Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Racconti
di
Manuela Cecconi
 
LA PANCHINA DEL TERZO BINARIO
Mi guardavo riflessa nel piccolo specchio della cipria, ripassando lentamente il rossetto sulle labbra. Ero così bella, con gli occhi verdi, lucenti.
La panchina sembrava osservarmi con sospetto ed ironia, forse domandandosi perché non mi sedevo.
Non c'era nessuno lì seduto. Perché non mi sedevo io? Perché non mi ci siedo ora?
Lunghi treni stridono nella stazione grigia. Partono, arrivano, svaniscono nella nebbia con sibili lontani, sempre più lontani.
Un gruppo di anziane signore, allacciate strette nei loro cappotti fuori moda, parlano, parlano senza capire cosa dicono.
Le persone sembrano distanti da me, sbiaditi personaggi di un romanzo di cui non faccio parte.
Non mi interessano le loro chiacchiere, le preoccupazioni che hanno, i pettegolezzi sulla figlia, la sorella, il suocero di non so chi.
Quando ero giovane avevo i capelli lunghissimi e neri e stavo in piedi davanti alla panchina del binario numero tre ad aspettare quel lunghissimo treno pieno di vita.
Scendevano famiglie, bambini, coppie di fidanzati, militari. Scendevano tante persone colorate. Loro spaccavano il vapore, spaccavano il silenzio.
Lui illuminava il mio universo con un semplice sorriso, dolce, infreddolito, assonnato. Bellissimo.
Lunghi treni sbuffavano nella stazione non più grigia.
Avevo l'abitudine di arrivare una ventina di minuti in anticipo. Camminavo avanti e indietro per il breve binario sui miei tacchi alti sempre intonati alla borsetta. Controllavo l'orologio, l'orizzonte, tendevo l'orecchio al più lieve rumore.
Infine il treno arrivava con il suo clamore, il fracasso dei freni, la voce dell'altoparlante.
Le persone si affrettavano, si salutavano, oppure, come me, aspettavano senza muovere un passo.
Lui spiccava tra la folla, alto, spalle larghe, portava un cappotto color cenere con le punte del colletto alzate e una grossa borsa a tracolla.
Si avvicinava lentamente con passo deciso.
"Sei sempre più bella", mi sussurrava sorridendo.
Ora non sono più bella, i miei occhi non brillano, non brillano più, sono spenti come questa stazione che puzza di vecchio.
Un giorno d'inverno, freddo come questo, lui arrivò e non disse niente. Mi fece sedere sulla panchina, serio, serio e triste.
"Devo partire per sei mesi"
Sei mesi, sei mesi, sei mesi, rimbombavano nella testa, sei mesi.... silenzio.
"Tornerò... mi sposerai?"
 
Le quattro signore si sono sedute, stanno attaccate una all'altra e riescono ad occupare la lunghezza esatta della panchina. Sembrano stanche pecore che si fanno caldo tra loro in molti modi: col corpo, con le parole, con quelle larghe sciarpe fatte a mano.
"Guarda, c'è la Matta! Tutti i venerdì viene ad aspettare il fidanzato di trent'anni fa!".
Le ho sentite, si, le ho sentite, ma non mi importa di loro, non mi importa di nessuno ormai.
"Intercity da Milano in arrivo sul terzo binario "
Finalmente.
Stringo tra le mani il manico della borsetta. Aspetto.
Eccolo, un uomo rabbioso che si fa spazio tra la gente.
Sparisce dietro una colonna, riappare, si avvicina, viene verso la nostra panchina, verso di me.
Adesso non lo vedo, non c'è, non c'è più.
Non c'è più, non c'è più, non c'è più....
Stordita mi accascio sulla dura panchina.
Ho freddo ai piedi e alle mani. Sotto il guanto la forma di un anello.
Ho giurato che l'avrei aspettato. Tornerà.
 
 
L'INCUBO
Buio completo, silenzio.
Secondi, minuti interminabili, prima di riuscire anche solo vagamente a capire.
Nessun riferimento, nessun rumore, odore, nessuna sensazione sul corpo, "nel" corpo, forse si è fermato anche il mio cuore.
Mi sforzo, cercando di vedere qualcosa, un indizio, ma sono debole, troppo debole.
Le pupille si dilatano, si costringono, lottano in cerca di un'immagine.
Pian piano appaiono ombre, qualcosa comincia a riacquistare la sua forma..
Il cruscotto della macchina, le cassette, il volante.
Dove sono, che ci faccio qui? Perché non dormo nel mio letto, cos'è successo?
Il mio corpo fermo, eppure mi sto agitando, mi agito convulso senza riuscire a spostarmi.
Sono incastrato nella macchina, nel buio, sono incastrato.
Sprofondo insieme a tutta questa ferraglia, ferraglia che scricchiola, che affonda pian piano nell'acqua, affonda pian piano.
Buio, sempre più buio. L'acqua sale, sale, ai piedi, alle gambe, l'acqua sale.
Aiuto, aiuto, aiuto, aiuto, aiuto, aiuto.....
 
