Racconti di 
Maria Maselli
Ricordi e racconti del tempo che fu

L'oggetto misterioso
 
Vito era un ragazzo sveglio che da subito, più che studiare, preferì lavorare. Così finita la quinta elementare si cercò un lavoro e lo trovò a Bari presso un fabbro ferraio. Un giorno il fabbro lo mandò, con una carretta, a ritirare una vecchia ringhiera di ferro arrugginito dalla casa di un suo amico.
Durante il ritorno, mentre percorreva l'estramurale Capruzzi, proprio all'incrocio con via Amendola, l'attenzione del ragazzino fu attratta da un oggetto misterioso, che su, in alto, proprio al centro dell'incrocio, cambiava la sua luce diventando ora verde, ora gialla, ora rossa e poi di nuovo verde, ecc.
Il ragazzino non aveva mai visto nulla di simile e senza pensarci fermò la carretta, con tutta la mercanzia, al centro della strada, proprio sotto l'oggetto sconosciuto e, fra sé e sé, incominciò a cercare di indovinare il colore che sarebbe apparso dopo.
Invano il vigile del marciapiede cercava di attirare la sua attenzione fischiando a più non posso. Vito era incantato, ammaliato da quell'esoterico aggeggio o forse, ancora di più, da quella strana gara da lui intrapresa con l'oggetto dai colori cangianti.
Stanco di fischiare inutilmente, il vigile si avvicinò al ragazzo.
"Ragazzi", disse, "il verde è scattato ben quattro volte, ma tu sei ancora qui a intralciare il traffico".
La vista del vigile spaventò Vito che s'impossessò subito delle stanghe per svignarsela.
Ma l'agente lo trattenne per un braccio e:
"Vedi giovanotto, ora devi aspettare", disse con fare bonario e continuò:
"Con il rosso non puoi passare, devi aspettare il verde. Il semaforo serve a regolare il traffico e ti permette di passare solo con il verde".
Ancora una volta il ragazzino alzò gli occhi verso il semaforo, poi rivolto al vigile:
"È bello, mi piace," disse e continuò, "sapete, è la prima volta che lo vedo; credevo fosse una reclame di candelabri".

La mia prima maestra
 
I ricordi della mia infanzia, dei miei primi anni di vita sono tantissimi, ma dei primi anni di scuola elementare ricordo molto poco, anzi quasi niente, una vera e propria tabula rasa.
Ho spesso davanti agli occhi il viso, l'immagine delle suore dell'asilo, oggi diremmo della scuola materna, ma del, della o degli insegnanti dei primi tre anni della scuola elementare niente, un completo buco nero.
La mia prima maestra, o meglio la maestra di cui mi ricordo è quella della quarta elementare, la signora Maria Pantanella.
Era una fascista sfegatata e una grande attivista del partito.
Oriunda di Bari, a causa dei molteplici impegni che aveva a Capurso, trovò casa qui e vi si stabilì con tutta la famiglia consistente in due sole persone: lei e il marito.
Di altezza normale, piuttosto magra, più brutta che bella e... con i nervi scoperti, a fior di pelle, nervi fatti persona. Infatti sgridate, schiaffi, tiratine di capelli o di orecchie erano sempre in agguato durante le sue lezioni.
Non studiare, non fare i compiti, arrivare a scuola in ritardo (cioè un minuto dopo di lei che arrivava sempre cinque minuti prima del suono della campanella), o presentarsi in modo sciatto, voleva dire iniziare la giornata con una sgridata, un ceffone ecc... ecc...
Era molto ligia ai suoi numerosi doveri e il suo tempo era tutto e completamente dedicato alla scuola e al partito; si occupava personalmente delle manifestazioni connesse con il fascio e a lei facevano capo sia gli altri insegnanti sia i capi dei vari gruppi fascisti.
Era rispettata e temuta allo stesso tempo: dava molto e pretendeva altrettanto (che sbaglio!). Nessuna malattia, febbre, tosse, mal di denti riuscivano a tenerla lontano dalla scuola o dalle manifestazioni fasciste.
Già il primo giorno di scuola ci tenne un bel discorsetto dicendoci che la quarta A, la nostra classe, doveva essere la classe modello di tutta la scuola e che per stimolarci ci avrebbe divise in due gruppi: il gruppo delle brave e quello delle asine e che dovevamo impegnarci per appartenere al primo gruppo, anzi, aggiunse con una certa compiacenza, che ci voleva tutte brave, una bella classe formata da un solo, folto e omogeneo gruppo di "brave".
Purtroppo però, quando alcune settimane dopo, divise la classe, le asine erano di gran lunga più numerose delle brave, forse più del doppio (l'aula conteneva tre file di banchi, nella fila centrale furono sistemate le brave (?) nelle due laterali le asinelle).
La Pantanella fu mia insegnante solo per un anno, ma la ricordo bene perché la sua abitazione non era molto lontana da casa mia, perciò mi capitava spesso di incontrarla anche fuori dell'orario scolastico. Molte furono le iniziative culturali e umanitarie che la videro protagonista a favore del paese contribuendovi, a volte, anche di tasca propria. Però, quando quel maledetto 25 luglio del '43 il fascismo cadde, come di regola, tutti i capursesi dimenticarono in un attimo, il bene che per diversi anni Maria Pantanella gli aveva fatto, e spinti da un ingrato mascalzone che, durante un corteo, aveva avuto uno schiaffo dalla maestra perché molestava un ragazzo più piccolo di lui, si riversarono nella sua abitazione e l'avrebbero uccisa di botte se il marito e la famiglia del locatore non l'avessero protetta a proprie spese e fatta subito salire su una macchina di passaggio che la portò via in gran fretta.
 
