era, sì, ma era ben diverso.
- Mi dici che cosa diavolo ti è capitato? - le chiese Angelica la sera prima, quando la incontrò mentre insieme uscivano dalla redazione dopo il suo ritorno.
- Hai del tempo per ascoltarmi? È una storia molto lunga ... - le disse finalmente e con l'aria più rilassata di chi sta per togliersi un grosso peso.
- Certo che ho il tempo. Vieni da me stasera e avremo tutto il tempo che vuoi - le disse Angelica.
Angelica era capace di ascoltare chi avesse bisogno e per questo era ammirata da tutti, colleghi e non, ma non solo per quello: era anche una bella ragazza.
Quella sera Bianca parcheggiò la propria macchina davanti a casa di Angelica, suonò e lei le aprì.
Aveva appena finito di cenare e stava aiutando sua mamma a riordinare la casa.
- Buonasera - salutò cortesemente Bianca i genitori di Angelica.
- Ciao, Bianca, mi fa piacere rivederti, come stai? - la salutò affettuosamente la mamma di Angelica andandole incontro e abbracciandola.
- Sto bene, grazie - rispose con un sorriso un po' tirato.
- Dai, andiamo di sopra in camera mia - la invitò Angelica.
- Ah ... mamma, papà, chiunque mi cerchi per stasera non ci sono per nessuno ... - disse ai suoi mentre saliva le scale.
Sapeva che quella sera, anzi, quella notte, sarebbe stata molto lunga.
 
Le sembrò di rivivere la stessa scena in cui tanto tempo prima aveva avuto un faccia a faccia con sua cugina.
Si sedettero entrambe sul letto di Angelica e Bianca finalmente cominciò il suo racconto.
 
Erano le sei del mattino quando Bianca scese le scale di casa di Angelica per tornarsene a casa, però ora si sentiva più sollevata e tranquilla.
Angelica per lei era il suo "rifugio": una persona con la quale poter parlare e che aveva sempre qualcosa da dirti e consigliarti.
Per Angelica quella fu l'occasione giusta per riprendere in mano il suo diario, anche perché c'erano alcuni aspetti del racconto di Bianca che le persone non avrebbero potuto capire.
 
Martedì 16 novembre 1999
 
Caro diario,
come mai ho aspettato così tanto per scrivere qualcosa sulle tue pagine? Beh, di cose ne sono successe tante e anche se tu sei il mio confidente preferito, questa volta le cose che mi sono accadute ho preferito discuterle con persone "vere" che mi hanno anche dato delle risposte, cosa che tu non sei capace di fare "I'm sorry".
Siamo nel 1999, tra poco più di un mese ci sarà il cambio di millennio, vivere a cavallo di due millenni non è da tutti. È una data importante che cercherò di vivere nel miglior modo possibile, in pace e in armonia con me stessa, con la mia famiglia e con tutti quelli che mi circondano.
Questa volta, come l'altra, devo raccontarti una storia un po' lunga che ha visto come protagonista una mia carissima amica, Bianca, che lavora con me al giornale.
Perchè non te ne avevo parlato prima? Beh, c'erano questioni più importanti di cui parlare.
Concentrerò tutto in quest'unica data anche se so che ci vorranno alcuni giorni per scriverlo, ma è successo tutto questa notte.
"...Era lì, davanti a me, con l'aria di chi voleva interrogarmi - Bianca aveva iniziato così il suo racconto.
Sapevo benissimo cosa voleva sapere da me, ma doveva essere lui a cominciare il suo racconto, la sua versione dei fatti.
Credeva che io fossi una sprovveduta, così mi alzai dalla sedia di fronte alla grande scrivania nera che ornava il suo ufficio, andai dietro al tavolo e mi misi in piedi davanti a lui con le mani sui fianchi attendendo una sua parola. Certo, i suoi grandi occhi verdi, i suoi capelli neri, la sua bocca grande, il suo corpo possente, il suo viso squadrato e perfetto, troppe volte mi avevano fatto sognare. Ah! Come ero stata stupida, solo ora me ne rendevo conto. Gli chiesi cosa volesse sapere da me, tanto ormai giocavamo a carte scoperte, nessun sotterfugio avrebbe potuto evitare questa partita finale.
