Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
La forza della vita di 
Loredana Fantato

Prefazione del libro La forza della vita
 
Perché si scrive?
 
Nel 1991 era uscita una canzone di un cantautore molto famoso all'epoca, Paolo Vallesi, che era intitolata La forza della vita. Qualcuno, forse, ancora la ricorda.
 
Quando toccherai il fondo con le dita
Lei ti catturerà
La forza della vita
Lei ti trascinerà con sé
Non lasciarla andare via
Ma prendila con te
 
 
Più che una canzone era una poesia dal contenuto forte che l'autore aveva dedicato al problema della droga ma che poteva essere estesa a qualsiasi tipo di sofferenza.
 
Il testo mi aveva emozionato perché stavo vivendo un momento particolarmente difficile: mio padre era morto suicida per la disperazione di dover affrontare un lungo calvario di sofferenza a causa di un cancro al cervello che non gli lasciava alcuna speranza e nei momenti di dolore lacerante le parole di quella canzone mi avevano fatto ritrovare la speranza e la "forza della vita" cioè la forza di vivere che è insita in ognuno di noi.
 
Credevo non avrei provato dolore più grande ed invece nel 1997 è nata Arianna, l'ultima di tre figlie, capitata per caso a quarant'anni ma per questo non meno accettata.
 
La gravidanza si era svolta in modo normale e sereno e il momento del parto mi aveva riavvicinata a quel Dio che avevo abbandonato alla morte di mio padre perché lo ritenevo colpevole di avermi privato di una persona che amavo profondamente e che non meritava di morire in quel modo atroce a soli 60 anni.
 
Ma il destino aveva deciso di giocarmi contro ancora un'altra volta, Arianna era affetta da Sindrome di Down.
 
I medici non mi avevano informata al momento del parto, ma una esitazione o forse una sorta di sesto senso mi aveva avvertito che qualcosa non andava. Anche mio marito, che invece era stato immediatamente informato, non aveva avuto il coraggio di dirmi la verità che mi era stata sbattuta in faccia solo il giorno dopo in uno spoglio stanzino, senza tanti preamboli da un medico imbarazzato e desideroso di concludere in fretta quella sgradevole incombenza che gli era stata assegnata.
 
All'inizio non avevo afferrato pienamente il significato di quella diagnosi, ero come inebetita e fissavo il medico senza parlare. Poi ero scoppiata in un pianto dirotto ed era iniziata la sofferenza da cui credevo di non poter uscire.
 
Sono una donna normale e in quella occasione ho pianto tutte le mie lacrime. Credo mi sarei uccisa se non avessi avuto altre due figlie a cui pensare. Arianna ai miei occhi era solo un essere che non avrebbe mai dovuto entrare a far parte della mia esistenza.
 
"Perché a me?" mi chiedevo cercando una risposta che nessuno mi poteva dare.
 
Non volevo guardarla, toccarla, prenderla in braccio.
 
Per fortuna mio marito l'aveva amata fin dal primo istante e si era occupato di lei in mia vece, lasciandomi il tempo di trovare la forza per reagire alla disperazione. Non dubitava che prima o poi l'avrei trovata ed aveva ragione, mi conosceva meglio di quanto io non conoscessi me stessa.
 
Dopo la dimissione qualcuno mi aveva parlato dell'A.G.B.D. non ricordo più chi, dicendomi che lì avrei trovato un aiuto. Si trattava di una piccola associazione nata dall'iniziativa di un gruppo di genitori di bambini Down, che si erano staccati dall'Istituto Don Calabria che si occupa di persone con vari tipi di handicap, per dare vita ad una struttura adibita esclusivamente alla riabilitazione delle persone affette dalla Trisomia 21.
 
All'epoca la sede era in Borgo Roma, un quartiere periferico di Verona, in un piccolo spazio vicino ad una scuola elementare messo a disposizione dalla Circoscrizione, ma ricordo perfettamente il sorriso e la disponibilità di Silvana, Serenella, della fisioterapista che si occupava della mia bambina. Uno spazio ridotto dove ho trovato degli amici, una piccola famiglia che mi ha aiutato a capire che Arianna non era una creatura sfortunata ma un essere umano unico, dotato di capacità inimmaginabili e di amore, tanto amore, un amore così grande che ora illumina la mia vita.
 
Non credo esistano madri che davanti alla nascita di un figlio affetto da una tale malattia genetica accettino il loro destino con il sorriso. Ed anch'io non sono stata così. Non sono una santa ma una donna normale che vive, ama, soffre e si dibatte nelle difficoltà del quotidiano.
 