Alcuni anni dopo mio padre incontrò a Bari il marito della mia ex insegnante e da lui seppe che Maria era morta pochi mesi dopo il fattaccio rammaricata per il cattivo modo con cui era stata ripagata dai capursesi, e specialmente, il signor Pantanella ci tenne a precisare, perché uno di quelli che era stato dalla moglie super aiutato e beneficiato con vestiti, vettovaglie e persino con un piccolo posto di lavoro, oltre a colpirla con calci e pugni, si era anche permesso di qualificarla alla stregua di una donna di strada, chiamandola p...
Tornando alla mia quarta elementare devo solo aggiungere che, quando ci fu la divisione della classe nei due gruppi, in un primo tempo io fui messa nella fila centrale, tra le brave (?); prima di Natale però, finii nella maggioranza, in una delle due file laterali, per tornare a fine gennaio di nuovo nella minoranza, e poi ancora nella maggioranza dove però, rimasi fino alla fine dell'anno perché, sebbene nella soluzione di un problema fossi risultata prima in assoluto, la maestra preferì lasciarmi con le asine, perché, mi disse, lo stare con l'altro gruppo mi rendeva pigra.
Credo che avesse visto bene, infatti, il piccolo gruppo delle così dette brave, composto da ragazze tutte antipatiche (alcune più che brave erano solo figlie di attivisti fascisti) che non chiedevano e non davano mai nulla, mi opprimeva; mentre le asinelle erano affettuose e premurose nei miei confronti e quando c'era da suggerire o da far copiare io non aspettavo mai che me lo chiedessero.