D'altro canto solo noi due sapevamo come erano andate le cose, quali erano le regole del gioco e nessun altro avrebbe potuto interferire.
- Lo so cosa vuoi da me, che ti chieda perdono in ginocchio così che tu possa assaporare la mia sconfitta e coprirti di gloria di fronte agli altri, soprattutto di fronte alla polizia che, se non lo hai già fatto, chiamerai non appena io avrò finito di parlare. Piccola mia, l'avevi studiata bene la tua parte. Comunque non ti voglio deludere, tanto non potrai certo raccontarlo a nessuno, ti do la tua ultima soddisfazione... Anzi, no, ho cambiato idea, non voglio farti fuori come ho fatto con lei, ma voglio vedere fino a che punto arriva la tua "sete di giustizia". Ebbene sì, quella rompiscatole l'ho uccisa io. Sai, continuava a dirmi che dovevo smetterla di usare quella roba se non volevo finire male e così l'ho fatta finita, con lei. -
Mentre parlava mi convincevo sempre di più di avere di fronte un pazzo criminale, non riuscivo a credere alle mie orecchie: Sylvia aveva scoperto che il nostro datore di lavoro faceva uso di droghe e voleva aiutarlo ad uscirne, aveva fatto anche il maledetto errore di innamorarsi di lui.
- E così tu l'hai uccisa soltanto perché voleva aiutarti? - gli dissi con il viso che non tradiva la minima emozione, ma con il cuore gonfio di dolore.
- Sì, e ora che lo sai per certo sarai soddisfatta. - Si alzò dalla sua poltrona, mi prese per un braccio e mi portò a forza fuori dall'ufficio.
- Ora usciamo come se niente fosse, non dire nemmeno una parola, altrimenti ... lo sai cosa ti succede! -
Uscimmo dalla porta e incrociammo gli altri nostri colleghi di lavoro. Andrew era dietro di me, mi teneva per un braccio e sorrideva. Io guardavo gli altri come per chiedere aiuto, ma tutti rispondevano solo ai sorrisi di Andrew.
Appena aperta la porta d'ingresso un signore dall'aria molto sicura di sé si rivolse ad Andrew.
- È lei il signor Andrew Molton? - chiese l'uomo
molto educatamente.
- Sì, sono io, desidera? - rispose lui pacatamente.
Prima di replicare l'uomo tirò fuori dal taschino un distintivo della polizia.
- Mi segua alla centrale, per favore! -
Andrew si sentì perso, non sapeva cosa fare, quando una mano mi prese e mi tirò dentro: era Antony che aveva chiamato la polizia e mi stava salvando dalle grinfie di quel mostro!
Lui sapeva tutto. Ma chi glielo aveva raccontato?
- Chi te lo ha detto? - gli chiesi con l'aria soddisfatta e stupefatta.
- Andrew. Lui mi ha detto sempre tutto, si fidava di me, ma stavolta non sopportavo che ci andassi di mezzo tu, sei una persona meravigliosa e non voglio che qualcuno ti faccia del male. Una sera ci siamo ritrovati a cena e parlando mi ha raccontato questo fatto orribile raccomandandomi di non dirlo a nessuno, purtroppo, sapendo che faceva uso di droghe e, soprattutto, non sapendo che sostanze fossero, non potevo contrastarlo per paura di una sua reazione violenta, non tanto per me, ma per la mia famiglia. Mi teneva in pugno, mi ricattava. Diceva che se avessi raccontato ad anima viva cosa facesse, avrebbe fatto del male ai miei genitori e, soprattutto a mia sorella. -
- Dio mio! Era proprio un mostro! - dissi in preda allo sconcerto più totale dopo quel racconto terribile."
Deborah.