L'accettazione è stata un cammino in salita, lento, graduale, non privo di ostacoli e di momenti di scoramento ma che alla fine si è compiuto.
 
Ora sento di essere una persona piena e realizzata, una persona felice. A volte stupisco gli altri affermando che mi sento una privilegiata, si lo ripeto e lo sottolineo, UNA PRIVILEGIATA perché l'incontro con l'handicap di mia figlia mi ha fatto scoprire dei valori immensi che altrimenti mi sarebbero passati accanto, senza nemmeno sfiorarmi e toccare la mia vita protesa al successo e alle gratificazioni dettate dal consumismo, che è il Dio indiscusso dei nostri tempi.
 
Ho sempre amato scrivere e fin da ragazza ho espresso i miei pensieri più intimi sulla carta, in diari, lettere ad amiche inesistenti, foglietti che mia madre trovava dappertutto.
 
Ora, da adulta, ho voluto realizzare il mio sogno ed ho raccontato questo pezzo della mia vita insieme ad altri in un romanzo che ho dedicato ad Arianna e a mio suocero, un uomo che ho ammirato moltissimo. Non è la solita storia di pietismo di cui è piena la letteratura, ma un romanzo d'amore, di sentimenti, una saga familiare ambientata a Verona la mia città di cui sono innamorata, dove ho mescolato per esigenze narrative realtà e finzione.
 
L'ho voluto intitolare LA FORZA DELLA VITA proprio in ricordo di quella canzone che mi ha sempre aiutato a trovare il coraggio di andare avanti.
Alcune pagine del libro La forza della vita
 