 
Tempi duri
 
Qualche giorno ancora e Francesco avrebbe compiuto sessantaquattro anni.
A qualcuno potrebbero sembrare tanti, ma non a lui, al protagonista di questa storia, rimasto un ragazzo, un bimbo, oserei dire, un timido bimbo pieno di paura e timoroso di tutto, segnato da un avvenimento capitatogli nella sua infanzia, un avvenimento che era sempre lì, davanti ai suoi occhi, come un'immagine tatuata nella sua mente.
Francesco non conobbe il padre, don L. V., uomo aitante, gran lavoratore, un commerciante nato che certamente gli avrebbe fatto fare una vita del tutto diversa, parallelamente opposta a quella a cui il ragazzo fu obbligato, costretto, proprio a causa della sua prematura scomparsa.
Ultimo di una nidiata di sei figli, non avendo ancora l'obbligo della scuola, toccò a lui, al piccolo Francesco, come al ben noto Davide biblico, condurre ogni giorno le cinque pecore al pascolo.
Era un lavoro immane per un bimbo di poco più di cinque anni.
Doveva far attenzione alle bestie, il che significava, farle mangiare il più possibile, cercare di non farle entrare nei campi coltivati, farle camminare in fila indiana lungo il margine della strada, ed evitare, il più possibile, le guardie campestri perché, benché il ragazzo si attenesse a tutte le regole, ogni volta che lo incontravano, non mancavano mai di rimproverarlo, e poi di passare, a raccontare proprio l'opposto, da donna Regina, la madre del piccolo che, per tenerli buoni, non li faceva mai uscire dalla sua casa a mani vuote.
La vita dell'orfanello o meglio del piccolo mandriano non era per niente felice.
Ogni mattina di buon ora, appena la madre aveva finito di mungere le bestie, con in tasca un tozzo di pane, alcuni fichi secchi o una o due carrube e nella piccola mano destra una vecchia e nodosa mazza, col tempo bello o cattivo spingendo la piccola mandria, il bimbo s'avviava per le strette vie di campagna allontanandosi da casa di tre, quattro a volte anche di cinque chilometri. Sceglieva i tratturi meno frequentati perché c'era più possibilità che l'erba non fosse calpestata.
Ma non sempre le pecore trovavano subito quello che cercavano costringendolo, volente o nolente, a seguirle con gli occhi ben aperti perché i pericoli, sempre in agguato, non erano pochi.
Spesso veniva importunato dai cani, uno, a volte due cani randagi, che si divertivano con il loro abbaiare e col mostrare i bianchi denti aguzzi a spaventare non solo le pecore ma anche il ragazzo che riusciva a farli andare via minacciandoli con quella specie di bastone nodoso, il cui scopo principale era però, quello di far camminare le pecore una dietro l'altra.
Un giorno però, un giorno indimenticabile, un giorno che mai più si sarebbe cancellato dalla memoria di Francesco, non una, non due, ma ben quattro cani e uno di stazza abbastanza grossa, attaccarono il piccolo gregge avventandosi contro la pecora più giovane. Francesco, benché terrorizzato oltre ogni dire, cercò di allontanarli gridando a squarciagola e colpendoli col bastone. Ma le quattro bestiacce sembravano non preoccuparsi né del bastone né tanto meno di lui e dei suoi strilli, anzi, due di essi cercarono di scagliarglisi contro, tanto che, temendo per la propria vita, il ragazzino fu costretto a trovare scampo, prima sul basso muretto e poi a salire su un albero incominciando a piangere.
Ma le sue lacrime, gli strilli e il bastone non sarebbero serviti a niente se un vecchio cacciatore non fosse accorso in suo aiuto.
Lo sparo, infatti, spaventò i cani che scapparono via abbandonando ragazzino e pecore sotto shock..
L'uomo conosceva bene sia il ragazzo sia la sua famiglia, essendo stato, per un certo periodo, alle dipendenze del defunto genitore del ragazzo. Perciò, per paura che i cani ritornassero a importunarlo, decise di accompagnarlo a casa lui stesso.
"Scendi, scendi piccolo, non avere paura, non piangere più, i cani sono scappati via. Raduna le pecore, ti accompagno a casa", disse porgendo a Francesco la mano destra per aiutarlo a scendere.
Ma il ragazzo, come paralizzato, continuava a gridare, piangere e tremare rimanendo immobile sull'albero.
L'uomo fu costretto a salire lui sull'albero, prendere di peso il ragazzino e metterlo a terra aiutandolo anche a radunare le pecore.
Poi, assieme, piano piano, ripresero la via del ritorno.

 
Respirate gente, respirate
 
Sì, ero scesa dal letto proprio dal lato sbagliato, quella mattina, o come dice l'insegnante di yoga, non aveva respirato bene. Allora senza indugiare sulla depressione che non aspettava altro che impossessarsi di me, seguii il consiglio dell'insegnante e, messomi davanti allo specchio, incominciai con ritmo adeguato, prima a inspirare e poi a espirare.
Tempo due o tre minuto e l'immagine riflessa dallo specchio era quella di una bimba di dieci o undici anni con esili treccine che arrivavano alle spalle e con indosso un vestito color canarino, impreziosito al collo e alle maniche da un bordino bianco lavorato all'uncinetto.
Come in trance mi sembrava di ricordare quella bimba, anzi quel giorno di metà giungo del 1943. Correvo su e giù per il paese, con la mia inseparabile compagna, la mia amata bicicletta. Pedalare era la mia passione anche se il vestitino, ricavato da un lenzuolo alleato comprato di contrabbando e tinto con la buccia di melegranate, non era proprio l'ideale per correre in bici.
 