Chiusi il diario e lo appoggiai accanto a me sulla panchina del parco su cui ero seduta. Guardai l'orologio e mi accorsi che ero lì a meditare e a scrivere da oltre un'ora. Alzando la testa vidi una papera che passava davanti ai miei occhi galleggiando lentamente sul laghetto.
Quella storia vissuta qualche giorno prima mi aveva praticamente sconvolto l'esistenza. D'altro canto l'unico modo che avevo per sfogarmi era il mio diario: i miei genitori non sarebbero stati in grado di comprendere, anche se gli era fin troppo chiaro che fino a qualche giorno prima avevo avuto a che fare con un pazzo omicida.
Sono stata sempre dell'idea che queste cose accadessero soltanto nei film in televisione, mi sono dovuta ricredere. A mie spese.
Ripresi il mio diario e ricominciai a scrivere. Erano parecchi giorni che non scrivevo più nulla, presa com'ero stata dagli avvenimenti.
19 febbraio 1995
"Caro diario,
presa dagli eventi non ti ho raccontato tutta la storia. Mi rifaccio subito: sono appena uscita da una vera e propria tragedia, Sylvia, la mia più cara amica è stata violentata e uccisa da uno sconosciuto. Per me è stato un dolore grandissimo perché, oltre che una mia collega di lavoro,Sylvia era anche la mia unica amica. Il clima, anche in ufficio si era fatto molto pesante e, dal direttore agli impiegati, erano tutti molto tristi, o, almeno, così davano a vedere. La mia storia invece è cominciata un giorno nell'ufficio di Andrew: il mio direttore. Che sporco doppiogiochista! Lui non c'era. Stavo cercando un documento che lui mi aveva detto di prendere e di spedire a Los Angeles. Non trovandolo sopra la scrivania aprii il primo cassetto e vidi un flacone di pillole e sotto, una foto di Sylvia con Andrew. Sylvia si era innamorata di lui. A dire il vero io avevo anche un pizzico di invidia nei suoi confronti: un bell'uomo come Andrew avrebbe fatto gola a qualsiasi ragazza. Un giorno però Sylvia venne da me e mi confidò che Andrew faceva uso di droghe, lo aveva visto prendere delle pillole una sera che era uscita con lui e lui le aveva detto che erano per la sua allergia al polline. Le sembrò strana l'allergia al polline nel mese di Gennaio! Mi aveva anche raccomandato di non dirlo a nessuno, doveva rimanere un nostro segreto. E così fu. Mi ricordai così delle pillole che avevo trovato nel cassetto della sua scrivania. Lessi il nome sulla scatola e lo annotai su un foglio. Andai poi da un mio amico che è medico legale e mi disse che quel farmaco era a base di anfetamine. Questo mi sconvolse perchè mi spiegò che le anfetamine possono provocare comportamenti molto violenti su chi ne abusa, fino ad uccidere.
Non potevo crederci: Andrew aveva violentato e ucciso la mia più cara amica! Lui che per me era stato l'unica occasione di lavoro che avevo avuto e di cui mi ero quasi innamorata! Le poche volte che eravamo usciti insieme non aveva dato segni di squilibrio di nessun tipo, evidentemente non faceva ancora uso di quella roba. Ma perchè? Aveva tutto dalla vita: una azienda solida, soldi ... ma, ecco cos'era: i suoi problemi con le donne. Il mio amico medico legale infatti mi spiegò che quelle sostanze consentono maggiori prestazioni con le donne, sì, insomma, un po' come gli anabolizzanti per gli atleti. Ecco perché a me non aveva mai osato chiedere nulla.
Mentre meditavo, Andrew entrò prepotentemente nel mio ufficio. Io feci finta di niente e mi disse: - Vieni nel mio ufficio, ti devo parlare! -
Perché mai dovevo andare da lui, avremmo potuto benissimo parlare da me.