Non riuscivo a svegliarmi.
Qualcuno mi strattonava forte, ma io non mi rendevo conto, ero incastrato in un sogno crudele.
Terrore.
Avevo sempre cercato di ascoltare ciò che i sogni tentavano di dirmi.
L'incubo parlava chiaro: era giunta l'ora di cambiare.
La riva del mare mi accolse rabbiosa. Le onde scure si scontravano e si frantumavano tra loro davanti ai miei occhi, seguendo misteriose correnti.
Spirava un vento freddo che ghiacciava il sale sul viso e cantava, cantava una canzone triste per convincermi ad andare via.
Ma io "dovevo" restare e qualcuno là in fondo mi "doveva" ascoltare.
"Sto soffocando, mare, ho sbagliato strada, ho sbagliato vita, mare, sto gettando i miei anni come monetine in un fiume"
Piansi, piansi le lacrime che avevo tenuto strette nel cuore per tanti anni.
Accovacciato sulla sabbia, abbracciato soltanto da una spessa sciarpa di lana, a poco a poco cominciai a sentirmi meno solo, e poi sempre più unito, più intimamente unito alla natura, al mare, a tutto ciò che mi circondava.
Pensai al mio passato, breve per gli anni, ma intenso e ricco di colori: azzurro, giallo, rosso sanguigno, nero, grigio.
Ricordai con precisione la casa di campagna con il suo arredamento vecchio, le galline, i conigli. Mia madre mentre inzuppa le mani nelle carcasse per cucinarle e fa schizzare il sangue sul grembiule bianco. Schifo. E poi dolcezza.
Pensai a lungo, non saprei dire se per un'ora, due o soltanto per pochi minuti. Il tempo scorreva secondo nuove lancette, le mie.
Sentivo il sonno corrermi incontro con passi leggeri, come orme sulla battigia. Temevo di fare ancora quell'incubo così terribile e reale, e allora m'imposi di non cedere alla tentazione di dormire.
Molti pensieri scorrevano sottili tra le mie dita per poi svanire velocemente nel vento.
Parole, poche parole riassumevano tutta la mia vita.
"Diplomazia". Avevo imparato presto le virtù dell'uomo saggio, che parla poco e ascolta molto, evita i dissidi ed è sempre gentile e educato, in pace con tutti.
Io ero stato davvero bravo, piacevo agli altri, avevo collezionato più amici che nemici. I miei genitori potevano essere fieri di me.
Mi avevano detto che in questo modo sarei arrivato lontano, che "qualcuno" avrebbe fatto in modo che io fossi arrivato lontano.
Mi avevano costruito una tana buia ma piena di pelo, dove mi nutrivano, mi amavano, mi insegnavano le loro leggi.
Soffocavo perché mi tenevano legato.
Sciocchezze. Soffocavo perché non avevo il coraggio di andare altrove da solo.
Neanche il coraggio di amare.
"Amore". Cristina.
Il viola cupo del tramonto mi fece pensare al rossetto di Cristina. Una striscia di cielo si confuse con le altre, sfumando.
Avevo vissuto venticinque anni nella certezza di essere forte, sicuro, indipendente. Una tigre. Improvvisamente, di fronte al mare, mi scoprii un gattino, un cucciolo trascinato da un lungo guinzaglio.
Tutte le ragazze e gli amici che avevo scelto fino ad allora erano state marionette che rispondevano esattamente alle aspettative dei miei genitori. Donne belle ma con eleganza, intriganti ma materne, ragazzi simpatici ma responsabili.
Cristina era piccola, paurosa, troppo sensibile, troppo affettuosa, appiccicosa. L'acqua saliva, saliva e io soffocavo.
Sciocchezze. Cristina mi innervosiva perché era debole come me.
Una settimana prima l'avevo incontrata per caso in città. L'avevo riconosciuta da lontano per quella larga giacca blu che portava spesso, ed ebbi la tentazione di tornare indietro per non incrociarla. Fuggire.
Accanto alle altre ragazze sembrava ancora meno attraente, con quel modo di fare goffo e impacciato e i capelli legati in una coda.
Soltanto dopo qualche passo riuscii a distinguere la persona con cui parlava, era un ragazzo che l'aveva insidiata altre volte.
D'un tratto mi sentii ardere di una rabbia imprevista.
"Via dalla mia preda, via dal mio territorio", pensai.
Quando mi vide, Cristina sorrise. Ora era bella, più bella di tutte le altre.
"Facciamo un giro?", le chiesi.
Trotterellava accanto a me, felice di avermi incontrato. Io guardavo l'asfalto che scivolava sotto i miei piedi, silenzioso.
Lei capì cosa avevo in mente e divenne seria. Da giorni temeva di sentirmi pronunciare quelle parole, e per questo m'illusi che le avrebbero fatto meno male.
Parlai velocemente, in modo quasi meccanico. Altre donne avevano tradito la mia fiducia, mi avevano ferito, umiliato.
Ormai avevo imparato a vivere solo, a non avere bisogno di nessuno, mi ero creato una vita perfetta, senza preoccupazioni, paure, senza perdere il controllo mai.
Non mi sarei più innamorato, ne ero sicuro, me lo ero imposto. Cristina non mi piaceva, no, non piaceva neanche ai miei amici.
Claudio ne era persino geloso. Io e lui eravamo legati da un rapporto molto forte, mi considerava un fratello maggiore, dipendeva da me e in qualche modo anch'io da lui.
Non era mai andato d'accordo con Cristina, non digeriva il fatto di essere lasciato solo il sabato sera a casa, mentre io andavo a fare l'amore con lei, velocemente, con uno stupido senso di colpa.
Non poteva andare avanti così: o lui o lei.
Lui era la libertà, il divertimento, le discoteche, le sbornie con gli altri amici.
Lei era solo sesso.
 