Il mio paese a quel tempo, aveva poche strade, era un piccolo paese di quattro o cinquemila anime; perciò, in poco tempo, riuscivo a percorrerlo tutto in lungo e in largo. Infatti, dopo neanche dieci minuti, il percorso era quasi completo, rimaneva solo la strada che portava alla scuola. E verso la scuola mi diressi percorrendo la strada a zig zag.
Ad un tratto, quando mancavano poco più di cinquanta metri dall'edificio scolastico, un incontro...
"Buon giorno professore".
"Buon giorno... dove te ne stai andando? Dov'è la cartella? Non mi dire che hai dimenticato che oggi ci sono gli esami?"
A quel tempo la scuola occupava l'ultimo posto nella mia mente, anzi, per essere franca, non ne occupava nessuno. Il mio pensiero era preso dalle tantissime cose che avrei potuto fare la mattina senza andare a scuola, e il pomeriggio senza l'assillo continuo di mia madre che mi chiedeva: "Hai studiato? Hai fatto i compiti?"
"Si professore, vengo subito."
Con una virata da campione e pedalando all'impazzata arrivai a casa. Lasciai la bici per strada e in meno che non si dica, indossai sul bel vestitino, l'ormai striminzito e vecchissimo grembiule.
"Mamma ci sono gli esami, io corro a scuola, mandami subito la cartella con Pierino."
"Dove vai? Torna indietro! Dov'è la cartella?" chiese mia madre cercando di trattenermi.
"Cercala, trovala, non lo so: io devo essere a scuola prima che facciano l'appello". E mi dileguai.
Bussai alla porta proprio quando il professore stava per chiamarmi.
"Chiudi la porta e vai al posto", ordinò il professore.
Non mi mossi, rimasi sull'uscio aperto aspettando la cartella.
"Non hai sentito? Chiudi la porta e vai al posto, devo continuare l'appello", sollecitò il professore. Ma accorgendosi che le mie mani penzolavano inutilizzate: "Come, ti presenti agli esami così? Dov'è la cartella, i li...?"
Proprio in quel momento Pierino, tirandomi per il braccio, mi porse la cartella, e io, dopo aver chiuso la porta, andai a sedermi.
"Grazie a Dio possiamo continuare, è arrivata anche la cartella", puntualizzò il professore che oltre ad essere bravo aveva anche uno spiccato senso dell'umorismo.
 
Anche se il viso era umido di pianto, il ricordo mi fece molto bene, e mi fece bene anche la respirazione ben fatta che, automaticamente, senza rendermene conto avevo, nel frattempo, praticata.

 
L'ingenua
 
"Dai ma', datti una mossa; è più di mezz'ora che ti giri e ti rigiri. Sono sicuro che ci stanno già aspettando".
Ciccio aveva delle ottime ragioni per essere impaziente. Quella sera doveva fidanzarsi o, come soleva dirsi ai suoi tempi, portare parola di matrimonio a Rita, la compaesana con la quale, da alcuni anni, scambiava sguardi significativi e lievi strisciatine di braccai durante le passeggiate lungo il corso del paese.
Dopo tutto quell'ansimare, fra poco, avrebbe potuto finalmente stringere la mano e sedersi vicino a colei che, in quel momento, rappresentava per lui realtà e sogni insieme.
All'intima e semplice cerimonia erano stati invitati i parenti più stretti di entrambe le famiglie. A Ciccio e ai suoi genitori l'obbligo di portare alla futura sposa l'anello; i parenti dello sposo, volendo o meglio potendo, le portavano piccoli regali utili.
Ormai non si aspettava che comare Assunta, la madre di Ciccio, per recarsi insieme dalla promessa.
La casa di Rita, rimessa a nuovo per l'occasione, era già al completo di parenti e cibarie.
Appena entrato, Ciccio cercò subito lo sguardo dell'amata. Anche lei era stata colta dalla stessa ansia perché gli sguardi si incrociarono e un fremito vivissimo, simile ad una forte scossa elettrica, attraversò dalla testa ai piedi i due giovani corpi.
Il padre della fidanzata, don Peppe, un uomo di mondo e amante del ballo, invitò un suo amico musicista alla cerimonia 'per far fare due salti alla bella compagnia'
Mentre i quattro genitori, chiusi in cucina, discutevano e si accordavano sul 'che gli dai, che le dò', gli altri, messi a loro agio dall'idea di don Peppe, ballavano al vibrante suono della fisarmonica.
Tutti cambiavano dama o cavaliere quasi a ogni ballo, tranne i due innamorati, che non avevano occhi che per se stessi fin quando... la bella Rosina, cugina di Rita, "Mi fai fare un ballo con Ciccio?", chiese senza preamboli alla neo-fidanzata.
Ciccio non aveva mai visto prima Rosina perché abitava in un altro paese; ma la ragazza era messa molto bene, superando in tutto e di gran lunga Rita.
Un po' imbarazzato, il neo-fidanzato, tenendo ancora tra le braccia la sua amata, rivolse a costei uno sguardo supplichevole e l'ingenua acconsentì.
 
Cosa si siano detti i 'due' durante quell'unico e galeotto ballo non fu mai svelato a nessuno. Di certo c'è però, che quella stessa notte Ciccio e Rosina diventarono marito e moglie.
Ciccio, finché visse, non perse mai l'occasione di rinfacciare alla moglie il suo furbesco e sleale 'accalappiamento'. Ma Rosina, senza scomporsi minimamente, gli rispondeva a tono cantandogli: "Te piasciut, te piasciut, tiena till cara cara...".

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