Ah! Sì, il profumo! Si era accorto che qualcuno aveva messo mano nel suo cassetto e di conseguenza aveva visto il flacone. Aveva sentito il mio profumo sulla maniglia. Concluse allora che solo io potevo aver scoperto il suo "segreto" e di conseguenza anche che era lui l'assassino di Sylvia... Il resto lo sai già."
Deborah".
Bianca chiuse il libro che stava leggendo. Dai libri che leggeva traeva sempre degli insegnamenti. A lei piacevano molto i romanzi: era proprio per questo che lo aveva scelto, si alzò dal divano e guardò fuori dalla finestra.
Aveva appena smesso di piovere.
La aprì e respirò a pieni polmoni l'aria pulita, come lavata dalla pioggia. Quella stagione era piuttosto incerta: maggio inoltrato ma non ne voleva sapere di far caldo. Lei trascorreva le sue giornate lavorando e nei momenti di relax, come questo, si sdraiava sul divano in compagnia di un buon libro. Il suo lavoro di giornalista a Milano (si occupava di cronaca)andava a gonfie vele ma non per questo si considerava una "arrivata", anzi, era sempre in cerca di nuove esperienze. Scelse quel libro proprio perchè parlava di una ragazza come lei che avrebbe voluto fare la giornalista da grande, nella speranza anche di cogliere qualche consiglio, qualche insegnamento. Al di là del suo carattere molto sicuro di sé, lei era una che sapeva ascoltare molto e sapeva trarre il meglio anche dalle sue letture.
Non era il primo libro che leggeva di questa autrice americana. Le piaceva il suo stile, il suo modo di esprimere certe emozioni e stati d'animo.
Dalla biografia in coda ai libri si leggeva che questa autrice era di origini italiane, ma né il suo nome, né il suo cognome ne davano testimonianza, infatti erano entrambi stranieri. "Probabilmente avrà avuto qualche lontano parente italiano, in America ce ne sono talmente tanti". Pensò Bianca.
Si alzò dal divano e andò a prendersi un succo di frutta, sentì lo squillo del telefono. Con il bicchiere in mano si diresse verso il telefono. La voce dall'altro capo del filo la distolse definitivamente da tutti i pensieri in cui era assorta in quel momento. Era il suo capo servizio che la sollecitava a realizzare un servizio molto importante per il giornale. Si stava infatti occupando di un importante uomo d'affari milanese coinvolto in un giro di traffici illeciti. Siamo nel bel mezzo di Tangentopoli ed erano molti gli uomini d'affari che vi erano coinvolti, ma non tutti erano stati ancora scoperti.
Quello di cui avrebbe dovuto occuparsi Bianca era uno dei "pezzi da novanta", si chiamava Antonio Enero.
Quando le fu affidato questo incarico Bianca era titubante e dubbiosa, ma con il suo capo era vietato discutere.
Lui la conosceva bene, era una delle sue migliori giornaliste: ce l'avrebbe fatta e basta.
La Enero Computers, così si chiamava l'azienda, da poco era quotata in Borsa ed aveva ottenuto grandi risultati grazie alla "intraprendenza" del suo proprietario, nonche' amministratore. Si era fatta un nome, prima in campo nazionale, ma stava facendosi strada anche all'estero, con il quale aveva da poco messo in piedi un giro d'affari non indifferente. Andava bene soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Europa stava "rosicchiando" quote di mercato ad altre aziende fino ad allora considerate leader nel settore.
Antonio Enero aveva cominciato la sua attività in un piccolo ufficio di quella che poi sarebbe diventata la "sua" azienda e che allora si chiamava Alter Informatica, dove svolgeva dei piccoli lavori di elaborazione dati e dai suoi superiori non era considerato granché. Aveva ottenuto quel lavoro grazie all'interessamento di suo padre, un operaio in una fabbrica conserviera del sud, che era arrivato quasi a dar fondo alle magre risorse della famiglia per "fare in modo" che suo figlio avesse questo lavoro.