Capitolo 13
 
Giovanni guardava Laura esausta per la fatica del parto ma felice, come non era stata da tempo e non sapeva cosa fare.
- Come farò a dirglielo? - Pensava con tristezza mentre la portavano nella sua stanza per il meritato riposo.
Le sorrise, mentre lei gli lanciava un bacio sulla punta delle dita, per non lasciar trasparire i suoi veri sentimenti.
Non era il momento, non adesso. Il medico era stato chiaro al proposito, glielo aveva sussurrato mentre lo aiutava a vestire la piccola Arianna.
"Non dobbiamo dirle niente, non adesso, potrebbe avere uno shock. È meglio aspettare, lasciarle fare una notte di sonno tranquilla. Glielo diremo domani, alle nove. La prego di essere presente, è importante per sua moglie. Forse così accetterà meglio la cosa."
Erano le tre del mattino, non si sentiva particolarmente stanco, ma svuotato di ogni energia, incapace di affrontare la situazione che rischiava di sfuggirgli di mano.
Doveva pensare, fare chiarezza dentro se stesso ed elaborare un piano per addolcire l'impatto con la realtà a Laura e a tutti gli altri.
Gironzolò in macchina per le vie semideserte del centro, senza una meta precisa, riflettendo, ascoltando i propri pensieri, il dolore lancinante che svaniva per lasciare il posto alla determinazione, alla voglia di lottare per la sua creatura.
Sentiva una forza nascente dentro di sé che non sapeva di possedere e ne era felice, avrebbe dovuto affrontare una prova molto difficile il giorno dopo e ne aveva un grande bisogno.
Si augurò di riuscire a trasmettere quella stessa energia a sua moglie, quella forza di lottare contro la vita che proprio dalla vita stessa, traeva la sua origine.
La forza della vita.
Alla fine si ritrovò senza nemmeno rendersene conto sotto la propria abitazione. Salì le scale con passo felpato, per non disturbare le bambine e la suocera che sicuramente a quell'ora dormivano sonni tranquilli. Ma, aperta la porta, si trovò davanti proprio il suo viso scarno, forse evocato dai suoi pensieri, che lo scrutò per un istante, per poi chiedere:
"Tutto bene?"
Esitò un attimo, un solo attimo, indeciso, prima di rispondere:
"Sì, tutto bene." Poi incapace di sopportare il suo sguardo si rifugiò come un ladro che scappa, nella sua stanza per addormentarsi immediatamente, sprofondando in un mondo buio popolato di incubi.
Lo svegliò il suono del telefono che aveva penetrato il suo stato di incoscienza per riportarlo alla realtà.
Afferrò in modo meccanico la cornetta sul suo comodino, ma qualcuno nell'altra stanza aveva già risposto. Sicuramente la suocera.
La sua mente intorpidita percepì un tono allegro, qualche frase inframezzata da risate soffocate dai rimproveri della nonna.
"Sh! Non fate chiasso! Sveglierete vostro padre che sta dormendo. È tornato a notte fonda, lasciatelo riposare ancora un po'."
"Sì è nata questa notte, non so altro... ti ritelefono."
Giovanni cominciò a ricordare e la prima immagine che affiorò alla sua mente era la stessa che lo aveva perseguitato nei suoi incubi: era Laura che in uno studio spoglio, davanti ad uno stuolo di medici imbarazzati piangeva.
Guardò la sveglia, erano le otto e quarantacinque, era già tardi, forse non sarebbe arrivato in tempo ed iniziò con frenesia a vestirsi con quello che capitava.
Una volta in macchina lottò contro il tempo, attraversando la città a velocità folle, superando senza fermarsi i semafori rossi, parcheggiando in divieto di sosta, incurante della certezza che la macchina sarebbe stata rimossa, ma fu una lotta inutile che lo vide, alle nove e mezzo, entrare trafelato e sconfitto nel reparto di maternità, cercare con lo sguardo la moglie nella stanza vuota, chiedere notizie ad una infermiera occupata a riempire una anonima cartella di dati.
"È al secondo piano, non può sbagliare. L'ufficio a fianco della nursery." Gli rispose e gli rivolse uno sguardo carico di compassione.
Pensò con amarezza che le brutte notizie anche all'ospedale come ogni piccola comunità si diffondevano rapidamente.
Percorse velocemente la rampa di scale, il cuore che viaggiava a mille, arrabbiato con se stesso per il proprio ritardo, maledicendo la propria incapacità di esserle vicino ancora una volta nel momento del dolore, come era sempre stato.
Ripensò alla morte di suo padre, alla solitudine in cui aveva atteso in rianimazione, la notizia che era morto.
Le cose ancora una volta si ripetevano, era il suo destino.
Arrivò al secondo piano e si guardò intorno per capire dove andare.
Davanti a se, protetti da una ampia vetrata, vide i bambini nati in quei giorni, teneri fagottini urlanti, nelle loro culle, avvolti in goffe tutine verde-azzurro dell'ospedale che li facevano sembrare tutti uguali.
Solo un fiocco apposto sulla culla permetteva di individuare il sesso ed un biglietto a forma di nuvola indicava il nome e il peso alla nascita. Non gli sembrò di riconoscere Arianna.
Di fianco, in un piccolo ufficio, ricavato con un divisorio di vetro che garantiva un po' di riservatezza, stava Laura, seduta su una sedia, le braccia abbandonate lungo i fianchi, la schiena curva, l'espressione vuota.
Era sola.
Ebbe conferma dal suo sguardo che era arrivato troppo tardi. Come lo vide, si rifugiò tra le sue braccia, tremando, senza piangere.
"Non sai che cosa è successo. Mi hanno chiamato per un colloquio. Mi hanno detto che la bambina forse ha dei problemi, non ne sono ancora certi, ci vorranno analisi del sangue, faranno la mappa cromosomica, hanno parlato di trisomia. Sono dei pazzi!" Aveva bisogno di essere rassicurata e lui sapeva che non lo avrebbe potuto fare.