Era passata una settimana da quel giorno, il giorno in cui avevo preso una decisione importante. Non avevo più pensato a Cristina, non l'avevo sentita per telefono, non mi soffocava più con il suo amore.
Eppure l'acqua continuava a salire, il sogno me lo aveva mostrato chiaramente.
"Mare, ho sbagliato strada", sospirai di nuovo.
Spinsi il mio sguardo verso l'orizzonte, al di là delle ultime imbarcazioni, perdendomi nelle poche macchie viola che rimanevano, assediate dal blu scuro quasi notte.
Per troppo tempo avevo marciato lungo corridoi senza guardarmi intorno, seguendo solo la logica, la razionalità, protetto da fili spinati per non soffrire, per non rischiare.
Era giunta l'ora.
Mi alzai lentamente, con le gambe intorpidite e la brezza marina attaccata alle ossa.
Passi lunghi e determinati. Strade poco illuminate, portoni arrugginiti.
Per venire ad aprire il cancello, Cristina dovette percorrere il sentiero di ghiaia attraverso il giardino e da lontano stentava a riconoscermi.
"Cos'é successo?", domandò preoccupata, scrutando l'espressione del mio viso, per lei del tutto nuova. E anche per me.
"Stai bene?", insisteva con la sua solita apprensione. Sembrava quasi aver dimenticato il male che le avevo fatto, il mio egoismo, le mie paure.
"Ieri sera ho preso la macchina e ho avuto un colpo di sonno, ho sbandato..", lei sbarrò gli occhi spaventata.
Decisi di non perdere tempo a spiegarle tutto.
"Ti posso abbracciare?"
Lei non rispose e mi strinse forte, carezzandomi i capelli, così forte da togliermi il respiro.
L'acqua saliva, saliva, mi stordiva, mi inebriava, poi mi terrorizzava. Saliva, saliva, mentre mi aggrappavo a lei, al suo corpo, con la sensazione che non mi avrebbe sorretto e quindi sarei dovuto fuggire, fuggire lontano.
Mare, aiutami a cambiare, mare, mare.
Infine chiusi gli occhi e rimasi fermo, in silenzio. Un profondo respiro, come se mi fossi dovuto immergere alla scoperta di fondali meravigliosi.
Finalmente, finalmente, mentre l'acqua saliva, io nuotavo. Per la prima volta. Nuotavo.
 
 
Per mia madre
 
Nei giorni in cui mi arrampicavo sugli alberi
e avevo gli occhi grandi
e piccole mani farfalline
 
Ti ricordi le ciliege a coppie
sull'orecchio come gioielli ?
Io sì...
 
Vorrei prenderti per mano
e portarti a quel laghetto assorto
dove sognavo gnomi e fatine
 
Nei giorni in cui il caldo
aveva il suono delle cicale
e i miei piedi erano persi nell'erba
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