La madre era casalinga e la sua famiglia viveva solo dello stipendio, non elevato, che il padre percepiva. Antonio aveva un fratello, Angelo, del quale non si sapeva molto, si sapeva solo che un bel giorno, esasperato dalla magra vita di famiglia, partì e, come tanti altri emigranti come lui, andò a cercare fortuna in America.
Non avendo titoli di studio né risorse economiche si concesse a "guadagni facili" operando in una organizzazione poco pulita, ma che si serviva di prestanome per i suoi loschi traffici e ne usciva sempre pulita e con tutti gli onori.
Antonio si presentò in ufficio con suo fratello Angelo e lo presentò al suo capo come il direttore di una grande multinazionale americana dell'informatica e con il quale «avrebbero potuto fare grandi affari» gli disse testualmente.
Questa azienda produceva microchips, le memorie dei computers ed Angelo gli propose un acquisto di questi piccoli componenti per una cifra che al signor Barbieri parve subito vantaggiosa.
Paolo Barbieri, il capo di Antonio, viveva in una bella casa appena fuori del centro di Milano. Lui, al contrario del suo dipendente aveva costruito la sua azienda lavorando seriamente e con dignità, conquistandosi i favori della gente e di tutto il settore nel quale egli operava. Sotto la sua gestione la Alter Informatica non era una azienda con grandi ambizioni espansionistiche, ma si accontentava di far bene il proprio lavoro e di avere clienti, anche se non in gran numero, di provata qualità e serietà. Con sua moglie Sonia e suo figlio Andrea erano una famiglia stimata e rispettabile.
- Sonia, stasera credo che farò un po' più tardi del solito, mi ha telefonato un collega e debbo aspettarlo, abbiamo appuntamento qui in ufficio, a più tardi. -
- Va bene, ti aspetto, ciao. -
Paolo Barbieri aveva appuntamento con Vittorio ed Antonio Enero. Avrebbero dovuto parlare di affari.
Erano quasi le otto di sera ed anche l'ultimo impiegato era uscito da pochi minuti salutando Paolo.
Mentre questi usciva dall'ingresso principale vide entrare due persone, una delle quali aveva una valigetta in mano. Si chiese che cosa facessero queste due persone a quell'ora in azienda.
«Saranno qui per parlare con Paolo» pensò. Prese la macchina e se ne andò a casa.
Era venerdì, l'ultimo giorno lavorativo della settimana e in ufficio stavano per arrivare gli impiegati. Stella, la donna delle pulizie che da anni prestava servizio alla Alter, cominciò il suo giro per gli uffici e l'ufficio di Paolo era sempre l'ultimo perchè all'ultimo dei tre piani del palazzo ed in fondo al corridoio.
Arrivata vicino alla porta si sorprese trovandola accostata. Paolo Barbieri era solito chiuderla a chiave quando lasciava il lavoro: solo lei aveva una copia della chiave e Paolo si fidava ciecamente di lei.
Aprì la porta. Paolo era riverso sulla scrivania. Si avvicinò pensando che, magari, avesse fatto tardi la notte precedente e si fosse addormentato.
Gli poggiò una mano sulla spalla e lo scosse per svegliarlo, ma non dava segni di vita. Gli guardò il volto e vide che aveva gli occhi sbarrati. Immediatamente si mise le mani davanti alla faccia cacciando un urlo.
Paolo Barbieri era morto.
 
La prima cosa che la donna ritenne giusto fare, se pur presa dal panico, fu quella di chiamare la moglie.
Sonia accorse dopo aver accompagnato il figlio a scuola e al quale non aveva detto ancora nulla.
Chiamò una ambulanza e la polizia perché la morte del marito le apparve piuttosto strana.
Stando al primo esame dei medici la morte era avvenuta per cause naturali: arresto cardiaco.
- Suo marito aveva problemi cardiaci? - le chiese l'agente di polizia.
- Sì, però li teneva costantemente sotto controllo con farmaci e con controlli medici periodici. La causa della morte però non è questa, la prego, mi prometta che scoprirà la verità - supplicò lei.