"Mi hanno parlato di segni rivelatori, il taglio degli occhi, la forma del viso, una mancanza di tonicità nella muscolatura, ma non sanno che anche Carlotta ha gli stessi occhi da orientale, devi dirglielo, è un errore, un grande, tragico errore, sono proprio dei pazzi!" e si mise finalmente a piangere senza ritegno, il viso distorto in una maschera tragica, mettendo a nudo la sua disperazione.
"Laura..." non sapeva come dirglielo.
"Laura..." cercò di scuoterla dal suo dolore.
"Laura..." alzò inavvertitamente il tono della voce per strapparla al suo delirio, stringendole le braccia. Lei lo guardava fiduciosa, in attesa della sua reazione.
"Laura... non è un errore!" Ecco, ci era riuscito, l'aveva detto. Adesso lo aspettava il compito più difficile. Doveva continuare.
Sapeva di essere crudele, di causarle molta sofferenza con la sua brutalità, ma non poteva fingere, lasciarla cullare in una temporanea illusione che si sarebbe comunque infranta davanti ad una realtà incancellabile.
"Laura, non è un errore, hanno voluto prepararti all'idea, lasciare che ti abitui... che ti rassegni alla possibilità... anzi alla realtà di avere una figlia con dei problemi."
"Non è possibile! Ti sbagli anche tu, come loro!" Gridò, poi la sua voce si spense.
Cercava ancora di illudersi, di aggrapparsi ad un esile filo di speranza.
Cercò di addolcire le sue parole per consolarla.
"Vedrai, sarà ugualmente una bella bambina, ci darà delle soddisfazioni, dicono che i bambini Down siano molto dolci, affettuosi ed abbiano tanto, tanto bisogno di amore!" Ma lei non lo ascoltava più, si era chiusa le orecchie con le mani e urlava, piangeva, imprecava, sorda ad ogni consolazione.
Chiamò una infermiera che le fece una iniezione per calmarla e lo aiutò ad accompagnarla nella sua stanza.
La fecero distendere sul letto.
Laura si rannicchiò in posizione fetale, dandogli la schiena, fissando la parete bianca che aveva davanti, senza reagire alle sue parole, chiusa in un mutismo che lo spaventava ancor più delle sue urla.
Si sentiva impotente, incapace di penetrare la corazza che aveva eretto tra se e gli altri per difendersi.
Portarono la bambina in una culla trasparente, era tranquilla, sorrideva ignara del trambusto che la sua venuta al mondo aveva provocato e di tanto in tanto, sbadigliava.
La chiamò ancora.
"Laura, hanno portato Arianna! Vuoi prenderla in braccio?" Ma lei rimaneva immobile, indifferente, chiusa al mondo e alla sua realtà, incapace di accettare il suo destino.
Riprovò nuovamente.
"Laura, guardala, ti prego!" la esortava, sperando di scuoterla dal suo isolamento.
"Ha bisogno di te, ha bisogno di noi, del nostro amore!" ma lei rimaneva in silenzio.
"So che sei coraggiosa, che troverai la forza di amare la tua creatura, quella creatura che ti sei portata dentro per molti mesi anche se adesso ti sembra di non riuscirci. La sua nascita è comunque un dono di Dio, una sorta di prova nel cammino della nostra esistenza, perché io credo che Lui non ti carichi di un peso se non è certo che tu sia in grado di sopportarlo, di prendertene carico. Vedrai che ci riuscirai, prima o dopo, a trovare dentro di te la forza per sopportarlo, ne sono sicuro!"
Parlava a lei che fingeva di non sentire, ma parlava anche a se stesso per trovare una spiegazione plausibile alla casualità con cui la natura aveva unito i loro cromosomi apportando quell'errore.
Ricordò la spiegazione del pediatra, la notte del parto.
"È una anomalia genetica relativamente frequente nelle donne della sua età, un rischio che può essere previsto solo con l'amniocentesi. Sua moglie non l'ha fatta?"
"No, non l'ha fatta."
Lui lo aveva guardato con biasimo.
"Avrebbe dovuto."
Non gli rispose che era stato lui che non aveva voluto, perché sarebbe stato inutile poiché la sua fede non gli avrebbe permesso di uccidere la sua creatura anche se lo avesse saputo prima della sua nascita. Non avrebbe sicuramente capito. Era un medico e filtrava gli eventi con la lente della razionalità senza curarsi delle implicazioni morali che la sua affermazione comportava.
Lo lasciò continuare nella spiegazione scientifica della tragedia che si era abbattuta sulla loro vita.
"Le dicevo che dopo la fecondazione, le coppie di cromosomi del padre e della madre si dividono per creare una nuova coppia di cromosomi di cui una metà proviene dal padre e l'altra dalla madre, dando origine alla nuova vita con caratteristiche uniche ed irripetibili, contenute proprio in quella sequenza di geni. Talvolta capita, come nel vostro caso, che il cromosoma 21 della madre non si divida correttamente e unendosi alla metà di quello del padre crei un nuovo cromosoma con un errore genetico, la Trisomia 21 per l'appunto."
Naturalmente ne aveva sentito parlare, non era uno sprovveduto, ma non aveva mai pensato di doversi trovare in quella situazione. Aveva voluto approfondire tutte le implicazioni, per essere preparato ad affrontare ciò che lo aspettava.
"Che cosa comporta?"
"Un ritardo mentale più o meno grave, uno sviluppo fisico più lento, difficoltà di linguaggio, predisposizione a numerose malattie..."
Era rimasto senza fiato, come un pugile che riceve un colpo a tradimento, poi si era riscosso riflettendo su quel piccolo pezzetto di cromosoma che si era rifiutato di separarsi e che avrebbe determinato in quella innocente creatura un abisso di sviluppo tra sé e gli altri.
Dentro al suo cuore aveva una sola certezza: aveva solo loro, aveva bisogno di loro. E lui aveva un disperato bisogno di Laura.
"Vedrai, troverai la tua forza!" Mormorò mentre piangeva.
E dentro di sé pregò perché questo avvenisse in fretta.
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