- Non si preoccupi signora, già dall'autopsia potremo chiarire qualcosa. - la rassicurò l'agente.
Sul luogo del delitto era stato trovato qualcosa che alla polizia parve strano: frammenti di uno specchio rotto.
 
Alle 11 in punto Alexandra aveva un appuntamento con il suo editore per fargli leggere la sua ultima opera. Quella mattina si era alzata presto ed aveva fatto la sua consueta ora di corsa. Aveva acquisito questa abitudine dopo che si era trasferita a Miami, in uno dei quartieri più esclusivi, vicino al mare.
Quasi mezzo milione di abitanti. L'area metropolitana comprende anche Miami Beach, sulla costa meridionale della Florida di cui è il centro principale.
Alexandra amava Miami per il clima e per i tanti turisti di tutto il mondo che la visitavano ogni giorno. La città non è di origini molto antiche. Fondata intorno al 1870 nei pressi di un forte, eretto all'epoca della guerra contro gli Indiani Seminole: in quel luogo, sempre pieno di turisti, anche Alexandra andava qualche volta con i suoi amici. Il comportamento degli americani contro gli indiani era l'unico aspetto di quel paese in cui viveva che non le era mai piaciuto.
Cominciò poi il boom del turismo negli ultimi anni dell'ottocento. Dopo il 1920 la città cominciò ad assumere un aspetto molto simile all'attuale, sviluppandosi vertiginosamente. Divenne così, in breve, una delle più grandi e lussuose stazioni balneari e climatiche del mondo. Collegata strettamente all'America del sud, viene infatti chiamata "la porta dell'America Latina". Tra le tante attività che vi si svolgono è molto fiorente l'attività del settore dell'abbigliamento: aspetto molto amato anche da Alexandra che ama molto fare shopping nei negozi della città.
Quella caldissima mattina di luglio il sole picchiava forte sulla spiaggia di Miami.
Alexandra, appena tornata dalla sua consueta ora di corsa era affacciata al balcone della sua residenza che dava sulla spiaggia.
Guardava la gente che cominciava ad affollare il litorale.
Il sole. Sì, proprio quel grande disco giallo nel cielo azzurro.
Un bambino, sulla spiaggia, stava costruendo il suo castello di sabbia. ogni tanto faceva avanti e indietro sul bagnasciuga per prendere sabbia bagnata. Ogni tanto guardava il sole strizzando gli occhietti e gli brontolava qualcosa: forse gli asciugava la sabbia troppo in fretta? Chi lo sa.
Poco lontano da lui una ragazzina, probabilmente sua sorella, a giudicare da come lo sgridava perchè le gettava addosso un po' di sabbia.
Lei era sdraiata su un asciugamano e nervosamente si rigirava da un lato all'altro perché, visto che non era ancora molto abbronzata, si spalmava continuamente di creme per affrettare il colorito. L'intenso calore del sole però la rendeva nervosa.
Improvvisamente si alzò e si gettò in acqua per rinfrescarsi. Vicino a lei, la madre. Una signora dai capelli visibilmente tinti di biondo e dalla vita abbondante. Era seduta su una sdraio e aveva un libro semichiuso in mano: quel sole così forte le impediva di leggere e concentrarsi.
Completava questo bel quadretto familiare il padre. Guardò il sole cercando di fissarlo e gli parve poi di vedere macchie rosse nel cielo blu a giudicare da come si stropicciava gli occhi infastidito. Si rigirò sul lettino. Era abbondante anche lui.
Alexandra fece un sorriso distogliendo gli occhi da quella vista e rientrò in casa.
Quello era il suo luogo ideale per lavorare, la ispirava in maniera particolare. La mattina si alzava alle sette e faceva un'ora di corsa e, dopo una doccia, si metteva al lavoro.
Si tolse i vestiti che indossava e corse sotto la doccia: erano le dieci e mezzo ed ancora era in quello stato. Al ritorno si era fermata anche in un supermercato a fare la spesa, aveva incontrato una sua amica ed avevano fatto un po' di strada insieme chiacchierando: non si era accorta di aver tardato tanto. Ora doveva sbrigarsi se non voleva far aspettare il suo editore.
Lui teneva molto alla puntualità.
Per quell'appuntamento scelse un vestito bianco lungo ed ampio e dei sandali dorati. Raccolse i capelli in una coda sulla nuca e diede un tocco leggero di trucco. La temperatura di Miami, soprattutto in quel periodo, non permetteva di vestirsi troppo: c'erano almeno quaranta gradi all'ombra ed anche lavorare era difficile.
 
Alexandra non spendeva troppo tempo davanti allo specchio. Una delle ragioni per le quali se ne era andata da New York per andare a vivere a Miami era proprio perché la madre la esasperava dicendole che doveva curare di più il suo aspetto. Già Madre Natura era stata molto generosa con Alexandra fin da quando era bambina, poi la convinzione, quasi un'imposizione della madre, che lei doveva essere sempre bella e di lì i primi interventi di chirurgia estetica. In principio tutte queste attenzioni la facevano sentire importante e la gratificavano poi, quando cominciò a capire che questa esasperazione della bellezza non era altro che un segno di debolezza, decise di darci un taglio e un bel giorno lo disse in faccia a sua madre che si infuriò con lei. Da lì la decisione di "cambiare aria".
Prese il suo libro, scese in garage e con il telecomando aprì la porta per uscire con la macchina. In quel momento fu fortunata a non trovare molto traffico anche se la sua casa editrice non era molto lontana dal luogo dove abitava.
Arrivò davanti al palazzo in cui aveva sede la casa editrice, guardò l'orologio: le undici meno cinque. Tirò un sospiro di sollievo, aveva fatto una corsa incredibile. Entrò nel palazzo. L'accolse il fresco dell'aria condizionata e non poteva che farle piacere: fuori era un vero inferno!
Uno stuolo di segretarie ed impiegate entravano ed uscivano dai vari uffici disseminati ovunque.
Prese l'ascensore: ottavo piano, lì era l'ufficio del suo editore. Stevenson Publisher, la casa editrice che pubblicava le opere degli scrittori più importanti della Costa Est americana.
Robert Stevenson da oltre vent'anni era titolare indiscusso di questa prestigiosa casa editrice.
 
Quando la acquisì dal precedente proprietario era sull'orlo del fallimento con pubblicazioni di opere di infima categoria: negli ultimi tempi si era ridotta a stampare giornaletti pornografici nella speranza di conquistare qualche lettore in più. Ovviamente l'"esperimento" non riuscì fino a che non arrivò questo, allora più giovane, newyorkese, pieno di ambizioni e progetti, ma soprattutto di soldi, che, nel giro di pochi mesi "rifece il look" a quella casa editrice che aveva perso lo smalto. Prima di approdare a Miami era professore all'università di New York dove insegnava letteratura, in particolare teneva corsi di scrittura creativa. Fu lì che conobbe Alexandra, frequentava uno dei suoi corsi.
La porta dell'ascensore si aprì e la segretaria le andò incontro.
- Miss Summer, Mr. Stevenson la sta aspettando -
- Grazie - rispose Alexandra con un sorriso cortese.
In quel momento le squillò il telefonino che aveva nella borsa.
- Sì. -
- Ciao, sono io, scusa se ti disturbo, ma volevo chiederti se stasera potevi accompagnarmi ad un party. -
- Sì, volentieri, però non vorrei fare tardi. Domani sono molto impegnata con il lavoro - gli rispose cortesemente.
- Non ti preoccupare, torneremo presto, anche io sono impegnato in palestra ... Grazie e, a stasera -
- Ciao - lo salutò lei.
Era David, un ragazzo che aveva conosciuto, poco dopo il suo arrivo a Miami, durante una delle sue corse mattutine sulla spiaggia.
 
Erano circa le sette e trenta del mattino e lei era appena uscita di casa.

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